giovedì 27 febbraio 2014

Il conto delle minne

Dopo Andrea Vitali e quell’altra, la… non mi ricordo il nome, sì, quella lì, giovane, l’autrice di quella cagata con l’anatomopatologa, la scopiazzatrice della Cornwell, va be’… alla fine chissenefrega, ecco un altro medico che a un certo punto della propria vita si è messo a sfornare romanzi. Una ginecologa, per la precisione. Siciliana.


Le minne del titolo sono un tipico dolce catanese e la tradizione vuole che debbano andare sempre in coppia, così come le mammelle, il seno femminile, simbolo di vita e femminilità e oggetto del desiderio maschile. Dalle minne Giuseppina Torregrossa parte per raccontare sia di temi cari a lei e all’universo femminile, come  l’amore, il tradimento, la malattia e la vecchiaia, l’infanzia e la disillusione, sia per compiere un excursus sulla vita delle donne della sua famiglia e sul cosa significa essere donna oggi in Sicilia.
Narrare delle donne a lei vicine all’autrice riesce bene, e ne nasce una prima parte del libro divertente e ammaliante nella quale si penetrano con interesse sia l’universo femminile che quello siculo, scavando in particolare nella magia di quel feminino trasmesso con amore dalla nonna alla nipote.
Peccato però che la Torregrossa esaurisca i temi che voleva trattare nella prima parte del romanzo, e sia costretta a ricorrere ad una trama abborracciata per poterlo terminare. Da metà libro il tono cambia: da interessante diventa banale, da frizzante si trasforma in scadente, a tratti francamente noioso, e anche le scelte e i comportamenti della protagonista fanno emergere una figura lontana dall’immagine che si vuole dare della Donna con la “D” maiuscola. Un vero peccato.
Anche perché nello scaffale dei libri ancora da leggere ne ho un altro della Torregrossa, e dopo queste premesse chissà quando mi verrà la voglia di dargli un’occhiata.
Il Lettore 

martedì 25 febbraio 2014

I salici ciechi e la donna addormentata

Avete presente quando vi prende sete, ma sete veramente, una sete di quelle che vi afferrano dopo una bella corsa in un giorno d’estate? Pensate al momento in cui la soddisferete trangugiando un bicchierone di acqua fresca, limpida, cristallina, anche leggermente gassata grazie, a me piace così.

La lettura di Murakami mi fa venire in mente questo: bere un bicchiere d’acqua quando si ha sete.


I salici ciechi e la donna addormentata è una raccolta di 24 racconti che Haruki Murakami ha scritto nell’arco di vent’anni. Bellissimi. La scelta editoriale di questo lungo intervallo di tempo ha fatto sì che in questa antologia si trovino raccolti molti argomenti della tematica dello scrittore giapponese, e per questo motivo la sensazione che più emerge andando avanti è la sorpresa: nell’iniziare ogni racconto non sai mai in cosa stai per imbatterti, se nell’assurdo o in una rievocazione autobiografica, nella presenza dell’aspetto fantastico nella vita quotidiana o nell’introspezione della solitudine, se stai per leggere una novella in cui dominano leggerezza e umorismo o una tragedia di quelle che Murakami sa descrivere in modo così realistico da far venire i brividi.
Intuizioni folgoranti, ispirazioni sorprendenti fanno da contrappunto a storie che descrivono la normalità più assoluta, “senza trama e senza finale”, come direbbe Cechov, e ad altre le cui conclusioni ti lasciano spaesato, come in La tragedia nella miniera di carbone. Da un racconto all’altro cambiano le ambientazioni e le atmosfere, ma resta invariato quello stile squisito al quale Murakami ci ha abituato permettendoci una lettura fluida che risulta difficile da interrompere. La tecnica che utilizza Murakami è un raccontare i sentimenti per immagini, mostrando dolcezza, tristezza, malinconia e perfino orrore attraverso semplici descrizioni di azioni in tono discorsivo. Nel 2013 il Nobel non glielo hanno assegnato, ma sono sicuro che prima o poi non gli sfuggirà.
Un grosso plauso va anche alla traduttrice Antonietta Pastore per aver saputo utilizzare un italiano pressoché perfetto, e ai curatori della Einaudi che mi hanno fatto registrare un solo refuso in un libro di quasi 400 pagine.
Il Lettore

domenica 23 febbraio 2014

Lo Squizzalibro di domenica 23 febbraio

Okay, okay, le ultime puntate l’ho rese veramente ostiche, lo ammetto. Per farmi perdonare stavolta la farò semplice, ma poi non state a lamentarvi che non vi divertite…


1 – Il libro da indovinare oggi è una raccolta di racconti. Molto famosa.
2 – L’autore è giapponese. Molto famoso.
3 – Nel titolo si contano due nomi comuni, due aggettivi, due articoli determinativi e una congiunzione. Nessun verbo.
4 – Il primo racconto inizia con “Chiudendo gli occhi, sentii l’odore del vento.”; l’ultimo termina con “Ma perlomeno adesso aveva il suo nome, suo e di nessun altro.”.
5 – Uno dei racconti parla di gatti.
Scommetto che l’avete indovinato già al terzo indizio. Ditemi, dov’è il divertimento?
Freereader

venerdì 21 febbraio 2014

Un parallelo tra Monet, Pissarro e… Proust (???)

Poco fa, in una delle rarissime occasioni in cui accendo la televisione di mia spontanea volontà, mi sono messo a seguire un’interessante trasmissione sulla pittura impressionista, che verteva in particolare su come e quanto Monet e Pissarro siano stati suggestionati dall’opera di Turner durante il periodo del loro volontario esilio britannico. La famosa tela House of Parliament Sun di Claude Monet rappresenta un esempio del concetto:


Documentario interessante e realizzato benissimo, chiaro senza sfoggiare una ridicola terminologia da critico d’arte ed esplicativo per il gran numero di tele inquadrate in primo piano, nella globalità e nei particolari. Molto meglio di Sanremo. Qualcosina di arte ne capisco, ed ho apprezzato la spiegazione che non conoscevo su una delle tecniche adoperate dai due artisti nel comporre i loro paesaggi, anche se entrambi hanno sempre negato di essere stati influenzati dal pittore inglese di cui a detta loro nemmeno conoscevano le opere. Bravi ma bugiardi: c’è la loro firma nell’elenco dei visitatori di una mostra londinese di Turner.
Piccola digressione: se le opere d’arte (!) moderna che vengono realizzate oggi, come ad esempio quelle esposte l’altro giorno a Bari,  possedessero una sia pur minima percentuale del valore intrinseco di un Monet, allora forse non sarebbero state gettate nel cassonetto dei rifiuti dall’inserviente che le ha scambiate, secondo me con tutte le ragioni possibili, per semplice spazzatura. A dimostrazione del fatto che molte volte un inserviente ne capisce più di un critico d’arte. Chiusa digressione.
Ma adesso voi direte: e tutto ciò con la letteratura cosa c’entra?
Proprio nulla.
Intanto gustatevi questo Boulevard Montmartre de nuit, di Camille Pissarro, poi continuo.


È che mentre mi gustavo il tocco lieve di Monet (sia pure solo a schermo) mi è venuto pensato un concetto strano, ho effettuato tra me e me una rapidissima (e personalissima) analisi su una delle differenze possibili di fruizione tra un’opera visiva e un’opera letteraria: il tempo necessario per poterla apprezzare.
Per fare un esempio terra terra, prendiamo una tela: chiunque, a colpo d’occhio, può decidere in un attimo se quel dipinto lo soddisfa oppure no.
Mi piace, non mi piace: un secondo.
Poi magari, perdendoci più tempo, informandosi, analizzando da più angolazioni, studiando percorsi, tecniche, storia e motivazioni, si possono approfondire le ragioni che hanno portato a quella scelta e in extrema ratio si può anche cambiare l’opinione primigenia. Ragionandoci sopra, magari aiutati da qualche esperto, ci si può documentare sul perché e il percome del processo creativo dell’artista, e rafforzare o disquisire la prima impressione. Che però si forma quasi sempre in modo immediato.
E così anche per una scultura o per qualsiasi opera visiva.
Questo non è però il caso della letteratura, per apprezzare la quale si ha bisogno almeno del tempo necessario a leggere l’opera. Leggendo un romanzo non può sorgere un’opinione immediata, bisogna prima terminarlo utilizzando una certa quantità di tempo che può variare da qualche minuto per un racconto a qualche mese per A’ la recherche du temps perdu di Marcel Proust (la mia velocità media di lettura è di circa cinquanta pagine l’ora, di conseguenza per finire la Recherche mi occorrerebbero tre giorni pieni senza mai staccare…). Solo una volta impiegato quel tempo ci si potrà domandare se la lettura è stata soddisfacente e quanto ci abbia appagato.
Uno spunto per filosofeggiare, da cui si può partire per seguire diverse direzioni.
Una delle possibili conclusioni di questa riflessione astrusa potrebbe essere quella di valutare bene a priori cosa ci si appresta a leggere, perché dal momento che dobbiamo impegnarci del tempo, sarebbe meglio che lo si impieghi per qualcosa che merita.
Per fortuna per leggere questo post fantasioso avete perso meno di cinque minuti.
Il Lettore e lo Scrittore

mercoledì 19 febbraio 2014

Il posto di ognuno

L’estate del Commissario Ricciardi è il sottotitolo di questo caldo, afoso, sudato, torrido romanzo di Maurizio De Giovanni. Lo so e chiedo venia, avevo scritto che per un pezzetto non avrei più parlato dell’autore napoletano, e infatti avevo parcheggiato questo libro sopra al mio comodino fin da prima di novembre. Poi l’altra sera mi sono detto ma sì, và, perché no, potrebbe essere ora. E in due serate l’ho finito, complici la vicenda e lo stile narrativo che non permette un momento di tregua.


Tranquillizzatevi: non mi dilungherò, perché di Ricciardi e del suo autore ho già parlato abbondantemente (per avere un’idea basta che clicchiate sul suo nome nell’elenco delle etichette qui a fianco), e non è il caso di stare a ripetere cose già dette.
Me ne manca ancora una da leggere per completare l’en plein, ma se dovessi fare una classifica delle avventure del Commissario Ricciardi probabilmente piazzerei questo romanzo al primo posto. Leggendo si avverte l’empatia con cui il giornalista sviluppa i suoi personaggi, cesellandone la caratterizzazione un poco di più ad ogni puntata: in ogni nuova vicenda De Giovanni aggiunge particolari alla vita privata dei protagonisti, in una serie di storie parallele alla vicenda principale che permettono di entrare in sintonia  con il variopinto mondo della Napoli degli anni ’30. Amore, gelosia e le tragedie che ne derivano sono i concetti portanti che questa volta fanno da sfondo all’indagine poliziesca, come sempre condita dall’implicita condanna della situazione politica dell’epoca e dalla profonda umanità sia degli interpreti principali che dei comprimari, che si muovono spinti da sentimenti profondi e ben delineati.
Come sempre stile impeccabile, tecnica sopraffina, curatela del libro ineccepibile, lettura coinvolgente. Che si può chiedere di più?
Il Lettore

lunedì 17 febbraio 2014

Zia Antonia sapeva di menta

Andrea Vitali è un autore da milioni di copie vendute e sforna quasi sempre libri che forniscono una lettura piacevole, leggera e rilassante, adatta ai mesi estivi più che alle sere invernali,  ma che può essere a volte anche impegnativa.


Nella vita Vitali non è solo uno scrittore: in realtà la sua professione primaria è quella di medico nel paese nel quale ambienta le sue storie ispirategli dagli stessi pazienti. Storie e personaggi che fanno emergere un mondo variopinto e quasi caricaturale per la marcata ironia con la quale sono tratteggiati. Di questo autore ho letto almeno una decina di romanzi e devo dire che per lo più li ho trovati gradevoli, un panorama di debolezze umane raccontate con amore e comprensione e che coprono diverse epoche storiche spaziando dagli inizi del Novecento fino ai giorni nostri.
In ogni romanzo Vitali conduce il lettore tenendo bene in mano le redini della narrazione, fornendo dettagli a spizzichi, in modo razionato, e questo fa sì che la tensione narrativa ne sia incrementata e che solo quando vuole il narratore si arrivi a capire appieno il senso della storia. Succede lo stesso anche nei dialoghi: sono costruiti in modo che il lettore non sempre capisca immediatamente né chi sta parlando né il senso di alcune battute. Lo comprende veramente solo a posteriori, e ciò aumenta la sua curiosità e lo spinge ad andare avanti, insieme alla tecnica del dire e non dire, a mezze parole, a frasi smozzicate, lasciando molto all’immaginazione.
Certo, non tutti i romanzi di Vitali sono sullo stesso livello. Alcuni risultano troppo ricchi di comprimari e storie che si dipanano in paralleli narrativi complicando non poco la lettura. Non succede così per questo Zia Antonia sapeva di menta, che procede linearmente fino ad una simpatica conclusione che lascia sì qualche punto oscuro, ma che nel complesso si fa apprezzare.
Il Lettore

sabato 15 febbraio 2014

Uno splendido disastro

Il libro di oggi è un fenomeno editoriale: scritto da un’assoluta esordiente (!), spedito a varie case editrici che se lo contendono a cazzotti (!!), appena uscito vende milioni di copie negli States (!!!), nelle aste per i diritti esteri se lo disputano a fucilate (!!!!), l’aggiudicazione della possibilità di farne un film finisce a cannonate (!!!!!).
Che il tutto sia vero, poi, è un altro discorso.

Fatto sta che io l’ho piantato prima ancora di essere arrivato a metà.


Per oggi faccio uno strappo alla regola che mi sono imposto di non raccontare le trame dei romanzi che recensisco, e vi fornisco in poche parole una sinossi del romanzo. Perché merita. L’originalissima storia si svolge così:
Lui (top del top della maschiaggine, innamorato da subito di Lei): “Dammela.”
Lei (un pochino sottotono, ma sotto sotto gran fica): “No.”
Lui: “Dammela.”
Lei: “No!”
Lui: “Dammela!”
Lei: “E va be’…”
Vicenda satura di profondi risvolti psicologici, che ricalca pari pari la trama del Twilight di Stephanie Meyer con l’unica ma sostanziale differenza che lui non è un vampiro. Per il resto, una fotocopia. Amori adolescenziali nel campus universitario. Basta.
Il problema è che di aspetti angoscianti il romanzo ne contiene diversi, a partire dallo stile: la storia è scritta benissimo, con tecnica e maestria. Avverbi pressoché inesistenti, forse qualche aggettivo di troppo ma tutto mostra e non dice, azione su azione e poche masturbazioni mentali (per questo sono riuscito a giungere quasi a metà, e nessuno mi toglie dalla testa che il merito non è dell’autrice).
Ma contenuti insulsi: tutto il romanzo è basato sull’andare a letto o meno e come. Mi si dirà: ma è dalla notte dei tempi che nei romanzi non si parla d’altro! Sarà anche vero, ma nei romanzi seri l’argomento è stato trattato con quella classe che in questo fa la figura della grande assente. In questo caso, gli episodi e le azioni di protagonisti e comprimari portano con sé un messaggio estremamente negativo: il romanzo è un inno al “se non sei bello non ti ci vogliamo”, alla boxe clandestina, al gioco d’azzardo, alle scommesse illegali, alle ubriacature perché più stai male dopo e più fa fico, alla rissa a tutti i costi, alla scopata libera e più te ne fai meglio è, all’inosservanza dei limiti di velocità e al “vivi come viene viene”.
La cosa angosciante è proprio questa: se i giovani d’oggi si entusiasmano per la violenza e l’abuso di alcool, se amano leggere solo di sesso in quantità industriale, se sono attratti solo da personaggi stereotipati uguali a tutti i protagonisti dei telefilm americani, significa che siamo ridotti proprio male.
Non lamentiamoci allora se case editrici lungimiranti ne approfittano e fanno scrivere storie che soddisfano tali appetiti montandone casi editoriali: non crederò mai che un’esordiente come una Jamie McGuire riesca al primo colpo ad essere incisiva e ritmica, chiara e scorrevole, sia pure lavorando su una trama scopiazzata da un altro libro di successo.
Editorìa spazzatura, nient’altro. Come la televisione.
Il Lettore

giovedì 13 febbraio 2014

Parliamo di musica

Quando leggi un libro scritto da una persona che conosci, e quando questo è oltretutto interessante, allora la cosa è ancora più piacevole.
Ho conosciuto Stefano Bollani qualche anno fa, quando ancora non era così famoso come oggi, e nel corso di diverse chiacchierate nei ristoranti e nel backstage dei teatri di Orvieto mi ha dato modo di farmi l’opinione di una persona alla mano, simpatica e socievole, oltre che di un pianista eccezionale.

Chissà se il successo lo avrà cambiato, e quanto.


Mi piace ascoltare buona musica, e mi piace anche leggere sulla buona musica, prediligendo testi che illustrino l’approccio creativo ad essa, sia dal punto di vista del compositore che da quello dell’esecutore. Libri come Kind of Blue di Ashley Kahn, nel quale è esaminato nei dettagli il percorso creativo e pratico che ha portato alla nascita del capolavoro di Miles Davis, o Come il Jazz può cambiarti la vita, nel quale un altro mostro sacro come Wynton Marsalis riversa molte sue considerazioni in ambito musicale, li ho divorati come fossero romanzi e mi hanno dato lo stesso piacere.
Ora è il turno di Stefano Bollani, coadiuvato dal giornalista e produttore Alberto Riva, di imprimere sulla carta ciò che pensa della musica come autore ed esecutore tra i più bravi dell’odierno panorama musicale italiano. E lo fa con un linguaggio semplice e schietto, in termini chiari e molto spesso in modo divertente: “Mi piace ascoltare, in ambito classico, le interpretazioni che non mi convincono. Più genericamente, mi piace ascoltare la musica che non mi piace. Se la conosci, la eviti.”
Un po’ come quando leggi le prove di certi aspiranti scrittori…
Bollani scrive i suoi pensieri riguardo la musica, in particolare il jazz, e l’improvvisazione, arricchendo la trattazione con numerosi aneddoti su altri musicisti e ponendo l’accento sulla condanna al sistema attualmente in vigore che relega l’insegnamento scolastico della musica agli ultimi posti: La musica dovrebbe far parte del progresso cognitivo di ognuno di noi. Ti insegnano a disegnare e non a cantare, ti insegnano a leggere e a capire le arti figurative ma non ad ascoltare la musica, ti insegnano a godere del suono di una poesia e non del suono di un clarinetto. Ti insegnano la storia della cultura del tuo e di altri paesi e non ti parlano mai dell'apporto dei musicisti. Giuro che non capisco perché.
Oppure: “La storia della musica come la studiamo noi (quando la studiamo, visto che nei nostri licei è la grande assente) è quella della musica occidentale. Nessuno ci racconta di altri mondi, di altre musiche (…). Questa visione della musica limita le nostre possibilità di ascolto.
Grandi e amare verità, in un libro piacevole dalla lettura veloce e interessante.
Da persona che tutt’al più riesce a strimpellare malamente una chitarra (ma che sa anche leggere uno spartito e costruire gli accordi su un pianoforte), e che invidia non poco quelli che si possono permettere di salire su un palco, ho provato ancora invidia e ammirazione quando Bollani descrive quella soddisfazione intima che pervade i musicisti dopo una session riuscita, quando li vedi sorridersi tra loro sul palco e nessun altro ne capisce il perché.
Il Lettore

martedì 11 febbraio 2014

Scilla

Tanto per chiarire la mia posizione vi dico subito che il libro di oggi mi è piaciuto e parecchio.

Faccio questo preambolo perché dopo ne esaminerò gli aspetti negativi e non vorrei che sorgessero spiacevoli fraintendimenti: mi è piaciuto, lo ripeto, l’ho divorato in due sere, ma leggendo questo romanzo ho trovato alcuni spunti da cui trarre insegnamento per evitare errori in cui i principianti dello scrivere è facile che incorrano, e dal momento che molti aspiranti scrittori seguono questo blog ho colto l’occasione per illustrare loro un paio di concetti.


Eppure Massimo Boyer non è un principiante dello scrivere: è un biologo marino, un esperto fotografo subacqueo e un divulgatore scientifico con centinaia di pubblicazioni all’attivo, e Scilla è il suo primo romanzo, una storia che intreccia la vita marcatamente autobiografica di uno studioso dei mari con quella di una femmina di squalo bianco che nel corso delle sue peregrinazioni viene a partorire nel Mediterraneo.
Come mia consuetudine, per non togliere il piacere della lettura, non vi dirò nulla della trama e tantomeno della conclusione della vicenda, fatto sta che Boyer è riuscito a costruire una storia dotata di una consistente dose di tensione narrativa con uno stile fluido e accattivante, aiutato in questo dalla narrazione in prima persona e dal ritmo colloquiale che incuriosisce il lettore e lo spinge di continuo ad andare avanti.
Ma l’autore fa di più: unisce alla storia romanzata un vero e proprio Manifesto dei diritti degli abitanti marini, in particolare degli squali, impiegando le sue conoscenze sulla biologia marina per sfatare i falsi miti dei quali il cinema sensazionalistico di pellicole come Lo squalo ci ha impregnato. Da questo libro emerge potente una figura dello squalo ridimensionata, ricondotta dagli aspetti mitizzati a quelli reali, reincorniciata nel suo aspetto più pratico di animale predatore necessario all’ecosistema marino e che invece al momento rischia l’estinzione per essere oggetto di una pesca indiscriminata che va solamente a favore del guadagno economico di società senza scrupoli.
Nei capitoli in cui Boyer si cala in mare raccontandoci della vita di Scilla si avverte tutto l’amore che l’autore prova per le creature sottomarine e l’ambiente subacqueo, e che riesce a trasmettere al lettore utilizzando quella tecnica molto particolare del narrare in seconda persona singolare: “Risali lentamente dall’oscuro abisso… l’acqua fredda si apre al tuo passaggio e ti scorre attorno…”, così poco usata ma che, qualora sia utilizzata bene come in questo caso, riesce a comunicare sensazioni fresche e immediate.
Tra gli episodi riguardanti il protagonista umano e le tappe del viaggio di Scilla tra Canale di Sicilia e Tirreno, la storia si dipana inframmezzata da una vera e propria opera di divulgazione scientifica da cui traspare, fatti alla mano, la condanna delle più o meno legali politiche di pesca portate avanti negli oceani di tutto il mondo.
Ma pur essendo un professionista della scrittura scientifico-divulgativa, purtroppo Boyer incappa in alcuni errori da “principiante entusiasta della propria opera”, che poco tolgono al piacere della lettura, intendiamoci, ma che può essere utile rimarcare ad uso e consumo degli aspiranti scrittori desiderosi di ricevere utili dritte.  Il fatto di essere caduto negli errori che dirò è in buona parte colpa anche della casa editrice: probabilmente il testo non è stato revisionato da un editor capace che si sarebbe accorto di alcune incongruenze e avrebbe saputo convincere l’autore a correggere il tiro e rendere il romanzo ancora più gradevole di come sia stato licenziato alle stampe.
In pratica, lasciando fare all’autore, gli si è permesso di cadere nel pleonasmo, nella ridondanza, nel dire “troppo” a scapito della capacità immaginativa del lettore.
Un buon editor, per esempio, avrebbe eliminato le note a fondo pagina, che in un romanzo stonano terribilmente e distraggono dalla storia. Marcare i riferimenti alle spiegazioni ci può stare, del resto qualcuno può anche sentire il bisogno che gli si spieghi cos’è un “palamito” o una “nursery area”, ma le note a pié di pagina possono essere giustificate solo nei romanzi didattici per le scuole medie e manco tanto. Meglio radunarle in appendice e che la pagina sia riempita solo dalla storia. Un romanzo deve essere un romanzo, non si può rischiare che il lato divulgativo prenda il sopravvento.
Alcuni dialoghi, soprattutto nei capitoli iniziali, sono un po’ “legnosi”, sanno di artificiale e manca loro quella naturalezza che li fa scorrere via come fossero reali (ma la situazione migliora con il procedere della storia); così come non si può mettere così, di punto in bianco, in maniera incongrua con il resto dal punto di vista del layout, un capitolo nel quale i dialoghi sono preceduti dall’iniziale del parlante, neanche fosse uno scritto per il teatro: la revisione del testo fatta da un professionista non l’avrebbe lasciato passare.
Ultima cosa: Vincenzo Cerami definisce “talpe” quei personaggi inutili che non si capisce a quale scopo siano stati inseriti e che non apportano alcunché di importante ai contenuti della narrazione. Un Boyer pieno di entusiasmo di queste talpe ne crea ben due, per inserire un tocco di thrilling in un capitolo quasi scritto apposta per loro: un buon editor gliele avrebbe uccise subito, non consentendo nemmeno una loro nascita sulla carta stampata.
Comunque poche cose, come dicevo, che poco tolgono ad un’opera interessante, che si legge bene e che consente di comprendere meglio un ecosistema dal quale ci separa soltanto un diverso modo di respirare.
Il Lettore

domenica 9 febbraio 2014

Lo Squizzalibro di domenica 9 febbraio

Questa domenica voglio essere ancora più cattivo: se vi chiedessi di indovinare un libro facile, che gusto ci sarebbe? Del resto della Settimana Enigmistica a me piace risolvere gli schemi ostici, non quelli delle prime pagine che lascio sempre in bianco. Volete mettere uno schema semplice con gli “Incroci obbligati sillabici”? O con il “Gingillo”? O con i “Triplici incroci obbligati”? O con l’”Enigma senza schema”? O con…


Tanto non lo indovinerete mai, comunque…
1 – È un romanzo, ma anche una dichiarazione d’amore nei confronti del mare e di tutti i suoi aspetti (no, non è Moby Dick).
2 – L’autore è italiano, abbastanza conosciuto, ma in ambienti ristretti che non sono quelli letterari.
3 – La casa editrice è piccola, perlomeno io non l’avevo mai sentita nominare.
4 – Il messaggio del romanzo si contrappone a quello di numerosi film di cassetta.
5 – Uno dei due protagonisti non è umano.
Per finire, vi darò la soluzione martedi.
Sono perfido, lo so.
Freereader

venerdì 7 febbraio 2014

Il paradosso terrestre

Un’altra raccolta di racconti. Come dice Enrico Vaime nella prefazione (e, a proposito, sarà anche un buon regista, non dico di no, ma sarebbe meglio che le prefazioni le lasciasse scrivere a qualcun altro…): “Di solito dei racconti si pubblicano come terzo libro. Marco Presta, alé, lo propone come primo. Perché perdere tempo?


Il conduttore del Ruggito del Coniglio quindi ha pubblicato per primo questo tourbillon di racconti, e sicuramente lo scriverli gli è servito ad aggiustare il tiro per giungere poi a quel Un calcio in bocca fa miracoli che lo ha fatto conoscere anche come scrittore da quelli come me che non ascoltano la radio.
Esercizi di scrittura, per affinarsi, correggersi ed allenarsi. Qualcuno dei racconti di sicuro è piacevole, ma non molti: la maggior parte lascia il tempo che trova. L’ho finito ieri, e se dovessi interrogarmi sul che cosa mi hanno lasciato potrei affermare che ne ricordo solo un paio, forse tre.
Sì, c’è l’ironia, a volte riesce a strapparti un sorrisetto, ma c’è poco da gridare al capolavoro. Si possono apprezzare la grande fantasia, la ricerca del surreale; si può plaudire alle impreviste conclusioni, alla ricercatezza del linguaggio e alla pulizia dello stile, ma alla fine sono raccontini che non posseggono il diverso tipo di spessore del quale Presta è riuscito a dotare il Calcio in bocca.
Be’, migliorare di sicuro è migliorato, aspettiamo i prossimi.
 Il Lettore

mercoledì 5 febbraio 2014

L’uomo che allevava i gatti

E altri racconti. No, non è la biografia del Blogger de I gatti di Monte Malbe, questo è il titolo del primo libro di Mo Yan, Nobel 2012 per la letteratura. È una raccolta di novelle che può benissimo essere presa ad esempio da chi voglia studiare i criteri necessari per riuscire ad ottenere il Premio Nobel. Analizzando infatti le tecniche utilizzate dallo scrittore cinese si possono trarre delle interessanti conclusioni sui concetti presi in considerazione dalla commissione incaricata dell’assegnazione del prestigioso riconoscimento.


I concetti che dovreste fare propri nei vostri elaborati per avere una probabilità di ottenere il premio sono i seguenti:
Qualcun ‘a da morì.
Preferibilmente soggetti che suscitino compassione: i bambini sono ottimi, meglio se poveri e disgraziati, oppure donne incinta, madri di otto figli, operai licenziati o handicappati gravi. In ogni racconto di Yan c’è almeno un decesso, a volte truce a volte meno, insieme a strappamenti di occhi e aborti costretti (che costituiscono una valida alternativa). Se non fate schiattare nessuno, scordatevi il premio.
2° Tocca de esse micragnosi
Parlare dei ricchi non ti fa vincere il Nobel: meglio le ambientazioni nell’inopia più assoluta, in cui si muore di fame (vedi punto 1) e si sopravvive tra gli stenti più indicibili. I personaggi di Yan non hanno spiccioli nemmeno per comprarsi una sigaretta e di solito mangiano topi, camminano per chilometri (e mica hanno la macchina…) con ciabatte sfonde e si lavano nelle fogne a cielo aperto.
3° Gimo ‘n campagna
Le location cittadine sono snasate, meglio scenografie agresti tra contadini disperati (vedi punto 2), infiniti campi di sorgo rosso (in Cina), grano biondo (Emilia Romagna), canna da zucchero (Cuba), cotone (Alabama), caffè (Brasile), oppio (Afghanistan), coca (Colombia), costruzioni fatiscenti e sfruttamenti padronali (ma i ricatti sessuali del caporalato nei confronti di virginee contadinelle li hanno già usati).
4° A da venì Baffino!
La democrazia è noiosa, meglio una dittatura vessatoria o ancora meglio un post rivoluzione che permette di non identificare al meglio buoni e cattivi, consentendo quindi a tutti di fare la parte dello stronzo che sottomette il disgraziato protagonista. Noi che non possiamo contare su un “dopo Mao”, e un post WW2 è ormai obsoleto, dovremo accontentarci di un “dopo Renzi-Berlusconi”. Dubito che possa far vincere il premio, ma speriamo comunque che arrivi presto.
5 ° Com l’osso pel chène
Più bestie ci sono e meglio è, e che preferibilmente siano dotate di qualità soprannaturali (Mo Yan usa volpi magiche e gatti enigmatici, torelli castrati e cani mordaci) e rientrino a buon titolo in lugubri leggende popolari di quelle che i contadini (vedi punto 3) tengono molto in considerazione. Se fate squartare qualche povero animaletto nella maniera più trucida possibile guadagnate punti.
Va be’, basta scherzare. Resta il fatto che questa raccolta di racconti ha sì un certo non so cosa di affascinante, ma sono riuscito a stento a finirla annaspando di continuo nella tragedia, nella crudezza della vita dei contadini cinesi, nella brutalità degli oppressori, nei campi di sorgo rosso, tra mucchi di cadaveri di bambini e polvere che ti entra nel naso.
Una fatica.
Ma se questo ti fa vincere un Nobel…
Il Lettore

lunedì 3 febbraio 2014

Odessa

Già che la gente non leggeva molto in periodi normali, in questo momento di crisi si legge ancora di meno e tantomeno si comprano libri, e molte piccole case editrici, anche conosciute, stanno rischiando veramente di andare a gambe per aria.

Una di queste è la Liaison, storica casa editrice posizionata alle falde del Monte Bianco che nel corso della propria carriera ha pubblicato soprattutto libri sulla montagna, ma sempre contraddistinti da una qualità sia letteraria che formale sopra la media. Uno degli scrittori della Liaison è il letterato/giornalista Enrico Martinet, l’autore di questo Odessa.


Lo stile che Martinet non può utilizzare nei suoi articoli lo riversa tutto nei suoi romanzi, dando sfogo ad una ricerca letteraria in cui il formalismo soppianta la narrativa.
Odessa è una storia non facile, destinata ad un lettore che ama lo stile lento e riflessivo, sia pure steso con un ritmo rapido composto di frasi brevi e sincopate nelle quali hanno ampio spazio  le descrizioni delle luci e dei colori di una città che appare misteriosa come i suoi frequentatori. Lo stesso sottotitolo è sibillino: “La città senza”.
È una storia enigmatica, dalla ricerca stilistica esasperata in cui  le interrelazioni tra i protagonisti sono ambigue, fumose e non risolte. Sicuramente Martinet si è divertito molto a scriverla, attingendo a profonde conoscenze lessicali e psicologiche, ma questo suo divertimento va a scapito della soddisfazione del lettore pratico, colui che ama le situazioni chiare. Nel romanzo restano molte cose non esplicate, situazioni e comportamenti non chiariti, quasi che all’autore fosse interessato di più il “come” scrivere un romanzo che il “cosa” scrivere. O per lo meno che quel “cosa” avesse alla fine un senso per il lettore. Mentre finivo di leggerlo l’ho considerato una sorta di esperimento, di gioco che l’autore ha compiuto con se stesso. E ci sta anche questo.
Non è un libro che si legge facilmente, con divertimento: è un romanzo da meditazione, leggendo il quale vanno assaporate le singole frasi più che le storie, le immagini più della coerenza.
Il Lettore

sabato 1 febbraio 2014

Dieci passi per diventare uno scrittore migliore

Alcuni consigli sullo scrivere del blogger Brian Clark , trovati in rete e che mi sembrano molto ma molto formativi seppur sintetici. Si commentano da soli.

La traduzione molto libera è mia, perdonatemi.


1 – Scrivi.
2 – Scrivi di più.
3 – Scrivi ancora di più.
4 – Scrivi più che puoi.
5 – Scrivi quando non vuoi scrivere.
6 – Scrivi quando lo vuoi.
7 – Scrivi quando hai qualcosa da dire.
8 – Scrivi quando non ce l’hai.
9 – Scrivi ogni giorno.
10 – Continua a scrivere.

L’originale fa così:
Ten steps to becoming a better writer
1 – Write.
2 – Write more.
3 – Write even more.
4 – Write even more than that.
5 – Write when you don’t want to.
6 – Write when you do.
7 – Write when do you have something to say.
8 – Write when you don’t.
9 – Write every day.
10 – Keep writing.

Il Traduttore (!)