mercoledì 30 dicembre 2015

Gli sdraiati

Nota per i miei allievi passati e futuri dei corsi di scrittura creativa: se mai vi venisse in mente di scrivere un romanzo con un qualsiasi io narrante che si rivolge ad una qualsiasi seconda persona singolare (sul tipo: “Ma dove cazzo sei? Ti ho telefonato almeno quattro volte, non rispondi mai.” Eccetera eccetera), perlomeno siate consapevoli che il risultato finale sarà immancabilmente una sega.




Non a caso la citazione in corsivo del paragrafo precedente è l’incipit di questo Gli sdraiati, romanzo (?) di Michele Serra che è stato uno dei fenomeni editoriali degli ultimi tempi.
E come al solito, dopo averlo letto non ne capisco il perché.
In quarta di copertina hanno scritto, testuali parole, “romanzo comico”. Comico? Come dire “divertente” del funerale di un bambino. Nel corso di tutte le stiracchiate centootto pagine, molte delle quali bianche e altre con miseri trafiletti di una sottotrama in divenire, il testo non mi ha strappato lo straccio di un sorriso, ma ha anzi innescato una depressione montante intercalata al desiderio di piantarlo a metà, tant’è vero che nella seconda parte ho direttamente saltato diversi brani per arrivare alla fine il più in fretta possibile e finalmente dimenticarmene.
Nel descrivere la generazione attuale degli adolescenti (ma quale? Immagino solo quella ristretta al suo microcosmo e dovutamente esagerata), Michele Serra ha infarcito il testo di una sfilza di ovvietà mimetizzate dall’attualità e gonfiate al vano scopo di far sorridere. Dal punto di vista concettuale ha finito col generalizzare una situazione particolare: se tuo figlio è venuto su a cazzo di cane e non sei stato capace di metterlo in riga, non è detto che tutti i figli siano così.
Per non parlare del compiacimento narcisistico nell’usare un linguaggio ricercato da “guarda quanto sono colto… io sono un giornalista famoso, mica cazzi!”, o nel riempire due o tre pagine fitte usando solo la virgola come segno interpuntivo.
Dopo averne sentito parlare parecchio mi ero creato diverse aspettative su questo testo, che sono state miseramente deluse fin dalle prime pagine: un libro noiosissimo per quanto corto (fortunatamente!), e deprimente nel senso più deteriore del termine alla faccia del presunto “comico”.
E la domanda resta: com’è possibile che un libro del genere venda e diventi un caso editoriale? Solo perché chi l’ha scritto è conosciuto? Va bene che per la stessa ragione vendono anche Bruno Vespa o Francesco Totti, ma non basterebbe questo a farne disconoscere gli autori e a mandarli a zappare la terra invece di continuare a influenzare malamente le opinioni di un popolo ormai miseramente televisivo?
Il Lettore deluso

domenica 27 dicembre 2015

Venerdì 12

Ogni tanto fa bene ridere, e quando questo Venerdì 12 – Omnibus è stato regalato a mio figlio per Natale non ho resistito e gliel’ho sottratto leggendolo prima di lui. 300 pagine di filato, dalle quali è difficile staccarti.
E la cosa strana è che in questo caso non ci sono battute sui geologi!





Della storia di Aldo e del suo amore per Bedelia, pubblicata a puntate dapprima su L’isola che non c’è a partire dal 1996 e quindi su Ratman collection fino al 2004, avevo letto solo degli episodi sparsi, e sono stato contento di poterla rileggere per intero in questa raccolta del 2015 che è solo l’ultima di numerose altre che l’hanno preceduta. Una storia che sin dall’inizio ha calamitato l’attenzione dei lettori del fumetto più famoso che la ospitava, e che quindi Leo Ortolani ha ritenuto doveroso unificare e pubblicare in un volume a sé stante.
La vicenda è strappalacrime: il giovane Aldo è disperatamente innamorato di Bedelia, ragazza bellissima, cinica, fatua, vacua e parecchio mignotta (per lei, lui è solo il numero 143 di una lunghissima serie…), che non se lo fila di striscio. Per far colpo su di lei Aldo decide di regalarle un carillon con la ninna nanna di Brahms che lei amava ascoltare da bambina, ma ha la sfortuna di incappare in un negoziante misterioso che gli dona uno strumento gravato da una maledizione: se quel carillon fosse stato dato a una persona senza che l’amore venisse ricambiato, Aldo si sarebbe trasformato in un mostro. Detto fatto. Aldo si ritrova nelle sembianze di un essere ributtante consumato da un amore impossibile, e da qui si succedono le sue avventure divise tra il vano tentativo di riconquistare la topona o almeno di provare inutilmente a dimenticarla.
Avventure che spaziano dallo straziante alla più pura comicità, condite dalle fulminanti battute di Ortolani, quelle del suo periodo migliore, che si susseguono a ciclo continuo variando i temi dall’antropologico allo zoologico, dallo scatologico al pornografico (ma solo come metafore). L’ormai vomitevole Aldo si rifugia nella solitudine dell’attico di un palazzo signorile nel più puro stile Fantasma del Louvre, accompagnato dal suo servitore Giuda (per il quale il cinismo e la cattiveria non sono pura teoria), e tenta in ogni modo di uscire dagli abissi di dolore e ribrezzo nei quali è precipitato.



Dopo 300 pagine di esilaranti peripezie, di quelle che fanno ridere sulle disgrazie degli altri, la vicenda però si conclude con un lieto fine: quella che nella prima puntata della serie era apparsa solo come una metonimìa, la bambina Dulcistella, figlia di un vicino di casa del mostr… pardòn, di Aldo, ormai cresciuta si innamora di lui e riesce a strapparlo dalla maledizione e dall’amore impossibile per la panterona. L’ho detto perché ormai la vicenda è così famosa che sarebbe stato come tacere l’epilogo di Via col vento (si lasciano, ma domani è un altro giorno).



Diciamo che me la sono goduta, sorridendo e ridendo spesso sulle gag del pisano naturalizzato parmense che dietro un’apparenza cinica e dissacrante mette in gioco problematiche attraverso le quali la maggior parte di noi è passata in stadi diversi della propria vita: chi di noi non ha sofferto per un amore non corrisposto? Chi, almeno per una volta, non si è sentito brutto, solo, abbandonato? L’umorismo più efficace è quello che va a rovistare nelle tragedie umane, come ci insegnano i grandi comici, da Stanlio e Ollio a Totò, da Charlot a Fantozzi.
Magari, visto che Ratman è letto soprattutto da adolescenti, l’unica perplessità che può sorgere a riguardo di questo fumetto è che alcune battute, soprattutto fra quelle a sfondo sessuale, potrebbero essere un po’ pesanti per un ragazzino innocente.
Ma a questo proposito, ne esistono ancora?
Il Lettore

sabato 19 dicembre 2015

La sposa giovane

Ed eccoci all’ultimo romanzo di Alessandro Baricco, pubblicato in questo 2015 del quale per fortuna stiamo per arrivare alla fine. Quando mi accingo alla lettura di un nuovo Baricco non so mai cosa aspettarmi. Mi piacerà? Mi stuferà? Non posso considerare il torinese come un Child col quale vai sempre a colpo sicuro: se rileggete le mie recensioni precedenti su di lui troverete che siamo pressappoco alla pari tra letture soddisfacenti e romanzi piantati a metà, peggio che tirare una monetina.
Vi tolgo subito dalle ambasce: stavolta mi è piaciuto.




Certo è che La Sposa giovane non è un romanzetto semplice e chiaro ma anzi, un inno all’ellisse e al “lasciato immaginare”. Di sicuro nella sua Scuola Holden Baricco spiegherà il concetto di contestualizzazione e di quanto questa sia necessaria, ma quando scrive lui stesso allora si può andare tranquillamente fuori dalle regole: in questo romanzo nessuno possiede un nome proprio al di fuori del maggiordomo Modesto (personaggio eccezionale, che si esprime preferibilmente a colpi di tosse e ripreso dal più puro Wodehouse); sia la localizzazione geografica della vicenda che quella temporale sono lasciate nel vago, e la storia della famiglia di cui si narra è limitata solo agli episodi strettamente necessari all’evoluzione del racconto.
I personaggi sono indicati solo dal proprio ruolo: il Padre, la Madre, il Figlio, la Figlia, lo Zio, ognuno con le proprie virtù, i propri bizzarri problemi e particolarità che vengono man mano descritti in modo da permettere loro di interagire ognuno a suo modo con la Sposa, questa nuova figura anch’essa enigmatica che si trova ad entrare all’improvviso in una famiglia sui generis.
Non che con questo si senta che manchi qualcosa, anzi, il romanzo è piacevole e intrigante, con i personaggi che pur nella loro vaghezza sono ben caratterizzati e una conclusione soddisfacente.
Certo è che bisogna leggerlo con attenzione: dopo le prime pagine ci si trova un po’ spaesati dalla variazione continua dell’io narrante, cosa che Baricco stesso spiega con queste parole:
 “Ad esempio avrei dovuto riferire al vecchio amico come scrivendo della Sposa giovane mi succeda di cambiare più o meno bruscamente la voce narrante, per ragioni che lì per lì mi sembrano squisitamente tecniche, e tutt’al più blandamente estetiche, con l’evidente risultato di complicare la vita al lettore, cosa di per sé trascurabile, ma anche con un fastidioso effetto di virtuosismo che in un primo momento ho perfino cercato di combattere, arrendendomi però poi all’evidenza che semplicemente io non riuscivo a sentire quelle frasi se non facendole scivolare in quel modo, come se il solido appoggio di una voce narrante chiara e distinta fosse qualcosa a cui non credevo più, o che era diventato per me impossibile apprezzare.
Ma una volta che si è entrati in questo modo di fare lo si apprezza e la lettura scorre senza intoppi, anche grazie alla raffinatezza dello stile e della prosa sui quali proprio non c’è nulla da criticare. I dialoghi, inseriti alla McCarthy senza segni interpuntivi, scorrono fluidi e il comportamento dei personaggi è coerente con la loro rappresentazione, compresi quei segni particolari distintivi di ognuno che contribuiscono in modo sostanziale a far sì che rimangano impressi nella memoria del lettore.
Ma quello che Baricco chiama “fastidioso effetto di virtuosismo” si sente eccome. Quelle ragioni “squisitamente tecniche” sono le stesse nelle quali Baricco si crogiola all’atto dello scrivere, perché dal romanzo emerge in continuazione tra le righe anche il concetto del: “ecco, guardate bene, imparate, è così che si scrive…”, e per carità, a parte quel po’ di vanagloria sottilmente ostentata, non gli si può dire proprio nulla d’altro. Chissà cosa ne avrebbe pensato Grazia Cherchi, di queste intrusioni dell’autore nel proprio romanzo. Ma già, non è che Baricco abbia mai seguito del tutto le indicazioni di quella che è stata uno dei suoi primi editor (se lo avesse fatto, magari, il suo Castelli di rabbia sarebbe stato forse meno noioso), tanto è vero che anche a distanza di anni il suo rapporto con gli editor non è cambiato: “Ovviamente, paginette come queste parranno all’editor che si occuperà di loro, tra qualche mese, del tutto inutili e tristemente poco funzionali al decorso del racconto. Con la consueta educazione, mi suggerirà di cancellarle. So già che non lo farò, ma fin d’ora posso ammettere di non avere più probabilità di lui di farla giusta.
Il ché indica la consapevolezza del: so bene che “questo” non andrebbe fatto, ma io lo faccio lo stesso perché io sono Alessandro Baricco. E soprassediamo sul fatto che il complicare la vita al lettore sia una cosa trascurabile…
La Sposa giovane resta comunque un bel romanzo, una lettura che non lascia delusi e che solleva degli interrogativi sui temi trattati che sono quelli dell’accettazione della morte e del proprio destino. Anche le frequenti incursioni nell’erotismo sono realizzate con una finezza scevra da moralismi e contribuiscono al mantenimento dello stato di tensione creato dal non sapere quale sarà la fine di questa promessa sposa, personaggio che mi ha ricordato il tenente Drogo di Buzzatiana memoria, nella continua attesa di un nemico che non arriverà mai.
Ma per fortuna, e questo è il bello della Letteratura, la Sposa giovane non farà la stessa fine di Giovanni Drogo.
Il Lettore

martedì 15 dicembre 2015

I saggi di Urania

Come di consueto ogni tanto, soprattutto dopo una serie di romanzi che anche se decenti non mi hanno entusiasmato, sento il bisogno di leggere un bel saggio preferibilmente scientifico, e stavolta mi sono dedicato al re della fantascienza nonché principe della divulgazione scientifica, quel Isaac Asimov che con più di duecentosettanta libri al suo attivo può considerarsi a pieno titolo uno degli scrittori più logorroici mai esistiti.




Saggio leggero, stavolta, di pura divulgazione: una raccolta di brevi articoli che sono stati pubblicati a corredo del romanzo di turno su vari numeri della rivista di fantascienza Urania dal 1972 al 1994, e nei quali Asimov dà sfogo alla sua insana passione di rendere edotti i profani dei misteri della scienza nelle branche in cui era ferrato.
Si parla quindi soprattutto di astronomia (con una condanna continua rivolta a tutti coloro che si affidano all’astrologia), ripercorrendo le varie scoperte fatte negli ultimi secoli che hanno permesso di stabilire se una lucina puntiforme infinitamente lontana da noi sia una gigante rossa o una quasar, con frequenti incursioni nella fisica nucleare, nella storia della scienza, nella geologia e, ovviamente visto chi è l’autore, nella cibernetica e nella robotica.
Saggi leggeri che mi ha fatto piacere leggere anche se conoscevo già la maggior parte dei concetti spiegati, ma il rinfrescarsi le idee non fa mai male, chissà, c’è sempre il rischio di scordarsi come stanno veramente le cose e di finire col credere che la Stella Polare stia davvero sempre ferma e inamovibile al proprio posto.
Se siete curiosi lo potete trovare del tutto gratis in formato elettronico qui:
Lo consiglio soprattutto a coloro che ogni mattina leggono il proprio oroscopo.
Alla prossima!
Il Lettore

venerdì 11 dicembre 2015

Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico

Non è che avessi veramente l’intenzione di leggere questo “libro”, soprattutto dopo le ultime esperienze fatte con Luis Sepùlveda che mi avevano veramente deluso, ma il fatto è che l’ho scoperto mentre stavo rovistando nella directory di libri in formato elettronico e dal momento che non ricordavo proprio di averlo ho incominciato a leggerlo e dopo dieci minuti, quando stavo per abbandonarlo a causa della stomachevole stucchevolezza, ho scoperto che era già terminato.
Però! Questo significa che il prezzo di copertina del cartaceo, di ben dieci euro per dieci minuti di lettura, rappresenta uno degli aspetti più sfacciatamente esosi dell’editoria nostrana.




E non è nemmeno giustificato dalla presenza delle illustrazioni di Simona Mulazzani che personalmente non ho apprezzato molto, ma già, pure quelle sono indirizzate a un pubblico di bambini.
Anche questo, così come Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza, è infatti un racconto per bambini (e nulla più). Con la lumaca Sepùlveda ha voluto per l’appunto inneggiare alla lentezza (non riuscendoci nemmeno), mentre la morale di questa favoletta è invece un elogio dell’amicizia in tutte le sue sfaccettature (multietà, multietnica, multirazziale e chi più ne ha ne metta).
Raccontino veramente melenso oltre che retorico e breve, che in fondo non raggiunge altro scopo che quello di farti rimpiangere di non essere famoso, perché da famoso puoi permetterti di vendere in tutto il mondo qualsiasi insulsa stronzata scritta in un paio d’ore.
Il Lettore per nulla famoso

martedì 8 dicembre 2015

Buchi nella sabbia

Come aveva già fatto in Odore di chiuso, anche stavolta Marco Malvaldi invita il lettore a un salto nel passato, nella Pisa di inizio Novecento e nell’ambiente dell’opera lirica, mettendo insieme personaggi veramente esistiti (il re Vittorio Emanuele III appena salito al trono, lo scrittore, poeta e giornalista Ernesto Regazzoni, nonché Puccini e Rossini) e personaggi immaginari che insieme formano un giallo ambientato sul palcoscenico di un teatro che ospita la prima pisana della Tosca alla presenza dello stesso Re d’Italia.




Durante la scena della fucilazione di Cavaradossi il tenore che ne sostiene la parte viene ucciso per davvero, e da qui inizia l’indagine da parte dei Reali Carabinieri per scoprire l’assassino probabilmente celato tra i molti artisti che avevano una fondata ragione per odiare il tenore e gli attivissimi gruppi anarchici toscani che caratterizzavano la politica dell’epoca.
Un giallo d’annata dal ritmo veloce e spiritoso che ho letto in poco più di due ore e nel quale Malvaldi inserisce tutto il suo solito umorismo insieme a una ricerca minuziosa sia di un ambiente letterario dell’epoca poco conosciuto che del mondo della musica operistica, con particolare riguardo a quello che ancora non veniva chiamato gossip ma che sempre pettegolezzi erano.
Il romanzo si legge molto bene e frequentemente strappa qualche sorrisetto, la prosa è colloquiale con l’Autore che con naturalezza entra spesso nel discorso come è solito fare Malvaldi, e in questo caso si sente come il modo adoperato risenta dell’esperienza che lo scrittore ha acquisito nei suoi precedenti romanzi.
Al di là di questo, non è che ci sia molto altro da dire. Trama e risoluzione della vicenda non sono molto originali; alcuni personaggi, ad eccezione del Tenente Pellerey e di Ernesto Regazzoni, non sono caratterizzati abbastanza; alcuni altri vengono abbandonati nel corso dello svolgimento e in alcuni casi le motivazioni di qualche comportamento risultano debolucce oltre a mancare del tutto certe spiegazioni che invece il lettore si aspetterebbe. Per esempio: è mai possibile che un tenore venga assassinato in un teatro alla presenza addirittura del Re e quest’ultimo è come se non esistesse? Non ci è dato di sapere cosa fa, come reagisce, se si spaventa, se lo conducono via subito, se è perlomeno incuriosito del crimine accaduto, se si interessa alla faccenda eccetera. Niente. Io come lettore me lo sono chiesto, ma forse per l’autore la cosa non era importante.
Resta un romanzetto piacevole con buoni dialoghi e qualche spunto arguto, ma non mi sento di piazzarlo ad occupare qualcuno dei primi posti dell’opera di Malvaldi. Peccato, lo scrittore toscano è uno di quelli dai quali io mi aspetto di più ad ogni nuova uscita, mi aspetto ogni volta di leggere una sua opera corposa, dotata anche di un rilevante spessore oltre alla divertente leggerezza che lo ha sempre caratterizzato, ma questo è un passo che il pisano sembra rimandare di volta in volta.
Chissà, non credo che non ne sia capace, forse per la paura di vendere di meno?
Il Lettore

venerdì 4 dicembre 2015

La gatta di Corfù

Su questo blog non ho mai recensito un libro di poesie, e ho gentilmente pregato l’editore per il quale leggo e valuto gli inediti che pervengono in redazione di non inoltrarmeli se sono sillogi di poesie.
Questo perché io non amo la poesia. Per meglio dire: non amo i poeti contemporanei.
Come scrivevo da qualche altra parte una poesia, rispetto a un’opera di narrativa, possiede l’enorme vantaggio di essere di molto più corta, e perciò oggigiorno tutti, ma proprio tutti, si reputano in grado di scrivere una poesia. Eccheccivuole! Un’oretta di concentrazione e vai! Ne posso scrivere anche una al giorno, basta cercare parole che fanno colpo e metterle assieme nel modo più astruso possibile cercando di essere il più melensi possibile. Va be’, sì, lasciamo perdere, chiudiamo qui che è meglio.
Però amo i gatti, e quando è capitato in casa questo libretto non ho potuto fare a meno di scorrerne le pagine.




Vi domanderete: e come ha fatto un libro del genere a capitarti a casa? Presto detto: il mio editor è appassionato di tutto ciò che è greco nonché di gatti, quindi… e considerate che ogni poesia ha pure il testo a fronte in lingua originale greca! Che già il fatto che usino un alfabeto diverso dal nostro (e non mi venite a dire che quello è stato inventato prima…) mi provoca le convulsioni.
Leggere poesie tradotte in un’altra lingua poi, ha ancora meno senso che leggerle nella propria: si perdono tutte le assonanze fonetiche proprie dell’idioma che l’autore ha voluto inserire nell’opera e ne resta solo il significato nudo e crudo che poi, se il traduttore è stato in gamba, è stato anche rivestito di un qualcosa che può assomigliare all’intenzione originaria, ma che non sarà mai la stessa cosa.
Fatto sta che queste le ho lette e, sorvolando sul miserrimo tentativo di questi traduttori di renderne la musicalità in italiano, devo dire che al di là della forma-poesia mi sono gustato le storie dei vari gatti con i quali l’autore, Nikos Dimou, pubblicitario, editorialista e scrittore greco, è entrato in contatto e dai quali ha preso lo spunto.
Storie in genere toccanti e tristissime, come potete immaginare, che di norma vanno a finire male: se già la vita dei gatti di strada italiani non è il massimo (come quotidianamente ci racconta l’amico blogger de I gatti di Monte Malbe), quelli greci possono stare anche peggio. E sono tristi non solo le storie dei gatti di strada, ma anche quelle dei più fortunati gatti di casa che di solito va a finire che muoiono pure loro. La cosa strana è che Dimou dedica proprio ad un gatto che è stato suo compagno personale l’ultimo capitolo del libro, e non in poesia ma in prosa: un resoconto struggente e non in versi del suo rapporto con Mupsi, con il quale sembra esistesse una strettissima simbiosi come a volte si crea tra uomo e animale. Forse è perché ha scelto di mostrarla con la narrativa e non in poesia, che risulta essere il brano migliore del libro?
Dello stesso Nikos Dimou mi è capitato in casa anche L’infelicità di essere greci, una raccolta di aforismi in gran parte collegati tra di loro dal filo logico del concetto secondo il quale un intellettuale greco è la persona più infelice del mondo, perché gli intellettuali e gli artisti sono gli esseri umani più infelici, e perché quello greco è il più infelice tra tutti i popoli.
E per oggi in quanto ad allegria siamo a posto.
Il Lettore

martedì 1 dicembre 2015

La ruga del cretino

Stavolta Andrea Vitali non mi è piaciuto, e il fatto che a scrivere questa specie di thriller esoterico abbia contribuito anche Massimo Picozzi ha probabilmente peggiorato la situazione. Ci si sono messi in due a elaborare un gialletto storico slegato, senza capo né coda, con una narrazione che si perde in una miriade di rivoli, dal ritmo troppo frenetico e senza un finale soddisfacente.




Per prima cosa il ritmo: suddividere un giallo in 148 brevissimi capitoli (più quattro epiloghi), ognuno dei quali lascia in sospeso una vicenda, mi sa tanto del respirare di una persona asmatica. Dall’uno all’altro cambia la contestualizzazione, e il susseguente viene legato al precedente da un’imbeccatura (per esempio la risposta a una domanda riferita però ad un’altra  situazione) che ti fa vedere sì l’arguzia di un buon scrivere, ma dopo un po’ stufa. E questo è nello stile di Vitali, così come i dialoghi costituiti di parole dette e non dette, di frasi lasciate in sospeso delle quali il lettore deve intuire il significato.
Come al solito Vitali ambienta questa storia in quella che era la sua Bellano con il 1900 alle porte, tirando in ballo una miriade di personaggi dei quali all’inizio introduce tutte le problematiche che poi lascia lì senza dire che fine fanno, personaggi che all’inizio sono descritti troppo dettagliatamente per meritare di essere ignorati alla fine lasciando il posto a una trama poliziesca condita di esoterismo nella quale il presunto assassino appare nella vicenda troppo tardi e apparentemente senza scopo, e che per giunta si scopre poi che non c’entra quasi nulla lasciando che si formi nella mente del lettore la legittima domanda: hai voluto prendermi per il culo?
La comparsa poi del famoso Cesare Lombroso, con le sue astruse teorie che si è voluto ammantare di ricerche esoteriche, lascia il tempo che trova perché alla fine dei giochi non viene risolto proprio nulla e anzi, se c’era l’intenzione di ricordare gli inizi della criminologia e delle indagini scientifiche forensi, questo non è che sia riuscito un granché bene. Lo aveva fatto molto meglio Sergio Rossi nel suo Un lampo nell’ombra, anche lui tirando in ballo lo stesso Lombroso. Un’altra cosa che non mi è andata giù per nulla è il fatto che nel romanzo assumono grande importanza dei fogliettini ritrovati sulle scene del crimine con su riportate delle pseudo formule matematiche: be’, falle vedere queste formule, no? Mostracele, in modo che il lettore si renda conto delle stesse problematiche dei protagonisti, altrimenti il limitarsi a parlarne senza nemmeno descriverle lascia il tempo che trova.
Ma soprattutto, come dicevo prima, mi ha dato fastidio l’insistenza iniziale su certi personaggi (la Birce, la Serpe, Arcadio, Giuditta, la Perseghèta) ai quali dapprima sono dedicati parecchi capitoli inducendo il lettore a credere che siano loro i protagonisti, e che poi sono tranquillamente abbandonati a loro stessi senza che ne venga spiegata la risoluzione di un’evoluzione.
Non so da chi sia venuta fuori l’idea di questa trama e di questo romanzo, se da uno dei due autori, da qualche editor o da qualche editore fremente di vendere, ma quello che so è che uno con la fama di  Andrea Vitali se lo sarebbe potuto risparmiare.
Il Lettore
Lettore, Vitali, Picozzi