sabato 31 gennaio 2015

Sezione suicidi

Per quel poco che guardo la televisione, mi capita lo stesso di saper riconoscere al volo, mentre faccio zapping, se un telefilm sconosciuto intravisto per pochi fotogrammi è di matrice statunitense, francese, italiana o tedesca. Non capita anche a voi? Di sicuro anche a voi succederà di vedere un solo secondo di una scena d’azione e pensare subito: tedesco! Anche senza vedere sulle auto la scritta POLIZEI. Sarà per le diverse abitudini di intendere la fotografia, per la regia, per le scenografie o per il “taglio” complessivo che marca qualsiasi fiction.
Qualche volta capita lo stesso anche nella scrittura: se apriste una pagina a caso di questo Sezione suicidi, senza sapere di cosa si tratta, capireste che è un thriller francese anche senza dover incappare in dei nomi propri.




E infatti questo giallo di Antonin Varenne richiama spesso alla mente lo stile e le tematiche di Fred Vargas: personaggi ambigui, a volte piuttosto squallidi, atmosfere sature di quel pizzico di malinconia e tristezza che caratterizzano i film francesi (e di solito in questo caso fanno annoiare a morte), un protagonista capace, ma demoralizzato e rassegnato che alla fine non giungerà ad una soluzione chiara ma dovrà sottomettersi a quel destino di ineluttabilità del potere anche quando è quello sbagliato.
Il tenente Guerìn, l’antieroe della situazione, è un poliziotto capace ma non sopporta le manifestazioni di potere, e di conseguenza la sua avversione ai superiori lo fa relegare alla Sezione suicidi della sureté parigina, dove sarà coinvolto in un’ampia indagine su dei suicidi sospetti che non riuscirà a risolvere con piena soddisfazione.
Nonostante quelli che potrebbero sembrare aspetti negativi, in special modo la fumosità della conclusione, nel complesso questo thriller mi è piaciuto abbastanza, soprattutto per merito di uno stile pratico e veloce, che come già detto richiama la Vargas con un pizzico del noir di Lansdale. Un pregio particolare lo offre la caratterizzazione dei personaggi, che pur non essendo così positivi sono dipinti in modo da mostrare al lettore come essi si comportano, piuttosto che raccontarglielo.
Va be’, non sarà un giallo fondamentale, ma si lascia leggere.
Il Lettore

giovedì 29 gennaio 2015

Trilogia di New York

Il mio primo approccio all’opera più famosa di Paul Auster è stato qualche anno fa, quando mi capitò sotto mano Città di vetro – il racconto lungo con cui inizia questa trilogia – in versione graphic novel, nell’interpretazione di Paul Karasik e David Mazzucchelli. Ricordo che non mi entusiasmò molto: nonostante la caratura dei due fumettisti, e malgrado l’ammirevole sceneggiatura di un’opera cerebrale come questa, la trasformazione in un romanzo disegnato non mi colpì, probabilmente a causa dello stile del disegno che non rientra tra i miei preferiti.
Ora che ho letto la versione originale posso affermare che sì, Karasik e Mazzucchelli avranno anche svolto un lavoro pregevole, ma l’opera autentica è molto meglio.




Da quando l’amico Kuiry mi ha consigliato la lettura di Auster, e dopo aver letto Timbuctù (vedi) dello stesso autore, mi era rimasta la voglia di leggermi questi tre romanzi che formano un tutto unico: Città di vetro, Fantasmi e La stanza chiusa. Tre racconti lunghi, ognuno dei quali si potrebbe anche leggere separatamente dagli altri essendo dotato di un’autonomia propria, ma è solo leggendoli insieme che si comprende come il valore della globalità sia anche in questo caso maggiore della somma delle singole parti. Comunque non starò qui a farne una critica approfondita – non ritengo di averne le capacità né le cognizioni sufficienti per citare dotti riferimenti –  e già miriadi di critici, giornalisti e scribacchini sono andati a sviscerare tutti i risvolti più nascosti di quest’opera, tirando in ballo una caterva di personaggi, da Platone a Poe, da Gadda a Cervantes, per spiegare via via i molteplici elementi che Auster vi ha inserito, dal tema del doppio all’incomunicabilità, dall’uso del linguaggio alle connessioni casuali nella vita di ognuno, al fatalismo che domina tutti i personaggi. Per non parlare del suo trattare la letteratura, i libri, lo scrivere, gli scrittori, da Cervantes a Thoreau, o dello sconfinare nella meta-letteratura quando entra in ballo il romanzo stesso che il lettore sta leggendo.
Quando, nei racconti successivi al primo, compaiono personaggi dei romanzi precedenti, il lettore è pervaso da una sensazione di conosciuto, quasi un deja-vu, mentre al termine del volume resta la sensazione di un romanzo cerebrale, quasi surreale, inquietante, fumoso, senza soluzioni chiare, le cui dimensioni difficilmente classificabili confermano l’insondabilità della mente umana. Non è roba per chi cerca un intrattenimento leggero, insomma, ma devo dire che a me è piaciuto molto, anche per merito della prosa sopraffina di Auster. Penso che sia un romanzo in cui ognuno potrà trovare un qualcosa di diverso, uno di quei romanzi che fanno pensare a lungo dopo che li si è chiusi.
Per tornare alla graphic novel di Karasik & Mazzucchelli, ora che ho letto l’intera trilogia devo aggiungere che è come se Marcello Toninelli o Go Nagai si fossero limitati a trasportare a fumetti solo l’Inferno della Divina Commedia di  Dante Alighieri lasciando perdere Purgatorio e Paradiso (in effetti ciò è stato fatto, ma dalla Disney, con l’Inferno di Topolino ad opera di Guido Martina e Angelo Bioletto, ma in questo caso si tratta di una parodia – e, a onor del vero, c’è da dire che di sicuro questa tra le cantiche è la più interessante, mentre il racconto di Auster che mi è piaciuto di più è stato La stanza chiusa). Anche se Città di vetro potrebbe sembrare un’opera a sé stante, è solo leggendo tutti e tre i romanzi che si riescono a capire molti risvolti degli intendimenti dell’autore: i personaggi e le tematiche di Città di vetro ritornano nei racconti successivi e si completano, e, così com’è stata ridotta, monca dei seguiti, a questo punto non vedo più il senso di questa trasposizione fumettistica.
Il Lettore
Lettore, Auster

martedì 27 gennaio 2015

Curarsi con i libri

Ovvero: Rimedi letterari per ogni malanno recita il sottotitolo del libro curato dalle scrittrici inglesi Ella Berthoud e Susan Elderkin, libro che è uscito contemporaneamente in tutta Europa seguendo una precisa strategia di marketing, e in ogni Paese è stato curato da uno scrittore autoctono che vi ha inserito consigli mirati per i propri connazionali.
La versione italiana è curata da Fabio Stassi. Su cui non dico nulla perché non lo conosco minimamente (ma posso però dire, per quanto riguarda l’edizione italiana, che qualche metafora non mi è sembrata proprio del tutto centrata, e anche che ho notato qualche virgola tra soggetto e predicato).




In questi ultimi tempi si sente molto parlare sia di lettura che di scrittura terapeutiche. Stanno prendendo sempre più piede gli audiolibri principalmente per non vedenti ma non solo, organizzazioni di volontari come Laav – Letture Ad Alta Voce prestano la propria voce per portare momenti di allegria, cultura e conforto a bambini, anziani e malati, e i corsi di Scrittura Terapeutica cominciano ad essere abbastanza frequentati.
Anch’io trovo che lo scopo di questo libro sia del tutto lodevole. È ovvio che se hai un raffreddore non puoi pretendere che ti passi perché leggi Il cappotto di Nicolaj Gogol, e questo lo dicono anche le stesse curatrici, aggiungendo comunque che la scusa di leggerlo è buona per avvolgersi in una coperta insieme alla borsa dell’acqua calda ad aspettare che il malanno passi da solo. Né loro stesse pretendono di sostenere che un libro possa curare sindromi ben più gravi di un raffreddore, ma anche nei casi più problematici una buona lettura può contribuire ad alleviare un dolore, può farti conoscere come altre persone sono passate per la tua stessa tragedia, può aiutare per sollevarti al di sopra delle tue stesse emozioni.
Il libro è strutturato con l’organizzazione di malattie e sintomi in ordine alfabetico, e per ogni termine vengono consigliati uno o più testi che secondo le curatrici potrebbero fare comodo, in varie forme, a coloro che sono interessati a quella sindrome. Così, per esempio (ne cito tre aprendo il libro del tutto a caso):
Mal di TestaNeve, Maxence Fermine
VigliaccheriaIl buio oltre la siepe, Harper Lee
Entusiasmo, Mancanza diRagtime, E. L. Doctorow
E così via, inserendo per ogni termine considerato anche la spiegazione del perché è stato consigliato quel libro e spesso riportandone anche la trama. A volte i libri consigliati sono più di uno e per qualche sindrome sono anche una decina. In fondo al volume sono riportati gli indici in ordine alfabetico delle sindromi e degli autori citati.
È ovvio che non tutte le scelte delle autrici si possono condividere, ma la maggior parte dei libri consigliati sembrano azzeccati per la categoria in cui sono inseriti, perlomeno per quello che ho potuto giudicare in base ai libri che ho già letto e alle motivazioni che le curatrici forniscono di volta in volta. Esempi ne sono Siddharta (Angoscia esistenziale); Il postino suona sempre due volte (Apatia); Uomini e topi (Speranza, perdita di).
Altre volte, invece, sono indicati libri che mi sono sembrati decisamente controproducenti per la patologia per la quale sono consigliati: La perfetta ossessione non mi sembra così azzeccato per curare l’(Anoressia), quanto piuttosto per incrementarla, e la spiegazione che riportano per la lettura di L’assassinio di Roger Aykroid per curare l’(Influenza) mi pare un pò campata per aria.
In (Cinquant’anni, avere) troviamo invece l’elenco dei dieci migliori romanzi per cinquantenni, uno dei quali, tanto per dare un’idea del tono, è Il gioco delle perle di vetro. Ora, a parte che di questi dieci ne ho già letti ben tre, e che in ogni caso è giusto che Hermann Hesse venga letto una volta raggiunta la maturità (mentre io me lo sono fatto quasi tutto prima dei vent’anni), trovo che una volta passato il mezzo secolo uno abbia bisogno di letture un pochino più allegre…
Secondo me, uno dei pregi più grandi di questo libro è che fa venire voglia di leggere molti altri titoli. Per la spiegazione che hanno riportato del perché Il Gattopardo (Appetito, Perdita Di) è così bello, mi hanno fatto venire voglia di riprovare a leggerlo per l’ennesima volta. Così come per Il petalo cremisi e il bianco (Ambizione scarsa), che tanto bene posseggo ma non vi ho ancora messo mano; o di rileggere 1Q84 (Amore, disamorarsi dell’); o di decidermi una buona volta a provare ad aprire Infinite Jest (Disturbi della lettura: essere scoraggiati dalle dimensioni).
In fondo un libro come Curarsi con i libri può essere interessante per molti, così come lo è stato per me, e sulla falsa riga di questo ero stato incuriosito anche da I cento libri che rendono più ricca la nostra vita, a cura di Piero Dorfles, e non è detto che prima o poi non prenda anche quello.
Del resto anche i manuali di autocura vanno per la maggiore. Mi è bastato alzare lo sguardo al di sopra del portatile per leggere tra gli altri, nello scaffale dedicato alle essenze vegetali: La scoperta dell’aglio; I segreti di Nonna Perla: aglio; Aglio, cipolla e cuor contento; Le virtù curative dell’aglio.
Se putacaso vi capitasse di essere invitati a cena a casa mia, ora sapete cosa aspettarvi.
Il Lettore

domenica 25 gennaio 2015

Lo Squizzalibro di domenica 25 gennaio

Avendo saltato un giorno sul mio consueto ritmo, anche questa settimana mi capita di pubblicare di domenica, e insieme alla nuova citazione che leggete sopra vi propongo un altro Squizzalibro. Qualcuno ha detto che il precedente era troppo facile e non ha voluto infierire rispondendo subito… vediamo come se la cava oggi.
Ma no, scherzo, è facilissimo anche questa volta.



1 – Il libro da indovinare oggi non è un romanzo, non è una raccolta di racconti, non è un saggio, non è una biografia, non è una silloge di poesie, non è una favola, non

2 – Ma allora che diamine è? Vi chiederete. Be’, diciamo che è una… raccolta. E di che? Questo no, non ve lo dico, sarebbe veramente troppo facile.
3 – Gli autori sono ben due, due autrici, diciamo meglio, curatrici, inglesi.
4 – È un libro che può anche essere letto a pezzi, anche non tutto insieme, anzi, sarebbe consigliabile leggerlo solo quando serve. E quand’è che serve? Se vi sentite poco bene potrebbe fare comodo.
5 – Basta, non vi do un quinto indizio, è già troppo facile così.
Aggiungo solamente che l’ho trovato interessante, magari pecca un po’ quanto a tensione narrativa…
Freereader

venerdì 23 gennaio 2015

Ma perché non fanno i nomi?

Perdonatemi il ritardo ma in questi giorni sono stato impegnato, come allievo, in un corso estremamente tecnico inerente la mia professione. Tosto. Concentrato dalla mattina alla sera, con esame finale, che mi sembrava di essere tornato indietro nel tempo di quarant’anni. Se non fosse che è stato svolto nella sala informatica di una scuola superiore, e quarant’anni fa questi strumenti didattici non esistevano ancora. Ma veniamo a noi.




Una delle abitudini che ho preso da parecchio tempo a questa parte è dedicare una decina di minuti ogni mattina alla lettura dei quotidiani. Rigorosamente on line, e di solito mi limito a La Repubblica e a Il Fatto Quotidiano. Non che legga anche gli articoli… di solito mi limito ai titoli per sapere cosa è successo nel mondo, e alle gallerie fotografiche.
Su Repubblica c’è questa rubrica, curata da tale Amleto De Silva (non so se sia parente del Diego De Silva scrittore), che parla di libri. Vi è mai capitato di leggerla?
Ogni tanto ci clicco su e in passato ci ho scritto sopra anche un altro post, e nel caso dell’articolo di cui ho inserito il link mi sono sorti dei pensieri: stavolta concordo con il De Silva nel rifiutare a priori la lettura di libri troppo pubblicizzati, che vanno di moda, spinti dagli editori, promossi da cretini, consigliati da dubbi amici eccetera eccetera, ma a questo punto mi è venuta in mente una cosa.
Perché i giornalisti che scrivono sulla carta stampata, o parlano in qualche televisione, di questi libri non fanno mai i titoli? Ce ne fosse uno che dica quali sono, questi tormentoni. Va bene, di solito l’oggetto di articoli e servizi è un libro spinto da qualche casa editrice, è ovvio che se ne parli per forza bene – e di ciò se ne paga lo scotto quando lo si è comperato – ma perché nessuno denuncia in pubblico un libro illeggibile? Avessi mai sentito qualcuno dire “l’ultimo di Bruno Vespa fa veramente schifo” (ho preso un autore a caso: me ne guardo bene dal leggere Bruno Vespa, quindi onestamente non saprei dire se i suoi libri facciano schifo o meno). 
Perché se un libro fa proprio schifo nessuno lo nomina mai? Paura di essere additati come dei rompicoglioni? Paura di un qualche tipo di ritorsione? Paura di alienarsi una qualche speranza con quella particolare casa editrice? Eppure ai lettori penso che farebbe piacere, insieme ai consigli di “buone” letture (ehm…), avere delle indicazioni su quali sono i volumi sui quali risparmiare i propri soldi. Nel bailamme di copertine che si vedono in libreria o in rete, a volte farebbe comodo avere un parere spassionato, non viziato, che aiuti nell’orientamento delle scelte.
Ma nessuno lo fa mai. Bisogna andare a spulciare in qualche blog di nicchia, come questo, per avere dei pareri personali negativi con tanto di titoli, nomi e cognomi. Che poi, appunto, motivati quanto ti pare, ma sarebbero in ogni caso solo dei pareri personali.
Chissà, anche questo farà parte del novero di pessime abitudini che costituiscono l’andazzo odierno di questo paese rovinato e corrotto.
Freereader

martedì 20 gennaio 2015

I fiori blu

Ognuno ha le sue idiosincrasie: anche se mi piace leggere e scrivere, caratterialmente sono un tipo realista, con i piedi per terra, e per questo non mi calo volentieri in una qualsiasi dimensione onirica. Così come non sopporto la stupidità, il circo, il calcio e i finocchi sia crudi che lessi. E adesso che c’entrano i finocchi? C’entrano, vedrai che c’entrano, fammi finire.
Questo romanzo stupefacente non è altro che un sogno, e anche per questo motivo leggendolo non mi ha dato il piacere complessivo che avrebbe meritato. Ma mi inchino, e mi tolgo pure il cappello di fronte all’incredibile genialità dell’autore.




Si parte con un incipit sbarazzino, dotato di un’ironia sottile, che fornisce subito un assaggio di ciò che sarà il resto:
"Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d'Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara.”
E poi continua:
“Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all'orizzonte le sagome sfatte di qualche Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevan calvadòs. Il duca d'Auge sospirò pur senza interrompere l'attento esame di quei fenomeni consunti. Gli unni cucinavano bistecche alla tartara, i Gaulois fumavano gitanes, i Romani disegnavano greche, i Franchi suonavano lire, i Saracineschi chiudevano persiane. I Normanni bevevano calvados".
I Gaulois che fumavano gitanes  e i Saracineschi che chiudevano persiane mi han fatto morire… per non parlar del Calvadòs... Da qui già si può capire che ci si trova di fronte a un’alternativa: 1) Un autore completamente fumato; 2) Un genio della scrittura.
È buona la seconda.
Continuando a leggere si capisce che Raymond Queneau si è impegnato non poco per scrivere un testo in cui forma e contenuto collaborano alla perfezione per formare insieme null’altro che un gioco colto, un profondo divertissement d’autore, per trovare interpretazioni soddisfacenti del quale si sono mossi tutti i critici più importanti. I protagonisti sono un Duca che viaggia nel tempo e un pigro barcaiolo dei tempi odierni che si sognano a vicenda fino ad incontrarsi, si compenetrano, si scambiano i ruoli e intervengono continuamente nelle vicende l’uno dell’altro, tanto da poterli considerare come la dimensione onirica di una stessa persona.
Già dall’incipit si può avere un’idea dell’attenzione maniacale che Queneau ha riservato alla scelta del linguaggio, inventando termini di sana pianta quando necessario, per saturare il testo con giochi di parole (calembours, per dirla alla francese), allitterazioni, omofonìe e fantasiosi voli pindarici. Ogni parola è studiata, ognuna ha un proprio scopo, a volte doppio o triplo, tanto da impegnare non poco il lettore che voglia coglierne i risvolti nascosti. Queneau si è inventato una lingua sua propria, un insieme di francese scritto, parlato, di gergo, con inediti neologismi frammischiati a fonemi arcaici da tempo in disuso. Anche per questo non siamo in presenza di una lettura agevole ma sicuramente impegnativa, che diventa anche soddisfacente quando si riesce a cogliere un riferimento dapprima poco chiaro. E c’è sempre da considerare che originariamente il tutto è stato scritto in una lingua che non è la nostra.
Nella traduzione di questo testo, Italo Calvino è stato davvero fantastico, così come del resto Umberto Eco per gli Esercizi di stile dello stesso Queneau. Per poter rendere in un’altra lingua un testo così complesso, cercando di renderne apprezzabili la maggior parte delle sfumature, non basta conoscere alla perfezione entrambe le lingue, ma il traduttore deve essere egli stesso un artista ed entrare in sintonia con l’autore ricreando le sue trovate in una lingua diversa.
Il significato del titolo, i cui riferimenti  compaiono solo all’inizio e alla fine del romanzo sotto forma di oscure citazioni tratte da Baudelaire e dalla Bibbia, è quasi incomprensibile, e poco ce lo spiega Calvino che per comprenderlo lui stesso ha dovuto interpellare direttamente Queneau, non ottenendo altro che il significato francese del sintagma che sta ad indicare delle persone idealiste, romantiche e nostalgiche, ovviamente riferendosi ai protagonisti.
Ora i “letterati” mi salteranno addosso. Opinione personalissima: come ho già detto io amo il pragmatismo, e di conseguenza, per quanto alta possa essere la genialità e profonda la ricerca e pur plaudendo al talento di Queneau, ho visto questo romanzo come nient’altro che un dotto divertimento, una masturbazione intellettuale che non mi ha regalato il piacere di lettura che ottengo da un (semplice) buon romanzo. In fondo, le vicende del Duca d’Auge e di Cidrolin non mi hanno interessato poi così tanto, né la mancanza di un filo logico percepibile ha contribuito a sostenere la tensione narrativa. Ovvero, il filo logico nello svolgimento non è che non ci sia, ma le continue divagazioni, e il punctum incentrato sulla ricerca di forma e significato del linguaggio, distraggono dalla linea principale fino a farla passare in secondo piano. Sarò gretto e meschino ma, ripeto ad nauseam, pur riconoscendo e plaudendo ad un capolavoro non mi sento di consigliarlo a chi è in cerca di una piacevole lettura.
A chi di dovere: vedi che concedendo tempo al tempo, i suggerimenti vengono presi in considerazione…
Ah già, dimenticavo, i finocchi: uno dei tormentoni del romanzo è la passione smodata che i protagonisti (il protagonista) mostrano per l’essenza di finocchio, fantomatica bevanda che ricorre in continuazione per tutta la vicenda fino a farti venire la malsana voglia di assaggiarla sul serio. Ributtante, a parer mio, ma de gustibus
Il Lettore

domenica 18 gennaio 2015

Lo Squizzalibro di domenica 18 gennaio

L’indovinello di oggi sarà veramente una passeggiata, probabilmente uno dei più facili Squizzalibri che io abbia mai postato su queste pagine.  Che mi stia rammollendo?
Forse sì, e allora cercherò di complicarvi la vita con gli indizi…




1 – Il libro da indovinare è un romanzo, uno dei più famosi capolavori letterari del secolo scorso.
Troppo vago?
2 – L’autore è maschio, e francese. Uno dei più grandi.
Di più?
3 – Il genere del romanzo in questione è difficilmente classificabile, e le spiegazioni che ne hanno dato fior di letterati, pure. Sulla pagina di wikipedia dedicata a questo libro molti critici sono andati a scomodare lo gnosticismo e la psicanalisi, l’Es, il Super-Io ed Hegel per trovarne un’interpretazione valida. E ancora la stanno cercando.
Non vi basta?
4 – Se un lettore cominciasse a leggerlo senza averne mai sentito parlare prima, di primo acchito penserebbe che l’autore è pazzo furioso.
Ecco, vi state avvicinando…
5 – La traduzione in italiano è stata talmente difficile che il traduttore ha dovuto telefonare a più riprese all’autore stesso per superare molti scogli particolarmente ostici.
Ora lo so a cosa state pensando…
6 – E il traduttore non è uno qualsiasi, ma uno dei più grandi scrittori italiani di tutti i tempi.
Ciò conferma la vostra idea, vero?
7 – Il titolo di questo romanzo non ha (quasi) alcun rapporto con il contenuto.
E a questo punto siete ancora confusi. Sono stato abbastanza cattivo?
Freereader

venerdì 16 gennaio 2015

Il Parnaso ambulante

Avviso ai naviganti. E in special modo agli esordienti della scrittura.
All’inizio di questo romanzo si legge di un personaggio, un uomo d’affari improvvisatosi coltivatore diretto, che è preso dall’idea di scrivere un libro, lo scrive, lo manda a un editore, glielo accettano subito, lo pubblicano, ha un immediato successo, gli editori gli chiedono altri libri, lui li scrive al volo e il successo continua.
Attenzione: questo succede solo nei romanzi!


 


Parnaso è il nome di un monte situato al centro della Grecia, ritenuto sacro dagli antichi elleni che lo consacrarono al culto delle nove Muse ipotizzandovi una delle loro residenze.  Sarà pensando a questo (e non all’omonimo dipinto di Raffaello) che nel 1917 Christopher Morley ha intitolato Parnassus on wheels il suo primo romanzo, conferendo così una dimensione di motilità alla divulgazione delle arti.
Il succo: una quarantenne insoddisfatta acquista una biblioteca viaggiante e intraprende un viaggio on the roads of the States durante il quale la vendita di libri porta a porta le permetterà di conoscere se stessa. 33 parole. Che capolavoro di sinossi.
Che vi sia un certo fascino nell’accollarsi un arcaico Bibliobus non lo nego, come di sicuro vi è nel vagabondare, nel passare attraverso piccole avventure e nell’impegolarsi in una storia d’amore, e questo è tutto ciò che vive Elena McGill quando il caso le fa incontrare il “Professor” Roger Mifflin. Un romanzetto carino, pieno di amore per i libri, con due protagonisti simpatici che inframmezzano la vita romanzata a quella reale. Una storia placida e scritta con un garbo di altri tempi al quale non siamo più abituati, ed è per questo che quando ti ci imbatti risulta sempre una sorpresa. Tra tutte, la frase più famosa del libro è senza dubbio questa: "...quando si vende un libro a una persona, non gli si vendono soltanto 12 once di carta con inchiostro e colla, gli si vende un'intera nuova vita. Amore e amicizia e umorismo e navi in mare di notte; c'è tutto il cielo e la terra in un libro, in un vero libro, intendo", dalla quale traspare per intero il significato del libro stesso.
Una lettura veloce di quelle che lasciano un piacevole senso di positività.
Il Lettore

mercoledì 14 gennaio 2015

La foglia grigia

E devo dire invece che, una volta arrivato in fondo, questo romanzo mi è piaciuto. Sì, perché aveva rischiato fortemente di essere piantato a metà dopo un inizio che non mi aveva entusiasmato.
Sarà perché sono umbroe quindi ombroso, e perugino purosangue, e perché nemo propheta in patria, e perché il sentirsi ricordare le tue origini dà sempre un senso di appartenenza che, per quanto tu possa andarne fiero, per noi umbri rimane un aspetto da non mettere in piazza ma da tenere per noi, ma il leggere dialoghi in un perugino ottocentesco, per di più contaminato da influenze ternane, all’inizio mi aveva dato un po’ fastidio.




E non solo il perugino, ma anche diversi altri aspetti di questo La foglia grigia mi stavano conducendo sulla soglia dell’abbandono quali la struttura caotica, i frequenti salti temporali della vicenda e i diversi punti di vista dei protagonisti, ma soprattutto i rallentamenti nella lettura indotti sia da frequenti dialoghi in stile ottocentesco che dalle spiegazioni sulla politica locale e nazionale all’indomani dell’unità d’Italia.
D’altra parte la vicenda è avvincente, la tematica interessante e i capitoli d’azione sono sufficientemente veloci e incisivi, perfino drammatici, da permetterti di proseguire la lettura. In effetti si notano parecchie differenze nello stile tra un capitolo e un altro, tanto da far pensare a una possibile scrittura a due mani: un thriller in stile moderno contro l’adeguamento ai ritmi e alla lingua dell’epoca. Questo aspetto è in parte spiegato da Alessandro Cannevale nella postfazione, in cui l’autore confessa di aver ricevuto parecchi aiuti per quanto riguarda l’uso del dialetto, la ricostruzione della Perugia dell’epoca (nella quale peraltro un perugino si ritrova agevolmente) e quella dell’inquadramento socio-politico con le varie lotte di potere tra Stato e Chiesa, Polizia e Carabinieri, Superiori e Inferiori, Nobiltà e Plebe, Buoni e Cattivi eccetera eccetera.
Ma una volta contestualizzato il tutto le spiegazioni si riducono e i capitoli interessanti prendono il sopravvento su quelli noiosi, lasciando più spazio a una vicenda di sangue, droga, doppie vite, sesso e potere che avrebbe potuto benissimo essere ambientata al giorno d’oggi (ma vedrete che al giorno d’oggi, in effetti, ci arriva…). E non mancano neppure plurimi colpi di scena finali.
Dal romanzo traspare il notevole lavoro di ricerca che l’autore deve avere svolto prima di mettersi a scrivere, sia per la ricostruzione storica sia per gli aspetti inerenti i molti personaggi reali inseriti nel romanzo (con parecchie libertà d’autore): da Cavour a Jack lo Squartatore, da Papa Pecci a Giosuè Carducci all’uso della ghigliottina a Perugia eccetera, ognuno dei quali deve aver richiesto parecchio studio per il suo inquadramento coerente ai fini della storia.
Alla fine, ripeto, come romanzo mi ha lasciato la bocca buona, tanto da farsi perdonare i difetti in favore di una storia che di sicuro non uscirà facilmente dalla memoria a lungo termine.
Una riflessione…: Giancarlo De Cataldo, Gianrico Carofiglio, Alessandro Cannevale… Sarà perché i magistrati si divertono molto di più a fare gli scrittori, che i tempi dei processi nel nostro paese assumono dilatazioni bibliche?
E ti pareva che non mi scappava la cattiveria giornaliera…
Il Lettore

lunedì 12 gennaio 2015

Aristotele detective

Un anonimo lettore di questo blog mi chiede di leggere e fornire il mio parere su Margaret Doody e la serie dei suoi romanzi che ha come protagonista il filosofo Aristotele nei panni di un investigatore sui generis che dovrà chiarire alcuni delitti ambientati nell’antica Atene.

Grazie del suggerimento, ma non lo seguirò: i gialli storici della Doody non rientrano nel novero di quei libri che amo ri-leggere.


La serie di cui si parla è stata iniziata dalla letterata canadese Margaret Doody negli anni Settanta. Dapprima apprezzata dalla critica ma quasi del tutto ignorata dal pubblico (esattamente come i miei libri… sigh!), è stata riscoperta alla fine degli anni Novanta dando luogo ad un inaspettato boom di vendite che ha convinto la scrittrice a riprendere le avventure del filosofo con gongolante gaudio di Sellerio. Stranezze dell’editoria.
All’epoca ho letto una buona parte degli episodi usciti. Nei romanzi Aristotele interpreta la parte di un antesignano Sherlock Holmes, completo del Dottor Watson i cui panni sono vestiti dal discepolo Stefanos, e impiega la sua logica aristotelica per risolvere il mistero di alcuni delitti che coinvolgono anche personaggi eminenti, dapprima nella capitale greca, quindi andando in trasferta persino in Egitto.
Aristotele detective, come le altre puntate della serie, è un giallo tutto sommato semplice: lo stile è pacato, adeguato all’ambientazione antica e senza la velocità che caratterizza i thriller attuali, e nel quale anche i colpi di scena sono moderati e non hanno il sensazionalismo così spesso ricercato dagli autori moderni. La ricostruzione storica dell’Atene del III secolo avanti Cristo è rigorosa, così come gli usi e costumi dell’epoca. Per intenderci: non c’è nessun orologio al polso di una comparsa. Il personaggio di Stefanos appare leggermente amorfo, mentre si scopre un Aristotele sottilmente ironico che nasconde una vena di leggerezza sotto la patina della serietà.
Personalmente ho trovato i gialli della Doody leggermente noiosi: interessanti ma lenti, non quel tanto che ti fa arrivare a pensare uffa che palle e a lasciarlo a metà, ma quanto basta per non provare alcun desiderio di rileggerli come invece può succedere per altri romanzi. Come dicevo nel paragrafo precedente, la lentezza e la carenza di sorprese avvincenti si fanno sentire e di certo non ne permettono una lettura di tre ore la sera, a letto, senza cadere vittime del sonno.
Il Lettore

sabato 10 gennaio 2015

M – L’enigma Caravaggio

Parliamo ancora di pittura. Michelangelo Merisi, detto Il Caravaggio, ha trascorso una vita travagliata: genio e sregolatezza fuse insieme, l’omosessualità, gli atti violenti di cui spesso si è trovato a rispondere e le continue fughe da luoghi in cui riusciva a rendersi indesiderabile, fino all’inesplicata morte su una spiaggia di Porto Ercole. Ma il lascito di quest’uomo contrastato sono i dipinti drammatici che lo celebreranno per sempre come uno dei più grandi pittori di tutti i tempi.


In questo libro, situato a metà strada tra una biografia documentata e una ricostruzione romanzata, Peter Robb tira le fila della vita del pittore dall’infanzia fino alla sua scomparsa, tracciandone un quadro tutto sommato plausibile. Il problema è che dove non ci arriva, come si dice qui, Robb ci tira il cappello, nel senso che come ricostruzione biografica attendibile risulta un pochino carente di dati documentati, e per dotare il libro di più pathos l’autore compensa l’assenza di fonti accertate ricorrendo alla fantasia, ipotizzando preferibilmente torbidi scenari a sfondo sessuale per la spiegazione di episodi non del tutto chiari, senza disprezzare i collegamenti con la politica dell’epoca.
Se però uno non pretende il rigore storico, allora devo dire che in fondo è un libro che si legge bene, che sa rendere interessanti sia la vita che le opere del genio lombardo. Di queste ultime Robb ne descrive parecchie (riprodotte a colori a metà libro) spiegandone la genesi, gli scopi e le tecniche, approfondendo (e anche qui la fantasia svolge la sua parte) la ricerca dei sentimenti che hanno mosso l’autore nella realizzazione dei suoi quadri.
Di fronte a un quadro trovo sia interessante, al di là della sensazione immediata che trasmette il dipinto, venire a conoscenza della spiegazione dell’opera, del contesto, delle tecniche, del significato, e questo all’autore è riuscito abbastanza bene permettendo al lettore di arrivare fino in fondo ad onta della dubbia credibilità. Per lo stesso motivo ho trovato piacevoli anche i libri che ho letto di Vittorio Sgarbi, esaurienti, così diversi dall’immagine televisiva del critico francamente odiosa, esplicativi in modo chiaro e fruibili da tutti.
L’enigma Caravaggio resta comunque lontano dall’entusiasmo suscitato da altri biografi recensiti su questo blog.
Il Lettore

giovedì 8 gennaio 2015

Il testamento

Nei giorni scorsi sentivo la necessità di “farmi” un romanzo non impegnativo dotato di una bella storia, e allora mi sono letto un altro libro dell’avvocato statunitense: un altro romanzo con il quale John Grisham conferma la sua estrema professionalità di autore di romanzi piacevoli e scorrevoli come il fiume amazzonico che fa da sfondo ad una buona parte della narrazione.


Come al solito Grisham riesce a suscitare da subito una fortissima curiosità sul venire a conoscenza della prosecuzione del racconto. Già dal primo capitolo, nel quale un vecchio ricchissimo in punto di morte ci mette al corrente della sua intenzione di stilare il testamento con il quale ripartire i suoi averi – ben undici miliardi di dollari –, ma ci dice anche che detesta tutti i suoi figli e nipoti ai quali dovrebbe lasciare i suoi soldi…
Come si fa a non esserne incuriositi?
Un aspetto particolare del romanzo è che i primi due capitoli sono narrati in prima persona mentre per il resto si passa alla terza persona del narratore onnisciente; quando lo leggerete ne scoprirete il perché, così come scoprireste subito, e quindi non vi rivelo nulla per cui farmi sparare, che il principale beneficiario dell’eredità sarà una figlia illegittima che guarda caso fa la missionaria in un villaggio indio sperduto nel profondo della foresta amazzonica. Ovviamente il vecchio Paperone muore, e il romanzo si dipana fra i tentativi di rintracciare la novella erede da parte degli esecutori testamentari e i tentativi da parte dei figli esclusi dal lascito di far valere in tribunale quelli che pensano fossero i loro sacrosanti e disattesi diritti.
Come al solito un romanzo che si legge bene, ben costruito e che dimostra la padronanza dei meandri del sistema legislativo statunitense da parte dell’autore. Intorno alla metà rallenta un po’ il ritmo adeguandosi alle abitudini brasiliane nelle quali il tempo è dilatato, ma resta comunque una lettura piacevole che riprende tensione preparando un finale congruo e malinconico. Qua e là affiora qualche sprazzo di profondità, senza strafare, nell’indagare i rapporti padri-figli, nella ricerca di una spiritualità individuale e nella problematica dello sfruttamento della foresta amazzonica.
Il Lettore

martedì 6 gennaio 2015

Paul Gauguin: la lunga fuga

Insieme ai romanzi e ai libri di ricette, Manuel Vazquez Montalbàn ha scritto un considerevole numero di saggi su svariati argomenti: dal calcio (Dio ce ne scampi!) a Cuba, dal Comandante Marcos ai saggi sulla letteratura, dalla politica sovietica a questo gioiellino, del quale basta leggere la profonda verità spiattellata subito in prima pagina per comprenderne il valore:
“L'inutilita del viaggio in quanto fuga si scopre quando si evidenzia che viaggiamo insieme a noi stessi, ossia, con l'essere da cui intendevamo fuggire”.




Il breve saggio di poco più di sessanta pagine, edito nel 1991 e ristampato in Italia nel 1998, è un approfondimento del succitato concetto, prendendo come spunto la figura di Paul Gauguin e la sua fuga nei Mari del Sud per scappare soprattutto da se stesso: non gli è riuscito molto bene...
Paul Gauguin è sempre stato un animo tormentato e ha passato una vita piena zeppa di difficoltà, da quelle finanziarie ai problemi di salute, con difficili relazioni sociali e la continua insoddisfazione derivante dall’indifferenza che l’umanità dell’epoca dimostrava nei confronti delle sue opere.
Insieme al raccontare il senso di un’avventura umana, Manuel Vazquez Montalbàn illustra bene tutti i problemi dai quali il pittore era afflitto, operando un’analisi critica dei suoi quadri sui quali fornisce le spiegazioni necessarie a capire le ragioni dei frequenti cambiamenti di stile, derivati di volta in volta dalle influenze che altri artisti operavano sul pittore, dal suo stato di salute e persino dalla situazione politica della Francia e dall’acredine con cui il pittore considerava in toto il sistema colonialista: la progressiva distruzione di civiltà ingenue e paradisi incontaminati ad opera del colonialismo capitalista occidentale aveva già provocato, come si usa dire qui, più danni della grandine, e sia gli intellettuali emancipati che gli artisti in genere cominciavano ad accorgersene e a schierarvisi contro.
Dal libretto emerge drammatica la figura di un Gauguin martoriato dai suoi stessi pensieri (oltre che dalla sifilide), dalla povertà e dal non essere compreso e apprezzato, fino al completo abbandono di tutti i sogni e alla rassegnazione che ne precedettero di poco la morte.
Lo stile di Montalbàn è sempre preciso e accurato e sebbene a volte, quando si lascia trascinare dall’euforia nel parlare di politica, ecceda nello sfoggio della padronanza di linguaggi tecnici concedendosi il libero sfogo dell’uso di termini il cui significato non è così immediatamente comprensibile, quali “disperazione nichilista”, “speranza utilitarista”, “società filistea” eccetera (che ti costringono a fermarti, perlomeno io, e a pensare a cosa caz vogliano dire), sebbene a volte ecceda, dicevo, ho letto con interesse le sue pagine perché mi hanno permesso di scoprire un Gauguin che non conoscevo e mi hanno fatto capire le ragioni delle variazioni del suo stile.
L’unica cosa che non ho retto è la poesia finale in onore del pittore, ripescata dagli scritti giovanili dell’autore spagnolo: mi accorgo di apprezzare la poesia sempre di meno (in modo direttamente proporzionale all’incremento del numero dei “poeti” in circolazione…), ma prima o poi parlerò anche di questo.
Il Lettore

domenica 4 gennaio 2015

Lo Squizzalibro di domenica 4 gennaio

Per il primo Squizzalibro dell’anno ho scelto un libro che risulterà abbastanza difficile da indovinare: non credo che l’abbiano letto in molti, anche se l’argomento è interessante e l’autore famoso.

1 – Il libro da indovinare è un breve saggio il cui tema di fondo è la pittura, ma nel quale anche la politica riveste un ruolo non indifferente.
2 – L’autore è uno dei più grandi scrittori spagnoli, scomparso da pochi anni.
3 – Il testo esula di molto dal genere per il quale lo scrittore è diventato famoso.
4 – Oltre ad essere un saggio sulla pittura, è anche una specie di biografia non esaustiva di un famoso pittore del secolo scorso.
5 – Il pittore di cui l’autore parla ha avuto, nel corso della sua esistenza, talmente tanti problemi da dare lo spunto a diversi scrittori per romanzarne la vita.
Buon gennaio a tutti voi.
Freereader

venerdì 2 gennaio 2015

Il mio Ali

Vi auguro un buon inizio del 2015! Che sia un anno foriero di amenità e proficuo di avvenimenti stimolanti per voi tutti. Ok, basta con le cretinate.
Gianni Minà è uno dei pochi personaggi televisivi che ammiro e che mi sono stati sempre simpatici. Mettendo da parte il suo amore per il calcio, che non condivido, il suo modo di condurre programmi televisivi era professionale e accattivante, e come giornalista e scrittore scriveva e scrive benissimo: acuto e profondo, sempre con un’attenzione particolare a quegli aspetti inconsueti della materia da trattare che la rendono più interessante. Un ottimo giornalista.
Detto questo, ho trovato il suo libro un mattone davvero difficile da mandare giù.



L’interesse di mio figlio per la boxe sta valicando i confini della famiglia, e quando glielo hanno fatto trovare sotto l’albero me lo sono subito accaparrato io, confidando sul fatto che il pargolo era ancora impegnato nella lettura di Stephen King. Devo dire anche che ho cominciato a leggerlo con curiosità e una grande aspettativa, dipese sia dall’autore che dall’argomento: Muhammad Ali è stato in assoluto una delle più grandi personalità del secolo passato,  non a caso: “Il più grande”, e mi intrigava leggerne la visione di uno dei giornalisti che gli erano stati più vicino.

E poi, il prologo di Mina.
Mina Mazzini che scrive un prologo! Incredibile! Già solo questo basterebbe a incuriosire, tant’è vero che l’hanno scritto bello grosso al centro della copertina. Chissà perché.
Allora, leggo il prologo di Mina: nulla da dire. A seguire leggo la Prefazione, poi l’Introduzione e quindi le Istruzioni per chi legge questo libro (??? – a che scopo, mi domando…), e man mano cominciano i guai: in questi quattro capitoli mi sono stati ripetuti in continuazione gli stessi concetti, cioè tutte le ragioni per le quali Cassius Clay è un grande ed è giustamente diventato famoso. In quattro capitoli ho sentito parlare tre o quattro volte della medaglia olimpica, del rifiuto alla leva, del ritiro dell’alloro mondiale, della medaglia gettata nel fiume, del riscatto inaspettato contro Joe Frazier, dei nuovi titoli mondiali, del Parkinson e dell’accensione tremante della fiaccola. E alcune frasi dette dal pugile sono ripetute pari pari anche due o tre volte. E che cavolo! Per quanto interessanti, a un certo punto ti stufi di sentirti ripetere le stesse cose.
Dopodiché comincia il testo vero e proprio, costituito dagli articoli scritti da Minà nel corso della carriera del pugile, a partire da quello del 5 marzo 1971 antecedente un incontro con Frazier. Ora, gli articoli sono scritti benissimo, da un signor giornalista con le palle, perfetti per l’epoca in cui sono usciti, ma leggerli ora…  e tutti insieme…
Il fatto è che i pezzi sono datati, hanno circa un quarantennio, e sappiamo tutti come volta per volta è andata a finire. Pur essendo degli ottimi articoli, dotati anche di quel surplus che derivava dall’essere molto vicino al campione, raccolti in un unico libro mancano dell’immediatezza del momento, e ovviamente della tensione narrativa necessaria a sostenere un libro di oltre 400 pagine. Oltre al fatto che i tempi si sono modificati, sono cambiate le situazioni politiche e il modo di considerare lo sport e la boxe in particolare. Nonostante alcune interessanti perle che avrebbe potuto scrivere solo un intimo, e lo scavare a fondo nei sentimenti, la ripetitività dei contesti rende il tutto abbastanza noioso, e il tempo intercorso carente di freschezza.
Ma forse è un’opinione derivante dal fatto che all’epoca c’ero e ho vissuto quei matches da spettatore, e un giovane che non ha vissuto quei momenti sulla propria pelle e non ne conosce i retroscena potrebbe trovarne emozionanti i resoconti del prima e del dopo, anche se letti ora.
Di sicuro resta un testo dal valore storico indiscutibile, il quadro di un’epoca, una serie di preziose istantanee successive della vita di una grande personalità, ma se Minà avesse riscritto del campione la mera biografia, arricchendola con gli episodi vissuti di persona, sono sicuro che avrebbe saputo renderla  affascinante e coinvolgente quanto avrebbero saputo fare un Isaacson o un Moehringer.
Il Lettore