Di Andrea De Carlo avevo già letto… sì, un attimo… Due più Due… no,
scusate, Due di Due, che parlava di…
di… oddìo, non me lo ricordo, così come non sono riuscito a ricordarmelo
nemmeno dopo che un amico me ne ha raccontata di nuovo tutta la trama. Buio
completo. E poi avevo letto anche… anche… quello… ma sì, sì, trattava di
fantapolitica, forse. Era… boh, non mi ricordo nemmeno il titolo. Ecco, adesso,
con questo… Giro di vento (perdonate
la pausa, sono dovuto andare a riguardare la copertina…), mi sta succedendo la
stessa cosa. Sembra che le cose che leggo del De Carlo facciano la stessa
identica fine delle parole che sento uscire dalla bocca di mia suocera.
Ma forse di questo mi
rimarrà in mente qualcosina di più, purtroppo, anche solo per il fatto che ne
sto scrivendo. Il primo pensiero che si formula leggendo è che questo è un
libro scritto apposta per decerebrati:
il lettore non deve fare nulla, pensare nulla, interpretare nulla, riflettere
su nulla, né tantomeno trarre conclusioni personali. Pensa a tutto il De Carlo
che sciorina azioni, pensieri e intenzioni nascoste dei protagonisti, dicendo e
non mostrando, in una serie infinita di “questo fa…” “questo dice…” “questo
pensa…”, e dopo un po’ ti si gonfiano due palle che non se ne può più.
Di
solito questo è un errore
nel quale cadono i dilettanti dello scrivere, e quando ti accorgi che lo fa un
professionista pensi sempre che l’abbia fatto apposta per farti capire
qualcosa. Ma cosa? A che scopo? Non l’ho capito mica. Forse per rendere meglio
i personaggi, per far capire meglio le situazioni o per spiegare cosa c’è dietro
ad esse, ma questa spiegazione non regge visto che ci pensa l’autore
stesso a fornirti conclusioni e morali senza che tu glielo debba chiedere o ti
ponga il problema. Fatto sta che con la metà delle pagine il libro sarebbe
stato molto più scorrevole. Se fosse stato un testo da valutare lo avrei
abbandonato al quarto capitolo: ho continuato solo perché mi sono assunto da
solo, accidenti a me, l’onere di dover scrivere dei libri che leggo.
La trama sarebbe potuta
anche essere interessante, ma dopo poco ti accorgi che l’autore specifica
troppe cose, insiste su troppe descrizioni, e per riuscire ad andare avanti sei
costretto a deciderti a saltare le esposizioni prolisse di vestiario e stati d’animo,
così come le reiterate insistenze sulla contrapposizione
tra vita di città e vita di campagna e sullo stereotipo dei soliti cittadini che si ritrovano a dover fare i
conti con le solite scomodità del contatto diretto con la natura. Di salto in
salto arrivi fino in fondo a fatica attraversando – e come poteva mancare! – il
più che scontato sconfinamento sul sesso, per giungere ad un finale in cui l’esplosione
delle psicopatologie represse ricalca la classica dinamica del gruppo di
persone costrette loro malgrado in uno spazio confinato. Deludente, e il fatto
che me l’abbiano prestato non allevia la sensazione di inutilità.
Infine, intitolando tutti i
capitoli con la prima riga del capitolo stesso, immagino che il De Carlo avrà
ritenuto di fare una furbata obbligandoci a leggere due volte immediatamente consecutive
quelle stesse parole.
Ma di che cosa stavo
parlando?
Il Lettore
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