giovedì 25 luglio 2013

Giro di vento

Di Andrea De Carlo avevo già letto… sì, un attimo… Due più Due… no, scusate, Due di Due, che parlava di… di… oddìo, non me lo ricordo, così come non sono riuscito a ricordarmelo nemmeno dopo che un amico me ne ha raccontata di nuovo tutta la trama. Buio completo. E poi avevo letto anche… anche… quello… ma sì, sì, trattava di fantapolitica, forse. Era… boh, non mi ricordo nemmeno il titolo. Ecco, adesso, con questo… Giro di vento (perdonate la pausa, sono dovuto andare a riguardare la copertina…), mi sta succedendo la stessa cosa. Sembra che le cose che leggo del De Carlo facciano la stessa identica fine delle parole che sento uscire dalla bocca di mia suocera.


Ma forse di questo mi rimarrà in mente qualcosina di più, purtroppo, anche solo per il fatto che ne sto scrivendo. Il primo pensiero che si formula leggendo è che questo è un libro scritto apposta per decerebrati: il lettore non deve fare nulla, pensare nulla, interpretare nulla, riflettere su nulla, né tantomeno trarre conclusioni personali. Pensa a tutto il De Carlo che sciorina azioni, pensieri e intenzioni nascoste dei protagonisti, dicendo e non mostrando, in una serie infinita di “questo fa…” “questo dice…” “questo pensa…”, e dopo un po’ ti si gonfiano due palle che non se ne può più.
Di solito questo è un errore nel quale cadono i dilettanti dello scrivere, e quando ti accorgi che lo fa un professionista pensi sempre che l’abbia fatto apposta per farti capire qualcosa. Ma cosa? A che scopo? Non l’ho capito mica. Forse per rendere meglio i personaggi, per far capire meglio le situazioni o per spiegare cosa c’è dietro ad esse, ma questa spiegazione non regge visto che ci pensa l’autore stesso a fornirti conclusioni e morali senza che tu glielo debba chiedere o ti ponga il problema. Fatto sta che con la metà delle pagine il libro sarebbe stato molto più scorrevole. Se fosse stato un testo da valutare lo avrei abbandonato al quarto capitolo: ho continuato solo perché mi sono assunto da solo, accidenti a me, l’onere di dover scrivere dei libri che leggo.
La trama sarebbe potuta anche essere interessante, ma dopo poco ti accorgi che l’autore specifica troppe cose, insiste su troppe descrizioni, e per riuscire ad andare avanti sei costretto a deciderti a saltare le esposizioni prolisse di vestiario e stati d’animo, così come le reiterate  insistenze sulla contrapposizione tra vita di città e vita di campagna e sullo stereotipo dei soliti cittadini che si ritrovano a dover fare i conti con le solite scomodità del contatto diretto con la natura. Di salto in salto arrivi fino in fondo a fatica attraversando – e come poteva mancare! – il più che scontato sconfinamento sul sesso, per giungere ad un finale in cui l’esplosione delle psicopatologie represse ricalca la classica dinamica del gruppo di persone costrette loro malgrado in uno spazio confinato. Deludente, e il fatto che me l’abbiano prestato non allevia la sensazione di inutilità.
Infine, intitolando tutti i capitoli con la prima riga del capitolo stesso, immagino che il De Carlo avrà ritenuto di fare una furbata obbligandoci a leggere due volte immediatamente consecutive quelle stesse parole.
Ma di che cosa stavo parlando?

Il Lettore

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