lunedì 30 luglio 2018

Il purgatorio dell’angelo


L’ultima avventura, appena uscita, del Commissario Ricciardi, è sicuramente una delle migliori. Sostanzialmente non c’è nulla di nuovo, ma è confezionata talmente bene che mi ha persino commosso.


 Tutta basata sul concetto di “confessione” (a partire dal sottotitolo Confessioni per il Commissario Ricciardi), e sulle varie accezioni che questo termine può assumere, il suo valore non deriva dall’indagine su un vecchio prete morto assassinato che la polizia si trova a dover investigare, ma sono le diverse vicende personali  dei personaggi che ruotano intorno a Ricciardi ad assumere rilevanza e a quelle del Commissario stesso, sempre più innamorato della sua Enrica  ma allo stesso tempo convinto della improponibile convivenza della sua amata con il “fatto” che lo perseguita.
Confessarle o non confessarle da cosa derivano i tormenti che lo rendono così triste?
E risalendo a una confessione si risolverà l’indagine, così come altre confessioni marcheranno via via le vicende di altri personaggi: dal Brigadiere Maione il cui intuito prende una cantonata, alla risolutiva Nelide che sbroglierà una situazione grazie a una confessione, alla solita Bambinella il cui intervento si dimostra sempre decisivo.
Come al solito Maurizio De Giovanni porta avanti le saghe di tutti i principali personaggi di contorno aggiungendoci ogni volta un pezzettino, come in una buona sceneggiata napoletana (buona è un eufemismo…), e riuscendo a coinvolgere il lettore facendolo appassionare alle singole storie. La trama poliziesca passa in secondo piano e sempre di più è utilizzata quasi solo come pretesto per poter mettere insieme le altre vicende e parlarne.
Ma funziona, e quindi va bene così.
A turno vengono tirati in ballo tutti; Livia, Bianca, il dottor Modo, e ad ognuno De Giovanni regala una piccola parte di protagonismo fino a formare un romanzo che secondo me è uno dei migliori della saga.
Anche perché finalmente le canzoni napoletane con le quali ci ha ammorbato nelle ultime puntate sono scomparse (quasi), lasciando che la loro poetica sia sostituita da un po’ del buon jazz di Billie Holiday e dei fratelli Gershwin.
Il Lettore

martedì 24 luglio 2018

Il presidente è scomparso


Nato da una collaborazione quantomeno strana, questo recentissimo romanzo uscito in libreria un paio di mesi fa segna l’esordio letterario addirittura di un ex presidente degli Stati Uniti, quel Bill Clinton che è stato l’uomo più potente del mondo dal 1993 al 2001 e che c’è mancato un pelo che diventasse il first man dell’era attuale.
Perlomeno è uno che appare simpatico.



A quanto mi ricordo non ho mai letto nulla di James Patterson, che è considerato uno degli scrittori di thriller in circolazione di maggior successo, o perlomeno non di recente. Mi suona strano, forse mi è passato tra le mani qualche suo romanzo molto tempo fa e non ha lasciato traccia.
Adesso si sono messi insieme, e ne è venuto fuori un romanzo metà thriller e metà fantapolitica che a me è piaciuto: scritto bene e denso di azione, dalle conclusioni che soddisfano le aspettative e senza cali di tensione.
Leggendo ho cercato di capire in quali punti fosse intervenuto ognuno dei due autori e sono giunto alla conclusione che l’architettura complessiva dovrebbe essere stata farina di Patterson così come le scene d’azione e lo stile, per l’esperienza già acquisita in merito; mentre la consulenza di Clinton si vede nelle dinamiche dei rapporti del Presidente con l’entourage della Casa Bianca e con i membri del governo statunitense, a causa dei numerosi particolari che solo uno che c’è passato in carne e ossa può conoscere e raccontare, e nel discorsetto finale a metà strada tra un monito e una paternale intrisa di patriottismo americano, nella quale però si leggono benissimo  la retorica del politico navigato insieme a una forte critica al modo di fare politica di Donald Trump.
Il romanzo, narrato in prima persona dallo stesso Presidente degli Stati Uniti con solo alcuni capitoli in terza persona osservati dal punto di vista di altri personaggi, parte lentamente descrivendo un’ipotesi di impeachment (che Clinton conosce bene per averla vissuta in prima persona) del presidente e insieme tutti i rapporti che intercorrono tra il “capoccia” e coloro che gli sono vicini, accennando solo nebulosamente al succo dell’azione. Poi pian piano il ritmo si fa più serrato fino al classico countdown finale del tipo “per disinnescare la bomba taglio il filo rosso o il filo nero?” mentre i secondi si avvicinano allo zero.
Un romanzo d’azione all’insegna del dogma americano è meglio, in cui il senso dello Stato e il patriottismo (di casa loro) sono tenuti in altissima considerazione e che è costellato di intrighi, tradimenti, apocalissi globali, vittime di guerra, ma anche di eroismi, amore e amicizia.
James Patterson è stato bravo a mescolare il tutto e a farne un prodotto pienamente soddisfacente: le scene d’azione sono scritte dettagliatamente, i personaggi sono ben caratterizzati fino a farti ammirare anche uno spietato e professionalissimo killer, le metonimie sono inserite ai posti giusti così come sono ben ritmati i punti in cui creare aspettativa, i colpi di scena e le risoluzioni.
Le prossime ore potrebbero cambiare il corso della storia per generazioni”. È naturale che una frase così ti faccia venire voglia di vedere cosa succede dopo, no?
Ma non te lo viene spiegato subito: per farti crescere l’aspettativa prima di chiarirti la situazione ne succedono di tutti i colori, tanto è vero che solo a metà libro viene rivelato in che cosa consiste la minaccia apocalittica che incombe sul mondo intero e solo dopo aver neutralizzato tutte le reiterate minacce il “bene” e il “giusto” (naturalmente a stelle a strisce) riescono a trionfare.
Ovviamente il personaggio che mi è piaciuto di più è stato “Bach”, il super professionale ma umanissimo killer ingaggiato dai cattivi per impedire che qualcuno risolvesse la faccenda.
Il Lettore 



domenica 22 luglio 2018

Buon compleanno a me


Luglio 2018.
È appena trascorso, e mi stava passando di mente, il quinto compleanno di Freereader e di questo blog.
Il 7 luglio 2013 vedeva la luce il primo post nel quale illustravo le tematiche di cui avrei trattato e da allora poco è cambiato in queste ultime e nell’organizzazione generale, e tantomeno nel layout.
Un pochino statico, direte.
Ma che volete, si tratta sempre di coerenza: preferisco impiegare il tempo a leggere e commentare che perderlo per andare a cercare fronzoli superflui.



Non starò a fare consuntivi, resoconti, statistiche o proiezioni, principalmente perché me ne manca la voglia, ma la colonna delle etichette qui a destra si è allungata a dismisura ed è possibile che se qualcuno fosse interessato a sapere cosa ne penso di un autore è possibile anche che ce lo trovi. Come immagino succeda a tutti, ad alcuni ho dedicato più post e ad altri meno, ma penso che sia normale che ognuno abbia le sue preferenze, no?
In effetti la cosa che ancora mi soddisfa è sbugiardare le pubblicità false, i luoghi comuni triti e ritriti. Sembra che oggi sia obbligatorio parlare bene di qualsiasi notizia/evento/avvenimento/romanzo/affermazione/film/operaqualsiasi senza stare tanto a sottilizzare se questa meriti davvero o sia solo una puttanata incommensurabile. L’importante è parlarne bene, è essere politicamente corretti.
Da qui nasce un controsenso apparentemente incoerente: in effetti non mi piace leggere puttanate e cerco di non incapparci, ma quando purtroppo capita non mi tiro indietro e dico ciò che penso, anche se ciò si scontra con il pensiero di tanti.
Al contrario amo le cose buone e parlo bene di molti, ma come mi hanno fatto notare in diversi sono più divertenti i post in cui stronco qualcuno.
Bene, l’importante è che mi diverta io. E se non a leggere perlomeno a dire come la penso.
Delusione per i miei affezionati più critici: ultimamente ho letto diversi buoni libri e quindi nei prossimi post leggeranno di alcuni romanzi giudicati positivamente (e quindi magari non così spassosi come avrebbero voluto.
Ma pazientate, l’occasione non mancherà di certo (purtroppo).
Freereader



martedì 17 luglio 2018

L’avvocato canaglia


Ne ero sicuro. John Grisham non poteva essersi rincoglionito fino al punto di dimenticare lo stile che lo aveva portato al successo, tanto è vero che in questo romanzo del 2015 torna alle aule di tribunale e ai combattimenti, verbali e fisici, tra avvocati e contendenti, e finalmente, dopo i suoi ultimi che mi avevano deluso, ha pubblicato un romanzo meritevole come quelli di una volta: teso, con un protagonista azzeccato, con parecchia azione, in cui alla fine trionfa la giustizia.
Perlomeno quella personale del personaggio principale, un po’ alla Jack Reacher.



Sebastian Rudd è un avvocato molto particolare: è specializzato in cause senza speranza nelle quali l’accusato è condannato in partenza. Vive in un furgone super-attrezzato e pieno di armi con l’unica compagnia fissa di Partner, una fedelissima guardia del corpo che lo difende dagli attacchi dei suoi numerosi nemici; è appassionato di cage fighting, una sorta di pugilato sanguinoso in cui i combattenti sono rinchiusi dentro una gabbia; ha un’ex-moglie rivelatasi omosessuale e un figlio, Starcher, che la donna cerca in tutti i modi di non far vedere al padre adducendo come pretesti la sua vita pericolosa e la cattiva influenza che potrebbe esercitare sul ragazzo.
Perché il nemico principale di Rudd è la polizia stessa con i suoi metodi violenti e incivili permessi da leggi compiacenti e politici e giornalisti ammanicati, tutti pronti a fare di tutto, dal rapimento di bambini alla corruzione di giurati all’inquinamento di prove, affinché in un processo siano condannate persone sgradite alle alte sfere. Tanto che anche un avvocato “canaglia” alle volte è costretto ad utilizzare dei metodi non del tutto legali per poter avere voce in merito.
Per questo Rudd e la sua body-guard sono oggetto di continui attentati, molti dei quali provengono anche da parte di coloro che dovrebbero stare dalla parte dei “buoni”, ma alla fine, anche se un po’ ammaccati, riescono sempre a spuntarla e a far emergere la verità.
Buon romanzo, dal ritmo veloce e pieno di azione intercalata dai particolari giuridici tipici dei dibattimenti in tribunale. Con personaggi di contorno magari non originalissimi, dall’onnipresente mafioso al delinquente inafferrabile al pugile proveniente dal ghetto, ma ben inseriti e spiegati.
Il protagonista entra da subito nella simpatia del lettore, e le cinque o sei vicende in cui è impegnato, la cui successione si alterna l’una all’altra, sono ben inquadrate e ben raccontate, invogliando il lettore a proseguire di continuo.
Il messaggio morale di fondo c’è anche in questo libro (viva la gente comune, abbasso i profittatori), ma è stemperato dalla leggerezza dell’azione.
Una lettura incalzante e piacevole, ben diversa dalle ultime recensioni su Grisham che ho fatto su queste pagine. Auguriamoci che il ritorno alle origini prosegua.
Il Lettore 



giovedì 12 luglio 2018

Il tatuatore


In primo luogo diciamo che già il titolo da un’indicazione sbagliata del contenuto: se con Il tatuatore si fornisce un’indicazione di massima del soggetto dell’azione, leggendo si riscontra che questo non c’entra proprio nulla con lo svolgersi del romanzo né c’è un effettivo “tatuatore” che possa ergersi a protagonista.
I tatuaggi sono i personaggi principali, questo è vero, ma tutt’al più tra i personaggi in carne e ossa vi sono “alcuni” tatuatori che assumono rilevanza ai fini dell’indagine di polizia e solo uno che marginalmente svolge l’azione del tatuare.
Ma naturalmente questo fa parte delle solite castronerie dell’editoria nostrana, perché il titolo originale, The tattoo thief, Il ladro di tatuaggi, era molto più attinente al tema della narrazione.
Qualcuno aveva paura che rivelasse troppo?



Paura ingiustificata, perché fin dal primo capitolo entra in scena questo ladro inconsueto che scuoia direttamente le sue vittime ancora prima di ucciderle per rubarne i tatuaggi che hanno sulla pelle.

Sangue da tutte le parti, crudeltà inutili, da ribrezzo. E giù i particolari di come interviene nella scuoiatura dei malcapitati e poi nella concia delle pelli per la conservazione. Non so come ho fatto a finirlo, vista la mia avversione per le esagerazioni in genere e per l’horror in particolare.
Che poi non è che sia neanche tutto questo gran che. Ha sì una scrittura accattivante, dal ritmo veloce e sufficientemente dotato di spunti che tengono desta l’attenzione, ma è anche pieno di esagerazioni e situazioni già viste che si capisce come siano messe lì solo per far colpo sul lettore senza stare tanto a badare all’originalità e alla plausibilità. Senza contare l’utilizzo di termini che mentre leggi ti fanno storcere il naso, come “spiazzale” al posto di “piazzale” o “spiazzo”. “Spiazzale” è un vocabolo che è stato adoperato dal 1200 al 1930 circa e che è rimasto solo nell’uso colloquiale di alcuni dialetti meridionali, ma che attualmente in fondo appare piuttosto arcaico. Ma questo può essere colpa della traduzione.
O il vizio di mettere frasi senza un verbo attivo: “Un’unica luce, proveniente da una lampadina rossa sul soffitto.” Sarebbe bastato sostituire con “Un’unica luce proveniva da una lampadina rossa sul soffitto” o qualcosa di simile. Anche questo può essere un fatto di traduzione, se non fosse che a qualcuno sembra tanto fico scrivere le frasi senza verbi.
Per non parlare della poca credibilità nel comportamento di molti personaggi e del mancato approfondimento di molti aspetti della loro evoluzione dei quali invece se ne avverte il bisogno.
In fondo si legge anche bene, se uno non sta lì a sottilizzare troppo e regge le scene splatter, ma se ne può fare benissimo a meno.
Il Lettore 

venerdì 6 luglio 2018

Dicembre è un mese crudele


Per la serie: “Continuiamo a leggere tutti i romanzi di Elizabeth George in ordine cronologico” è stato il turno di questo Dicembre è un mese crudele dato alle stampe nel 1992 e trasposto nel quinto episodio della serie televisiva sull’Ispettore Lynley nel 2002.
Una cosa da dire: se della George avessi letto questo per primo non mi sarei nemmeno sognato di imbarcarmi in questa impresa.



Perché stavolta la scrittrice statunitense non si è limitata alla sua solita scrittura lenta, e se il plot può anche esserci (anche se un po’ troppo arzigogolato), ha fornito talmente tanti di quei particolari in fondo in fondo inutili da rendere noiosissima tutta la parte centrale del libro.
Non abbastanza da piantarlo lì e passare ad altro, ma in modo sufficiente per farti disamorare presto e non vedere l’ora di finirlo per passare ad altro. In centinaia di pagine le indagini non proseguono e non succede assolutamente nulla, e se lo scopo della George era quello di farti entrare in un’atmosfera cupa e deprimente questo almeno le è riuscito benissimo.
La vicenda si svolge principalmente in un paesino sperduto del Northumberland in cui gli amici dell’ispettore Simon e Deborah sono in vacanza. Simon sospetta che nella morte improvvisa per avvelenamento del prelato del luogo ci sia qualcosa di non del tutto chiaro e coinvolge Lynley, che sbroglierà la vicenda quasi come estraendone la soluzione da un cappello magico.
E poi: solite prosecuzioni dei rapporti tormentati tra Thomas Lynley e Lady Helen, tra Simon St. James e Deborah Cotter, approfondimenti dei problemi di Barbara Havers eccetera. Le solite cose, insomma, ma più noiose del consueto. In più, con un finale abbastanza cervellotico e un pochino poco plausibile.
Un altro romanzo della George che non mi ha soddisfatto, e se non sapessi già che alcuni dei successivi sono notevoli, desisterei dallo scopo che mi sono prefissato. Ma proseguirò, non fosse altro che per individuare il punto della sua carriera in cui ha ricominciato a scrivere in modo interessante.
Il Lettore