lunedì 29 gennaio 2018

Nero Wolfe sotto il torchio

Mi è capitato un altro Nero Wolfe che non avevo ancora letto. Questo risale come prima pubblicazione al 1957 e, tanto per confermare quanto detto nel post precedente, anche in questo caso il titolo italiano, Nero Wolfe sotto il torchio, è un’invenzione dei responsabili della Mondadori, in quanto negli Stati Uniti portava come titolo If Death Ever Slept.
Evidentemente, se la Morte abbia dormito o meno a noi italiani interessa di meno delle sofferenze di Wolfe quando è pressato dalla polizia, dai clienti e non ultimo dal suo fidatissimo assistente.




Anche se come personaggio a me Nero Wolfe piace molto, questo episodio mi ha un po’ deluso perché l’eclettico investigatore in pratica non fa nulla essendo assalito da un incontenibile attacco di accidia, nonché dall’antipatia nei confronti del cliente di turno. In pratica il romanzo racconta principalmente di come Archie Goodwin passa il suo tempo mentre cerca di ottemperare ai suoi doveri di fidato assistente.
Non facendo nulla il capo, il giallo diventa ben presto piuttosto noiosetto, e devo dire che l’ho anche terminato a fatica. Oltretutto in questo periodo ho anche poca voglia di leggere perché passo parecchio tempo all’aria aperta in tutt’altre incombenze affaccendato e, come avreste visto, anche il ritmo di queste pubblicazioni si è diradato.
Va be’, verranno tempi più buoni, e speriamo che anche il prossimo Rex Stout che mi capiterà sia migliore di questo.
Il Lettore 

martedì 23 gennaio 2018

Caverna nel Wisconsin

Torniamo alla fantascienza. Breve. The thing in the stone è un racconto lungo del grande Clifford Simak mai pubblicato da solo come volume ma solo insieme ad altri in numerose antologie, sia statunitensi che di altri paesi. In quelle italiane il titolo è stato modificato, come usanza normale delle nostre case editrici, con lo squallido Caverna nel Wisconsin.
Trovo che l’originale sia molto più attinente al tema trattato, e non mi riesce di capire il motivo per il quale qualche editor debba per forza modificare titoli, e a volte perfino interi brani, per adattarli ai nostri (presunti) gusti.




Wallace Daniels è un uomo che dopo aver subito un grave incidente nel quale sono morti moglie e figlio si è ritirato a vivere da eremita in un luogo pressoché disabitato. L’incidente gli ha anche lasciato strani postumi quali il trovarsi, a volte e senza poter esercitare un controllo da parte sua, calato in altre epoche del passato, o il riuscire ad ascoltare voci dalle stelle.
Esplorando una caverna “sente” che nelle profondità della roccia è intrappolata una creatura vivente, e grazie ai suoi viaggi nel tempo riesce a capire come e perché questo essere, pressoché immortale, si trova lì fin dal Precambriano (più o meno quattro miliardi di anni, giorno più giorno meno). Daniels non riesce a entrare in contatto diretto con la creatura, ma riuscirà a connettersi e capirsi con un altro essere, immateriale, che staziona nei pressi di dove è imprigionata la creatura con il compito di controllare la situazione.  



In Daniels cresce il desiderio di poter aiutare la creatura e il suo sorvegliante (amico? Amante? Servitore?) a uscire dalla situazione in cui sono intrappolati, ma i suoi tentativi di convincere le autorità (e con loro gli scienziati) che quanto intende raccontare loro non sono farneticazioni di un visionario falliranno miseramente.
Spunto molto intrigante trattato con lo stile semplice e perfetto di Clifford Simak, che non per niente è considerato uno dei più importanti scrittori di Fantascienza mai esistiti. L’unica pecca, secondo me, è quella di averne tirato fuori un racconto di solo un’ottantina di pagine, perché l’argomento si può prestare a una miriade di modi in cui essere approfondito. Ma capisco anche che qualsiasi verso possa aver preso un approfondimento ci si sarebbe trovati di fronte a serie difficoltà sul come poi uscirne in maniera plausibile e sensata. Forse anche Simak ha pensato la stessa cosa, finché alla fine si sarà detto: va be’, il sasso l’ho tirato, ritiriamo la mano e stiamo a vedere che succede.
Anche se Caverna nel Wisconsin lascia al lettore, come era nelle intenzioni dell’Autore, più interrogativi irrisolti di quanti in fondo ne chiarisca, resta comunque un gran racconto dalla prosa ineccepibile che induce a pensare a fondo sui concetti di comunicazione, solitudine e vastità dello spazio che ci circonda.
Il Lettore 

mercoledì 17 gennaio 2018

Bouncer – La saga

Con persone intelligenti fa sempre piacere confrontarsi anche quando le opinioni non sono concordanti.
Dopo uno scambio piuttosto acceso vertente sui rispettivi gusti per quello che riguarda il fumetto, o meglio, dopo essere stato rimproverato (io) per aver trattato male su questo blog alcuni autori non del tutto meritevoli (secondo lui) di essere stroncati, la discussione si è fatta più costruttiva e ho chiesto al mio antagonista se poteva consigliarmi qualcosa di buono da leggere.
Bouncer lo conosci? Mi ha chiesto.
Il fatto che sul Ferro si possa sempre contare è una certezza assoluta.




La saga di Bouncer è una creazione del poliedrico artista cileno Alejandro Jodorowsky (testo e sceneggiature) e del disegnatore francese Francoise Boucq.
Anche se Jodorowsky è forse più famoso come regista per aver creato film diventati dei cult movies, come El topo o La montagna sacra, anche nel mondo del fumetto il suo nome rientra nella cerchia degli autori più conosciuti e stimati per aver dato vita a opere basilari come L’Incal, insieme al mitico Moebius, o La casta dei Meta-Baroni, nella quale il disegno era opera di Juan Jimenez.
Dalla fantascienza al Western: lasciando per un momento il suo consueto mondo visionario e surreale, stavolta Jodorowsky ha deciso di cimentarsi con il mondo dei cowboys e con la crudezza della realtà.
Se Tex Willer è il prototipo dell’eroe positivo e invincibile (e per questi motivi è uno degli albi italiani più venduti di sempre), in Bouncer si riscontra il rovescio della medaglia: un Far West estremamente violento e iniquo, nel quale si uccide per un nonnulla.



Il protagonista della saga è il buttafuori di un saloon (da qui il titolo: Bouncer), un uomo dal tragico passato familiare (grazie al quale si ritrova monco del braccio destro), al quale capitano le più svariate avventure con un trait d’union comune: la crudezza.
Se Tex uccide solo i cattivi, nel mondo di Bouncer non è sufficiente essere una donna o un bambino per essere risparmiato. Tutti possono finire morti ammazzati nel modo più truce: bimbi, madri, anche i tipi buoni che lo sceneggiatore ti ha fatto diventare simpatici. Un fumetto violento con una scelta di immagini crude ed esplicite montate in una sequenza regolare che lascia poco all’immaginazione. L’individuazione delle inquadrature per raccontare le storie è ben scelta in modo da non permettere fraintendimenti, e i colpi di scena sono ben architettati. Nonostante la mutilazione Bouncer riesce a combattere e a sparare benissimo, e i personaggi che gli fanno da contorno, di solito estremamente inquietanti, sembra che siano usciti pari pari dai film di Jodorowsky: in genere negativi, violenti, assassini, perfidi, segnati in qualche modo nel fisico e dalla vita.



Il disegno di Francoise Boucq è chiaro e molto realistico, permette una caratterizzazione precisa e inequivocabile dei personaggi e ha molta cura dei dettagli oltre che degli splendidi sfondi nella rappresentazione dei paesaggi della frontiera americana.
La saga di Bouncer è stata pubblicata dal 2002 al 2013. Anche se estremamente violenta e con scene decisamente splatter, l’ho trovata interessante e piacevole da leggere e non mi ha fatto rimpiangere il mio Tex preferito.
E una volta tanto i disegni l’ho apprezzati.
Il Lettore 


giovedì 11 gennaio 2018

Il cuore nero dei servizi

Sono molto incuriosito dal mondo dei servizi segreti. Principalmente per le letture fatte. Ma dal momento che libri e telefilm trattano questa tematica in modo quasi del tutto dal versante oltreoceano, ho letto con molto piacere (oddìo, piacere è più che altro un eufemismo) questo saggio di Pietro Messina che esplora la situazione qui in casa nostra.
Già lo stesso chilometrico sottotitolo è sufficientemente esplicativo: “Le strutture di potere, le azioni segrete, i successi mai raccontati e gli sprechi senza fondo. Da documenti e testimonianze esclusive, la verità sull’intelligence italiana”. Sul fatto che racconti la pura verità ho qualche dubbio, così come sul fatto che sia tutta e completa, ma dal momento che di questi argomenti di solito l’uomo comune non ne viene mai a sapere nulla (e giustamente, altrimenti cosa ci sarebbe di segreto?), mi accontenterò di attribuire un fondo di verità al 70% delle informazioni scritte dal Messina.
Già così, ci sarebbe solo da strapparsi i capelli e chiedere asilo politico in Bangla Desh.




Avete presenti i bellissimi romanzi di Frederick Forsythe, John Le Carrè, David B. Ford, Ian Fleming, Tom Clancy e altri? Avete presente l’affascinante mondo degli agenti segreti? Bene, scordatevi tutto. Qui in Italia le cose succedono in un’altra maniera rispetto al resto del mondo. Qui da noi sono riusciti a trasformare anche l’intrigante e pericoloso mondo delle spie in una napoletanata da quaqquaraqquà.
Partendo dalle riforme politiche del mondo dell’intelligence, con le quali hanno cambiato i nomi dei servizi segreti: dai precedenti Sismi, Sisde e Cesis, i burocrati si sono inventati i più moderni Aisi, Aise e Dis, tanto per ingrassare le tipografie che stampano la nuova carta intestata. Ma dicono che è stato fatto anche per ridurre le spese. Che in realtà sono lievitate in maniera del tutto fuori controllo fino a impiegare i fondi statali addirittura per acquistare appartamenti ad uso esclusivo di noti politici.
E potrei continuare per un pezzo. Pietro Messina lo ha fatto, e ne è risultato un quadro davvero deprimente. Quello che colpisce nel venire a conoscenza di molti retroscena, non sono tanto gli interessi politici nella gestione dei servizi, non sono le matrici di alcuni tentativi di colpi di stato nate all’interno stesso dei servizi, quanto il fare le cose alla carlona, all’italiana, in un mondo che dovrebbe essere ai vertici della serietà, in cui impegno e dedizione dovrebbero essere le molle principali del lavoro.
E invece ci si è ridotti al più basso nepotismo, ad una ciarlataneria da mercatino rionale, all’arrivismo del singolo ladruncolo che pur di fregare centomila euro allo Stato sarebbe capace di dare l’avvio alla terza guerra mondiale; si sono alimentati gli enormi sprechi di denaro pubblico che avrebbe dovuto essere controllato ma in realtà non lo è, ci si riduce a livelli bassissimi di corruzione spicciola per ottenere insignificanti vantaggi personali.
Da vergognarsi. Per non parlare di casi oltremodo importanti di cui si è occupata la cronaca come tanto per fare qualche esempio gli omicidi di Ilaria Alpi, Massimo D’Antona e Marco Biagi, il sequestro di Abu Omar e le connivenze con la mafia, nei quali i servizi sono stati in qualche modo implicati. Tanto da renderci ridicoli e totalmente inaffidabili anche all’estero.
Come per quasi tutte le cose qui in Italia, anche i servizi segreti nazionali sono stati ridotti a una vera e propria, tragica, pagliacciata. Per opera dei politici, dei burocrati e perché no, anche dei singoli delinquenti impiegati nei servizi stessi.
Un saggio davvero deprimente, tanto da far provare, da italiano, un senso di schifo e di vera vergogna nel venire a conoscenza di come vanno realmente alcune cose nel nostro paese.
Il Lettore 

lunedì 8 gennaio 2018

Polina

Ancora un fumetto.
Buono, stavolta. Visto che sono stato rimproverato per la mia schiettezza nei confronti delle porcate faccio vedere a qualcuno — e chi di dovere ha capito benissimo che sto parlando proprio di lui — che oltre a stroncare sono anche capace di apprezzare dei fumetti che meritano. Anche e nonostante non mi piaccia lo stile del disegno.
Ad essere del tutto sincero, al primo impatto anche questa graphic novel ha rischiato di essere catalogata nel gruppo degli abbandonati dopo solo due pagine, proprio perché il disegno non è tra i miei preferiti e tra poco vi spiegherò il perché, ma pur non piacendomi emanava un certo fascino che mi ha spinto a proseguire, e così ho potuto apprezzare la storia tanto anche da rimanerne commosso.
Polina è un grande romanzo a fumetti. Un romanzo di formazione, di crescita, un romanzo in cui, come in Lo Scultore di McCloud, la parte del protagonista è rivestita dall’Arte con la A maiuscola.
In questo caso l’Arte della Danza.




Polina Oulinov è una bambina russa con la passione per la danza. Riesce ad entrare nei corsi di formazione della scuola del Bolshoi e si trova a fare i conti con tutto l’impegno, la disciplina e la dedizione che quest’arte richiede per poter emergere dalla massa e farsi notare, nonché con le rivalità e le differenze di opinioni tra gli stessi docenti. In particolar modo è affascinata dall’insegnamento del severo maestro Bojinski, che intuisce le sue potenzialità e con il quale lei nel corso del tempo si ritrova a condividere alcune visioni filosofiche di quest’arte.



Un romanzo di formazione, questo di Bastien Vivés, che esplora le difficoltà di un ambiente esclusivo e le insicurezze dell’adolescenza insieme alla volontà di poter emergere in un’arte (un po’ come quello di Scott McCloud). Una graphic novel rarefatta, costituita di silenzi espliciti e di intuizioni rappresentate da sequenze del tutto prive di dettagli negli sfondi, senza testi e balloon, ma le cui ellissi si capiscono perfettamente.
I colori adoperati sono solo due, quasi del tutto assenti i toni di grigio e le sfumature, come a rappresentare una metafora del talento: o ce l’hai o non ce l’hai, e se non ce l’hai è meglio che cambi strada, riuscirai a trovare qualche altro percorso più adatto a te.



Il tratto del disegno (forse l’unica cosa che non mi ha soddisfatto, solamente per un mio personale gusto estetico) è molto sbrigativo, ma in fondo devo ammettere che risulta coerente con la sceneggiatura e con il tono generale che l’autore ha voluto infondere all’opera. Anche la schematizzazione e la povertà degli sfondi sono una sottolineatura della durezza della disciplina della danza e del sacrificio al quale bisogna sottoporsi per poter seguire questo percorso.



Non essendo al dentro del mondo della danza, ho pregato una mia cara amica danzatrice di leggere il libro per avere la conferma che Vivès non fosse magari incappato in qualche sfondone tecnico del quale non mi sarei potuto accorgere: non vi sono neanche incongruenze tecniche, il tutto è pienamente coerente (e il fumetto è piaciuto anche a lei).
Mi ripeto: non mi è piaciuto lo stile del disegno, ma ho trovato questo fumetto godibilissimo e pieno di significati rappresentati apposta per essere intuiti più che facilmente compresi. Come piace a me.
Grande lavoro.
Il Lettore (che come ballerino meglio che lasciamo perdere)

giovedì 4 gennaio 2018

“Parigi brucia?”

Una botta al cerchio e una alla botte: dopo una stroncatura ecco un bellissimo resoconto di uno degli episodi più salienti della seconda guerra mondiale. “Parigi brucia?” è il racconto della liberazione di Parigi dal giogo nazista da parte delle truppe alleate e della resistenza francese nell’agosto 1944, più di due mesi dopo lo sbarco in Normandia.
Hitler aveva ordinato categoricamente che Parigi sarebbe dovuta essere del tutto distrutta al solo avvicinarsi degli Alleati, in pratica avrebbe dovuto essere trasformata in un’altra Varsavia, e questo è il racconto dettagliato di come ciò, per fortuna, non avvenne.




Lo scrittore francese Dominique Lapierre e il giornalista statunitense Larry Collins hanno impiegato anni di ricerche per raccogliere le testimonianze dirette dei protagonisti di quell’evento, fino a farne un quadro il più possibile completo ed esaustivo. Con uno stile giornalistico molto stringato hanno dipinto centinaia di istantanee raffiguranti ognuna un episodio importante e il suo decorso nell’arco della settimana che è durata l’ultima fase di preparazione all’ingresso in città delle truppe di liberazione e la sua riconquista.
Nello stesso stile in cui Cornelius Ryan aveva raccontato dello sbarco in Normandia in Il giorno più lungo, i due scrittori hanno puntato principalmente sull’aspetto umano illustrando i singoli fatti, anche i più minuti, dall’ottica degli stessi protagonisti. Essendo uscito qualche anno prima (Il giorno più lungo è stato pubblicato nel 1959 mentre la prima edizione di “Parigi brucia?” è del 1964), è anche possibile che i due abbiano dato al libro la stessa identica impostazione in modo del tutto consapevole.
Stile giornalistico, dicevo, ma che non manca di pathos sia per le singole vicende stesse e sia, anche se già sappiamo come la cosa è andata a finire, per il comportamento di alcuni dei protagonisti in una situazione oltremodo tragica. Ciò che rende il libro pieno di tensione è la domanda: a chi va attribuito il merito di aver salvato Parigi dalla distruzione? Hitler aveva ordinato più volte di dare il via alle demolizioni: al posto della città doveva rimanere solo terra bruciata, tutti i ponti e la maggior parte dei monumenti più importanti erano già stati minati, si doveva solo procedere a dare fuoco alle micce e allo sterminio di buona parte degli abitanti.
E in più i francesi stessi erano pure in lotta tra di loro, con da una parte i comunisti favorevoli alla ribellione strada per strada ad armi imbracciate, e dall’altra i gollisti ansiosi di piazzare l’allampanato generale a capo del governo attraverso vie più politiche e meno sanguinose. Due fazioni in una guerra tra loro senza esclusione di colpi, come se non bastassero i tedeschi.
Il personaggio che spicca in questa lotta fratricida è invece proprio un tedesco: il generale Dietrich von Choltitz, il plenipotenziario governatore militare della città, nominato direttamente dallo stesso Führer con l’ordine esplicito di radere al suolo Parigi. Von Choltitz invece fece di tutto per rimandare l’esecuzione di quegli ordini, rischiando la propria stessa vita e quella dei suoi familiari pur di non essere accusato di un crimine compiuto contro l’umanità intera. Ci riuscì. Non diede seguito a quegli ordini ed è anche grazie a lui se ancora possiamo vedere la Tour Eiffel dominare il panorama di una città magnifica.
Ma è in ogni caso l’aspetto umano a rendere emozionante la narrazione: tutti i singoli accadimenti di quei giorni che sono sfociati nel tripudio del 25 agosto 1944, reso ancor più significativo per le piccole ma enormi tragedie di quel giorno che avrebbe dovuto essere di festa ma che per molti è stato invece di morte, proprio ad un passo dall’obiettivo agognato. Lapierre e Collins hanno raccontato dei singoli uomini che hanno partecipato a quel grande episodio: francesi, tedeschi, americani, ognuno con le sue motivazioni, con i suoi pregi e i suoi difetti, con gli eroismi e purtroppo anche con le abiezioni.
Grande libro, di quelli che ti fanno venire voglia di leggere anche gli altri che hanno scritto gli stessi autori.
Il Lettore storico

lunedì 1 gennaio 2018

Il gigante sepolto

Della serie “bisogna pensare positivo”, cominciamo il 2018 con una stroncatura.
Mi trovo un po’ in imbarazzo a scrivere questo post. Un po’ perché parlar male del romanzo di un premio Nobel è una faccenda già di per sé scottante, un po’ perché di Kazuo Ishiguro ne avevo già parlato molto bene in occasione di altri suoi libri che avevo recensito e quindi mi sembra di offendere la mia coerenza, e infine perché tutte le recensioni che ho letto in rete su Il gigante sepolto ne parlano magnificamente.
A quanto pare io sono l’unica persona al mondo alla quale questo romanzo non è piaciuto. Ma proprio per niente, non l’ho neanche terminato: l’ho piantato quasi a metà. E allora, visto che tutti gli altri lo hanno giudicato un romanzo superbo, sarò io ad avere qualcosa che non funziona?
Dovrò farmi visitare?




Ma a saper leggere tra le righe, in tutti quei commenti entusiasti si riscontrano spesso alcune parole particolari che mi hanno lasciato pensare come in realtà il mio giudizio non fosse così tanto lontano da una possibile verità accuratamente mimetizzata: una narrazione delicata… un romanzo emozionale… un sublime stile desueto… un libro di sensazioni… atmosfere oniriche
Vi racconto una scenetta. Qualche sera fa ho partecipato a una cena aziendale nel corso della quale hanno servito un risotto allo zafferano. Presentazione magnifica, con un’abbondantissima pioggia di sottili filamenti rossi a guarnire la pietanza. Splendido. Lo assaggio e rimango perplesso. Terminato di mangiare il piatto mi chino verso il mio vicino di sedia e gli domando: «Come ti è sembrato?». Lui ci pensa un po’ e mi risponde: «Molto delicato».
«Bello era bello, ma per me non sapeva di un cazzo» ribatto io, al che tutti i maschi della tavolata sono esplosi. È vero! È vero! Hai ragione! Non sa di niente! Lo volevo dire anch’io! Non ha nessun sapore! Che delusione! Ma nessuno aveva avuto il coraggio di dirlo per primo.
Questo per dire che l’uso di determinate parole molte volte non serve ad altro che a camuffare i pensieri reali di chi è chiamato in causa. Vuoi per diplomazia, per vergogna, per paura di dire una stronzata, perché “non sta bene” e basta. Si cercano allora termini che girino intorno alla sostanza senza mai affrontarla di petto. “Delicato” è uno dei più diffusi. Si può dire di tutto: di un romanzo, di un piatto, di un colore, di un quadro, di una poesia, di una creazione architettonica. Non hai detto nulla di concreto, e nessuno potrà accusarti di avere parlato male di quella determinata cosa.
Io invece sono un vero e proprio becero, ho scarsissimo tatto e diplomazia assente del tutto. Se penso una cosa prima o poi la esterno, e questo non contribuisce a far lievitare il numero delle mie amicizie. Ma pazienza.
Ho trovato Il gigante sepolto una vera e propria sega.
Noiosissimo, tanto da costringermi ad abbandonarlo per puro e semplice tedio. Nella prima metà del libro non succede assolutamente nulla: ci sono queste due persone anziane, immerse in atmosfere nebbiose e pure sofferenti di amnesie, che dopo alcuni capitoli di nulla partono alla ricerca del figlio senza che sia dato di sapere le ragioni per le quali lo stesso è via e il perché si sono decisi a cercarlo. Tra le nebbie dei paesaggi e della memoria viene raccontato (con un linguaggio che era di moda un centinaio di anni fa, e quindi in uno stile da alcuni definito “desueto”) il loro viaggio, nel quale non succede assolutamente nulla, e poi… basta, a metà libro l’ho piantato perché di tutto quel nulla non ne potevo proprio più.
Non dico che un romanzo dovrebbe essere fatto di azione, ma perlomeno una qualsiasi cosa falla succedere. Non puoi continuare a parlare del nulla più assoluto sperando nella benevolenza del lettore che solo alla fine capirà, forse, quanto sei stato bravo. Se ci arriva.
Ma ripeto, tanti lo hanno trovato un romanzo da non poterne fare a meno, e non voglio pensare (lo penso, lo penso…) che siano stati così ipocriti perché “non sta bene” parlare male di un Premio Nobel (che poi non sarebbe l’unico: mi viene in mente Dario Fo e la sua pessima biografia di Lucrezia Borgia). Sicuramente sarò io che non avrò saputo capirlo, che non ho avuto la pazienza necessaria a proseguire, che non ho saputo cogliere la “delicatezza” dell’insieme.
Colpa mia, me ne assumo tutte le responsabilità. Kazuo Ishiguro rimane un grande e lo testimoniano gli altri libri di cui invece ho parlato bene. Lui non ha assolutamente fatto uno scivolone, è colpa mia se non ho saputo apprezzarlo.
E poi c’è sempre la possibilità che io abbia veramente qualcosa che non va.
Il Lettore