lunedì 31 ottobre 2016

Bianco

Avevo preso in prestito questo Bianco insieme ad Atti osceni in luogo privato e, visto che avevo apprezzato il secondo, ho cominciato subito a leggere quest’altro romanzo di Marco Missiroli nonostante di solito abbia un po’ di remore nel farmi di fila due romanzi dello stesso autore.
E nel caso di questo libro già dalle prime pagine un certo sentore aveva cominciato a invadere le mie cellule olfattive, come dire, una sensazione strana, più che un dubbio, un vero e proprio sospetto, qualcosa come… puzza di bruciato, ecco.
Allora, prima ancora di finirlo, sono subito andato a vedere in rete che cosa gli altri avessero pensato di questo romanzo, e ho scoperto che la maggior parte di coloro che lo avevano letto ne erano rimasti come minimo affascinati: meraviglioso, sensazionale, fenomenale, magnifico sono solo alcuni degli aggettivi che gli altri hanno usato per giudicarlo.
Lì per lì ho abbozzato (ma come, la puzza la sento solo io?) e ho continuato a leggere fino a terminarlo, e alla fine… ma andiamo con ordine.




Si vede proprio che alla Holden piace andare contro i dettami classici delle scuole di scrittura creativa: tu insegni a un principiante il concetto di contestualizzazione e di quanto questa sia importante, poi alla lezione successiva il principiante ti porta questo libro insieme a La sposa giovane di Baricco, te li tira in faccia e ti apostrofa: “Ma tu che cazzo dici?”.
E tu dagli a spiegare che delle regole per scrivere bene è vero tutto e il contrario di tutto, e che anche il non contestualizzare può funzionare benissimo, a patto però che tu sia già bravo del tuo. E come minimo devi aver fatto un corso di livello superiore. Possibilmente alla Holden.
Come nel romanzo di Baricco, anche in questo non si sa dove si svolge l’azione né la collocazione temporale, il che all’inizio ti lascia un po’ spaesato, ma ti ci abitui presto e lo apprezzi anche, solo che poi cominci a notare la presenza anche di altri concetti venuti fuori pari pari dai corsi di una scuola di scrittura creativa, e quando questi cominciano a essere parecchi ti domandi se all’autore sia venuto spontaneo applicarli o se abbia solo voluto prenderti per il culo.
Moses Carpenter è un anziano vedovo che vive da solo alla periferia di una città del Sud degli Stati Uniti. Un bel giorno nella villa sfitta accanto alla sua arrivano i nuovi occupanti: una famiglia mista con lei bianca e lui nero (negro), figlioletto nero e madre del marito pure. Il problema è che il vecchio (bianco), e tutta la sua comunità di conoscenti sono dei razzisti convinti e attivisti da sempre, fanno parte di un qualcosa di simile al Ku Klux Klan e i negri vicino a casa loro non ce li vogliono proprio e anzi, di solito fanno di tutto per ammazzarli.
E già qui… una tematica basata sul razzismo e sul KKK scritta da un italiano non ce la vedo proprio. Se Missiroli avesse cambiato sesso e si fosse chiamato Harper Lee sarei stato zitto, ma un tema del genere non fa parte della nostra tradizione e mi è sembrato tanto strano che uno scrittore italiano e giovane se ne sia occupato, a meno che…
A meno che non sia una buona occasione per mostrare uno sfoggio di bravura
Ma sì, dai, facciamo vedere che i concetti studiati alla Holden sono stati recepiti!
Decontestualizziamo, non diciamo dove e quando si svolge l’azione, tanto chissenefrega, la storia si capisce lo stesso e fa tanto fico. E già che ci siamo schiaffiamoci dentro un altro po’ di trucchi letterari che qualcuno lo infinocchio di sicuro!
Un animale, ci vuole un animale a fianco del protagonista, ma un cane o un gatto sono troppo ingombranti per un vecchio: un canarino! Ma sì, il canarino William che svolazza libero per casa e becca le briciole dai piatti. È tanto dolce!
E il bambino rompicoglioni ma che fa (dovrebbe fare) tanta tenerezza lo vogliamo escludere?
E la vecchia negra malata terminale che rinfocola i ricordi della moglie morta anch’essa di cancro? Smuove tanto le budella…
Mettiamoci anche i tormenti del protagonista perché in vita sua è sempre stato angosciato dal suo dover essere per forza razzista (retaggio del padre in realtà mai assimilato, così facciamo vedere anche il pentimento) ed esprimiamo il tutto attraverso una serie di flashback per spezzare la continuità monotona del racconto.
Infiliamoci anche un po’ di stereotipi come personaggi accessori, gli amici del vecchio vanno benissimo, e in quanto a stile? Ma sì, enfatizziamo, enfatizziamo, e tanto per scopiazzare Baricco ogni tanto cambiamo l’io narrante anche all’interno dello stesso periodo. È tutto? Ah, già, la donna bianca deve essere bella, che smuove pulsioni ormai sepolte, così fa più ribrezzo vederla manipolata dalle mani schifose del negro.
E la tragedia finale la vogliamo far mancare? Fa tanta commozione…
Basta, non scendo nei trucchi più piccoli adoperati nella costruzione delle frasi e nella ricerca della terminologia.
Fatto sta che dopo aver notato i primi di questi trucchi il patto di sospensione dell’incredulità che avevo intenzione di stipulare con l’autore è andato subito a farsi benedire, e pur riconoscendo la professionalità di quest’ultimo e la bravura con cui ha confezionato il pacco, dalla ricerca delle parole al loro metterle insieme, il romanzo non mi ha preso per niente e l’ho terminato a fatica pure con un senso di fastidio.
In un romanzo l’autore non deve farsi notare. Non lo devi sentire, non devi pensare a lui, non ti deve venire mai nemmeno in mente. Quando invece vuole per forza farti vedere quant’è bravo allora sì, che decade nella tua considerazione, per quanto sia in gamba. E farlo risalire la vedo molto dura.
Qualche volta vorrei davvero avere un animo candido, incapace di notare molte cose. Mi divertirei molto di più.
Il Lettore 

venerdì 28 ottobre 2016

Azione e reazione

Ho ritrovato questo racconto pubblicato in formato epub tra i files archiviati nel mio telefono e devo ammettere che mi ero del tutto scordato della sua esistenza. Tant’è vero che sono rimasto deluso nello scoprire che era solo un racconto, pensavo fosse qualcosa di più sostanzioso, ed ero anche stupito perché mi era sfuggita la notizia della pubblicazione di un altro romanzo di Marco Malvaldi.
Poi, cercandone in rete la copertina da mostrarvi in formato elettronico, ho scoperto che Azione e reazione era stato pubblicato insieme ad altre storie nel 2013 all’interno della raccolta Ferragosto in giallo.
Ciò non è che fosse una garanzia, ma già che c’ero l’ho letto lo stesso.




Ci si accorge subito infatti che è un racconto datato, in quanto i personaggi seriali sono i soliti vecchietti del Bar Lume ma il commissario di polizia è quello apparso nei primi romanzi di Malvaldi e non la donna che in seguito gli subentra e che finirà con l’intrecciare un rapporto con il barrista Massimo.
Un racconto di una settantina di pagine elettroniche, come al solito colmo della simpatia con la quale Malvaldi ama rivestire i suoi personaggi ma in definitiva con la stessa qualità intrinseca delle raccolte estive (e invernali) di Sellerio: robbetta.
Nonostante il nome altisonante degli autori.
Per quanto riguarda il plot del racconto infatti, nei trafiletti pubblicitari si può leggere: “una soluzione inaspettata e particolarmente originale”, se non fosse che la stessa “soluzione inaspettata e originale” è stata utilizzata minimo 27.459 volte in altri romanzi gialli. Una più una meno. E dicono anche che solo Malvaldi la poteva ideare, visto che è un chimico. Allora mi viene in mente che gli altri scrittori che hanno utilizzato la stessa soluzione prima di lui, a partire da John Dickson Carr per finire con Ian Fleming, non essendo loro chimici di formazione sono stati ancora più bravi.
Un ricco turista russo, antipatico e prepotente, viene assassinato per avvelenamento in un albergo di Pineta. Nello suo stomaco però non vengono trovate tracce di prodotti tossici. Come avranno fatto ad avvelenarlo? Chi sarà l’assassino?
Alla prima domanda non è necessario prendere una laurea in chimica per essere in grado di rispondere, e anche per la seconda, visto che tra i personaggi non c’è un maggiordomo ma una moglie sì, non è che si debba proprio essere delle aquile.
Di piacevole lettura, ma sempre robetta resta. Da spiaggia, appunto.
Il Lettore 

martedì 25 ottobre 2016

Atti osceni in luogo privato

Con questo post mi auguro di dare un po’ di soddisfazione a coloro che mi criticano di non dare abbastanza risalto a libri dal contenuto erotico.
In realtà, pur avendolo sentito nominare e proprio pensando, come molti, che Atti osceni in luogo privato appartenesse alla schiera di romanzi erotici, non mi era venuta alcuna voglia particolare di documentarmi fino a quando un’amica, una delle poche il cui giudizio è da tenere in considerazione, mi ha chiesto di leggerlo per sapere cosa ne pensassi io.




In effetti nel romanzo di Marco Missiroli, che ha vinto il Premio Mondello 2015 e ha ottenuto anche altri riconoscimenti, c’è anche parecchio sesso, attraverso il quale l’autore racconta in prima persona il processo di formazione del protagonista Libero Mansell dall’inizio della sua adolescenza fino a quando diventerà padre.
Un sesso fatto dapprima di onanismo forsennato a partire dall’episodio scioccante in cui al dodicenne Libero capita di vedere la propria madre intenta nell’elargire un servizietto orale a colui che all’epoca era solo un amante e che poi diventerà un personaggio importante del romanzo, e in seguito costituito dai primi timidi tentativi di approccio con l’altra metà del cielo attraverso i quali passano tutti gli adolescenti per poi passare ai rapporti veri e propri con sconfinamenti nelle perversioni. Ma parlando del suo modo di approcciarsi al sesso Missiroli racconta il diventare adulto del giovane Libero insieme ai suoi rapporti con tutte le persone che gli stanno intorno, dai genitori alle donne agli amici ai mentori, e ognuno di essi è tratteggiato dall’autore con precisione e consistenza.
Oltre che dal protagonista il romanzo è costituito anche da molti gregari dallo spessore ben definito, a partire dalla madre stessa che nonostante il tradimento iniziale finisce con il mostrare una dignità sopra le righe e un animo pieno di amore; dal padre che acquista sempre più rilevanza con il procedere del romanzo nonostante muoia presto e via via anche da molti altri descritti con cura.
Un romanzo che è riuscito anche a commuovermi nelle scene della morte e del ricordo del padre stesso o quando la folla di persone si raduna al Café Deux Magots dopo aver saputo della morte di Jean-Paul Sartre, il personaggio forse più importante che a Libero capita di conoscere nel bar che il padre era solito frequentare.
Perché al romanzo fanno da corollario una schiera di autori e di romanzi che accompagnano l’adolescente nel suo trasferimento verso l’età adulta: da Lo Straniero di Albert Camus a Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati; William Faulkner, Raymond Carver, tutti scrittori che Missiroli ti fa venire voglia di leggere se non l’hai già fatto, e ogni opera viene allacciata a un momento e a uno stato d’animo particolari del viaggio del ragazzo.
Dicevo quindi che nel libro il sesso c’è, ma non è questo la cosa importante: si capisce ben presto che l’atmosfera non è quella di un romanzo erotico; leggendo sei preso subito dai “normali” accadimenti di una vita in evoluzione e, anche se proseguendo non ci sono colpi di scena sensazionali, sia lo stile che la ricercatezza con cui Missiroli ha costruito parole e periodi ― si sente, che ha bazzicato la Holden… ― ti fanno apprezzare il romanzo fino in fondo.
Lasciandoti con la voglia di leggere quelli tra i romanzi citati che ancora non ti sono passati per le mani.
Il Lettore 

domenica 23 ottobre 2016

Lo Squizzalibro di domenica 23 ottobre 2016

Allora, chi di voi farà parte dell’orda di fessacchiotti che calerà qui in città a comprare un pezzo di cioccolata al triplo del prezzo del negozio sotto casa vostra? Oggi ci sarà il clou di Eurochocolate, volete perdervelo? Spero per voi di sì, ma se invece non state nella pelle nell’attesa di sciropparvi qualche ora di auto, treno o pullman per poi ficcarvi in mezzo a un marasma di gente e fare code su code per aggiudicarvi un cioccolatino che neanche fosse oro per il guadagno di una sola persona, fate pure: non mi ci troverete.
Ho partecipato a una sola sessione di Eurochocolate, una delle prime, molti anni fa, giusto per vedere com’era e perché essendo la manifestazione all’inizio c’era un po’ di curiosità e ancora non ci si era resi conto bene della realtà delle cose.
Mai più.
I miei occhi hanno visto cose inenarrabili.
Fiumane di gente infinitamente meno civile dei tori alla fiera di Pamplona; orde di mamme impazzite per tenere a bada figli famelici più del lupo di Cappuccetto Rosso; bambini sanguinanti strattonati, urtati, allontanati dai genitori, spinti, calpestati da distinti signori in giacca e cravatta con lo scopo di rubare loro il pezzetto polveroso di cioccolato che avevano appena raccolto in terra; mature signore dallo sguardo spiritato e i foulard distesi a sacco,  retti a due mani davanti al seno e colmi di un’accozzaglia di roba marrone; vecchietti con la bava alla bocca e gli ombrelli aperti, sottosopra, agitati di qua e di là per catturare al volo le schegge schizzate via dagli scalpelli degli scultori all’opera su immensi blocchi marrone scuro ― cioccolata, forse… ― con le stecche degli ombrelli infilate negli occhi o fra le trecce di bambine singhiozzanti. Non una folla di umani ma una torma di bestie, nella peggior accezione di questo termine.
Non crediate che io abbia esagerato, tutto visto con i miei occhi, per un pezzo di simil-cioccolata gratis molti dei presenti avrebbero ucciso la propria madre.
Mai più.
Che poi tra Eurochocolate, i Baracconi, le partite del Perugia e della SIR, il mercatino del sabato, la Fiera dei Morti, le buche per le strade e le gallerie chiuse (prendesse un colpo secco a tutti i dirigenti dell’ANAS dal primo all’ultimo, nessuno escluso), questa città che amo tanto è diventata invivibile. Da addormentarsi per San Francesco e risvegliarsi come minimo a metà novembre. Prendesse un colpo anche ai dirigenti e ai politici del Comune va, già che ci siamo.
Va be’, perdonatemi lo sfogo asociale e passiamo all’appuntamento domenicale. Il libro che vi propongo di indovinare oggi…




1 – È un romanzo, pubblicato l’anno scorso e subito vincitore di un premio letterario. Ovvio che non vi dico quale altrimenti sarebbe troppo facile.
2 – L’autore, uomo, è italiano e giovane, visto che ha solo una trentacinquina d’anni
3 – La cosa rimarchevole è che tutti i cinque romanzi che ha pubblicato finora hanno vinto dei premi letterari.
4 – Dopo lungo ponderarci sopra ho stabilito che il tema del romanzo in ballo secondo me appartiene al genere dei romanzi di formazione, anche se…
5 – …dal titolo potrebbe sembrare che il contenuto sia molto più stuzzicante
Buona domenica! Non mangiate troppo, mi raccomando, e senza che veniate a Perugia se proprio volete un pezzo di cioccolata buona prendetevi una tavoletta di vera Luisa al negozio sotto casa.
Freereader

giovedì 20 ottobre 2016

Non è stagione

Tornando da un pranzo a casa del mio editore preferito mi sono portato via tre volumi della sua libreria che mi avevano incuriosito e ho cominciato a leggere questo Non è stagione pur non essendo il primo della saga del Vicequestore Rocco Schiavone. Ma di questo personaggio di Antonio Manzini ne avevo sentito parlare non fosse altro perché tra breve dovrebbero mandare in onda lo sceneggiato televisivo che ne hanno tratto e che con tutta probabilità non guarderò, ma uno deve tenersi aggiornato, no? Che cosa potrei rispondere altrimenti a chi mi domandasse che cosa ne penso?
Adesso potrei dire loro che appena iniziato il romanzo avrei già voluto scaraventarlo dalla finestra, e non l’ho fatto solo perché primo il libro non è mio, e secondo perché abitando a piano terra non si sarebbe fatto abbastanza male.




Non si può mettere una castroneria già alla seconda pagina e pretendere che passi inosservata, vi pare? “Il motore sbiellato e la marmitta bucata suonavano come ferraglie lasciate cadere da una rampa di scale.” I due personaggi con cui inizia il romanzo stanno viaggiando su un furgone che a quanto pare ha dei problemi meccanici, e passi la marmitta bucata, ma se un motore è sbiellato la macchina non cammina proprio; lo dice la parola stessa: sbiellato = con le bielle rotte, e in queste condizioni un motore non gira, fine dei giochi, kaputt, non è che si limita a sferragliare continuando ad andare avanti. A me questa leggerezza nell’usare la terminologia fa talmente girare le palle che ci potrei far decollare un elicottero, ma quando l’ho fatto notare alla mia adorabile mogliettina lei mi ha subito tacciato di eccessiva pignoleria, e ti pareva, così ho proseguito nella lettura per soffocare l’istinto di lanciare lei, dalla finestra, che tanto anche lei non si sarebbe fatta molto male.
Che poi alla fine il romanzo è anche leggibile, a non voler essere pignoli, ma pure nel seguito è colmo di imprecisioni di questo genere e di tratti che, se a definirli confusi poi divento pedante, non sono raccontati con sufficiente chiarezza.
A partire dal protagonista, stereotipo assoluto, poliziotto bravo (ovviamente) ma (ovviamente) con grossi problemi personali e passato misterioso, che l’autore fa di tutto per far vedere quant’è antipatico e scostante con lo scopo in realtà di rendertelo simpatico, e alla fine è riuscito benissimo a farmelo diventare antipatico e scostante. E pure deficiente. Come lo definireste voi uno che continua a indossare esclusivamente scarpe Clarks e ogni volta che piovono due gocce le deve buttare via perché si infradiciano? Questa non è una gag ricorrente, è una dimostrazione di idiozia pura. Sei ad Aosta, cazzo, non nel deserto di Atacama, un paio di scarponcini da montagna no? E lasciamo perdere le scopiazzature caratteriali prese direttamente da Salvo Montalbano, perché allora saremmo costretti a parlare anche di ulteriori scopiazzature, cominciando dagli altri poliziotti cretini in pieno stile Catarella per finire con le visioni di persone morte in pieno stile Ricciardi. E poi a me quelli che scroccano le sigarette a getto continuo stanno sui coglioni per definizione.
Ma la vicenda può anche incuriosire, e dal momento che volevo vedere che fine facesse la ragazza rapita sulla quale Schiavone è chiamato a investigare ho proseguito nella lettura, aggirando i luoghi comuni, scansando le incongruenze e fischiettando facendo finta di non vedere sui passaggi non tanto plausibili pur di arrivare alla fine.
Conclusione? Il romanzo si lascia anche leggere, ma lo stile di Antonio Manzini non mi è piaciuto proprio: la superficialità e l’imprecisione la fanno da padrone, e visto il numero di persone che parlano straordinariamente bene di questo libro questa è un’ennesima conferma alla constatazione che il 90% delle persone si lascia abbindolare con poco e quindi per avere successo bisogna scrivere stronzate. Non mi è piaciuto come si è risolta la faccenda, non mi è piaciuto l’inserimento della tragica vicenda finale e non mi è piaciuto il fatto che dopo aver tartassato in continuazione il lettore con stralci del rapimento visto dagli occhi della ragazza sequestrata quest’ultima scompare dalla scena e non se ne sa più nulla.
Non credo che leggerò altre avventure del Dott. Schiavone, né tantomeno guarderò la serie televisiva: Clarks? Mai messe, io sono uno di quelli che portano gli scarponcini da ottobre a maggio.
E tanto per continuare a essere pignolo, a pagina 162 c’è un altro furgone in viaggio (che quello dell’inizio ormai è dal rottamatore) nel quale il passeggero “…sentì il furgone acquistare velocità. Sempre di più, sempre di più. Scalava di marcia e correva sempre di più." Avete notato? È diventato un difetto cronico.
Nel dizionario della lingua italiana il verbo “scalare” ha tanti significati, tra i quali un’accezione per “diminuire, ridurre”. Soprattutto poi nel gergo automobilistico lo “scalare” è il decrementare le marce per consentire di alzare il numero di giri o per attivare il freno motore. Non si “scala” di marcia quando già stai aumentando la velocità, casomai innesti la marcia superiore. Tanto per continuare a essere pignoli.
O Manzini oltre all’ignorare cosa sia un vocabolario non saprà nemmeno guidare l’automobile?
Il Lettore 

lunedì 17 ottobre 2016

Serenata senza nome

E dopo averlo ascoltato di persona la settimana scorsa, potevo mancare di leggere il suo ultimo romanzo? La nona, se non sbaglio, puntata delle avventure del Commissario Ricciardi? Della quale oltretutto in quell’occasione l’autore ha spiegato ai presenti il filo portante emotivo del racconto, incentrato sul contenuto della canzone del 1903 Voce ’e notte, di Edoardo Nicolardi ed Ernesto De Curtis.
La canzone napoletana non mi piace come tutto il resto della napoletanità, ma inserita nel modo giusto in una lettura che invece mi piace farò finta di apprezzare anche quella.




Come già in alcune occasioni ho avuto modo di dirvi io guardo molto poco la televisione e in vita mia non ho mai seguito una telenovela (di seriale in tv posso solo guardare sporadici episodi di Jessica Fletcher, quando mi ci voglio addormentare davanti perché tanto chi è l’assassino lo so già avendoli visti tutti almeno due o tre volte, in trent’anni, ma che volete, nonostante porti sfiga mi sta simpatica lei), ma in questo caso ho dovuto ammettere con me stesso che questa di Luigi Alfredo Ricciardi è diventata una vera e propria telenovela che però mi ha fatto affezionare ai suoi personaggi.
Per quanto riguarda i suoi ultimi romanzi infatti, i detrattori di Maurizio De Giovanni lo accusano di lasciar scivolare le trame in secondo piano rispetto alle vicende personali dei suoi protagonisti seriali. Non hanno tutti i torti: anche in questo caso la trama gialla è poco più che banale e con esiti scontati, ma le vicende umane degli attori di contorno ti fanno appassionare alla loro evoluzione. Ogni volta vorresti una risoluzione definitiva di queste vicende, ma De Giovanni le centellina andando avanti un passettino alla volta facendo soffrire non poco il lettore. Anche se la trama non è un capolavoro di letteratura gialla (con pochissimi protagonisti papabili al ruolo di assassino di turno anche il meno intuitivo dei lettori alla fine si immagina chi esso sia), la bravura dell’autore si individua dapprima nell’indirizzare i sospetti da tutt’altra parte, come si fa in ogni giallo che si rispetti, quindi nel rendere interessanti le vicende dei personaggi di contorno, e qui sì che De Giovanni ne ha messi al fuoco tanti e ognuno meritevole di attenzione. In un’atmosfera cupa e piovosa l’autore scava a fondo nei sentimenti di ognuno e di ognuno riesce a connettere ciò che esso prova al leit motiv musicale del romanzo, esplicato con chiarezza negli interludi in corsivo.
Così vediamo che il rapporto tra Ricciardi ed Enrica fa un piccolo passettino avanti, in quale direzione ancora non è dato di sapere bene, e anche gli altri “soliti noti” progrediscono nel consolidamento delle caratteristiche loro peculiari, che per quanto possano sembrare stereotipi sono tratteggiate in un modo accattivante che te le fa interessare. E se la vicenda gialla si risolve, per queste ultime invece siamo ancora ben lontani da una conclusione: Maurizio De Giovanni sabato scorso ci ha detto che con tutta probabilità la saga del Commissario Ricciardi vedrà la fine nel 2018, quindi ad occhio e croce ci toccherà stare ad aspettare un altro paio di romanzi.
Il Lettore 

venerdì 14 ottobre 2016

Il Nobel a Bob Dylan

Va be’, dai, sto zitto.
È meglio.
Fammi stare zitto che è meglio.
Non che abbia nulla contro il signor Zimmerman, per carità, in vita sua ha anche scritto cose buone, tipo che il vento soffia e si porta via le risposte, che se non soffiasse si chiamerebbe bonaccia, ma io nei confronti della poesia continuo sempre a pensarla come la vignetta qui sotto.




O forse sarà che non l’ho mai ascoltato abbastanza, anche perché tra i righi parlando mi pare che abbia apportato la stessa innovazione musicale di un Fabrizio de Andrè: rari sprazzi di piacevolezza in un mare di scontati giri di do. Evidentemente la creatività è tutta nella poesia, che mi ci sforzo, e qualche volta la capisco anche, ma quanto ad apprezzarla preferisco i porcaputtana e i vaffanculo.
Ma giustamente questo è il Nobel per la Letteratura, e non della Musica, quindi fammi stare zitto che è meglio.
Del resto di poeti che hanno preso il Nobel ce ne sono stati diversi, anche in casa nostra: Carducci, Quasimodo, Montale, anche Fo, pace all’anima loro. Quanto a sindacare quanti di loro se lo meritassero è un altro discorso.
Ma visto che la poesia e la musica d’autore oggi come oggi non vendono un cazzo vediamo pure di incentivarle, che qualcuno, da qualche parte, ne sarà contento.
Va be’, forse è meglio che ritorno a stare zitto.
Ma il parlare poetico verrà meglio con la chitarra elettrica o con quella “analogica”? Perché se qualcuno ritiene che viene meglio con quella elettrica allora propongo Bruce Springsteen per il Nobel dell’anno prossimo.
Basta, chiudo, sto zitto.
Il Lettore 

lunedì 10 ottobre 2016

Incontri con l’autore

Adorabile come sempre, sabato pomeriggio il mio editor mi ha costretto invitato ad accompagnarla ad assistere a un incontro con uno scrittore famoso che doveva aver luogo in un paesino sperduto della Valnerina.
Cosa vuoi che siano, settanta o ottanta chilometri?”, mi ha detto per convincermi. Nel suo candore, lei non tiene mai nella minima considerazione il tempo necessario per i tragitti ― le sembra sempre di avere a disposizione il teletrasporto di Star Trek ―, le condizioni della strada e quelle del tempo.
Dopo esserci sciroppati un’ora e mezzo di curve e controcurve sotto una pioggia battente siamo arrivati in questo posticino incantevole, non fosse stato per l’acqua, paesino arroccato su un monte con annesso castello del tutto ristrutturato, con gusto, una volta tanto, che la conferenza era già iniziata. Ci siamo accomodati insieme alle altre ventotto persone già sedute e ci siamo messi ad ascoltare lo scrittore che da solo, tra pareti affrescate nel punto in cui all’epoca doveva essere ubicato l’altare dell’antica cappella del castello, stava già parlando di sé.
Trenta persone. Ho subito pensato che fossero veramente poche per un autore della levatura di colui che avevamo di fronte.
Sì, perché quello seduto al posto dell’altare non era proprio come si suol dire l’ultimo arrivato.
Non era un qualsiasi vincitore di uno Strega né un professorone pompato né uno di quelli che vanno artatamente di moda, ma uno dei due scrittori italiani che oggi vendono di più in assoluto, meritatamente, uno dei due italiani che scrivono nel modo più piacevole. Colui che avevo di fronte era uno degli scrittori che apprezzo maggiormente, di cui attendo con apprensione ogni nuova pubblicazione e che finora non mi ha mai deluso, e che nel tempo è quasi diventato un tormentone di questo blog.
Nonostante sia napoletano.
Avete indovinato, stavo ascoltando, di pirsona pirsonalmente come direbbe l’altro dei due, proprio il creatore del Commissario Ricciardi: Maurizio De Giovanni.




Che poi mi sono chiesto come un artista del suo calibro possa essere capitato a parlare in quel posto sperduto di fronte a una platea così risicata, che sembrava di essere alla presentazione di uno dei miei libri, ma va be’.
Siamo arrivati proprio nel momento in cui De Giovanni aveva cominciato a narrare qual è stato il suo percorso per arrivare a essere uno scrittore famoso: un racconto che vince un concorso; la telefonata di un agente letterario che gli propone la pubblicazione di uno dei romanzi che lui sicuramente avrà già avuto nel cassetto; l’esaurimento immediato di tutta la prima tiratura de Il senso del dolore; le telefonate di altre case editrici e produttori cinematografici per assicurarsi i diritti degli “altri” romanzi sicuramente contenuti nel cassetto; il ciclo delle stagioni, il ciclo di Pizzofalcone e così via.
Il tutto raccontato in modo molto simpatico e cordiale. Come lui stesso ci ha detto, il fatto era che oltre a quel primo racconto De Giovanni nel cassetto non aveva proprio nulla, nessun altro racconto, tantomeno romanzi, e di conseguenza quel primo libro che gli avevano promesso di pubblicare se lo è dovuto scrivere da zero in fretta e furia. A detta sua non è stato difficile, del resto doveva solo ampliare quel primo racconto, e dopo aver “bluffato” spudoratamente con chi glielo richiedeva ci ha messo meno di un mese per scriverlo e offrirgli un prodotto finito. Che poi ha avuto il successo che ha avuto. Da bancario a scrittore di successo: voilà!
Che sia stato così facile lasciatemene dubitare un pochino. Così come sul fatto che scrivere sia così facile come poi ci ha detto. Per esserci passato, mica per altro. Una verità assoluta invece è venuta fuori quando ha ammesso di essersi messo a scrivere solo dopo essere stato per anni un lettore “professionista”, confermando così il dogma che per poter scrivere bisogna prima saper leggere.
Ma in quel momento il racconto è stato piacevole e ci poteva anche stare, e lo scrittore ha saputo rendere l’incontro molto naturale e spontaneo, non lesinando sulle battute spiritose, sul dialetto e sugli aneddoti di vita vissuta, da quelli che ha già riportato in alcuni libri alla gente che lo ferma per strada e lo accusa brutalmente di trattare male alcuni suoi personaggi, alle persone anziane che lo spronano a far pubblicare al più presto una nuova avventura di Ricciardi per potersela gustare prima che la morte le colga.
E in modo simpatico ha anche risposto alle domande del pubblico sulla psicologia dei suoi personaggi comprese quelle di coloro, e ce ne sono sempre, che amano più sentir blaterare se stessi che ascoltare il protagonista dell’incontro, e quelle dei tifosi di calcio che di suo hanno letto solo Il resto della settimana.
Un paio d’ore passate in modo piacevole con una persona interessante. E di questo devo ringraziare il mio editor per avere insistito a partecipare. Nonostante la napoletanità. Tra le altre cose De Giovanni ha tenuto a specificare come una città unica come Napoli, dove a distanza di un metro trovi a convivere realtà del tutto differenti tra loro, sia una fonte inesauribile di spunti per qualsiasi scrittore. Posso anche crederci, ma questo non cambia di una virgola la mia opinione.
Alla fine sono stato anche tentato di andare a stringergli la mano e complimentarmi con lui ma, avendolo visto attorniato dai presenti e non essendo affetto da ansia di protagonismo, ho pensato bene di risparmiargli ulteriori banalità e ci siamo apprestati ad affrontare un’altra ora e mezzo di curve e pioggia. 
Teletrasporto: magari!
Lo Scrittore

sabato 8 ottobre 2016

E liberami dalla gente. Amen.

Più invecchio, meno mi sento di fare finta che la compagnia delle altre persone mi sia gradita.
É per questo che quando, girellando su Faccialibro, sono incappato in alcune battute che rispecchiavano il mio modo di pensare, sono andato a vedere da dove provenissero e ho scovato una pagina ― Antipatia gratuita ― il cui autore sembrava che la pensasse proprio come me. Solo poi ho scoperto che è una pagina seguitissima. Scorrendo, sono venuto a sapere che sul tema della pagina Antonio Schiena ci aveva anche scritto un libro sopra, e appena ho comunicato al mio editor che mi sarebbe piaciuto leggerlo lei, più veloce della luce, me lo ha regalato in versione epub. Che moglie adorabile! Fosse così anche a casa…




E liberami dalla gente. Amen. è un libro di racconti intervallati da battute e vignette sarcastiche sul tema di un’accesa misantropia. Il protagonista è un non ben specificato A. G., alter ego dell’autore stesso, che si trova di volta in volta a incontrare, come capita a chiunque, nel corso di giornate del tutto normali, persone del tutto normali, e proprio per questo insopportabili.
Dall’incontro con una sconosciuta in ascensore all’essere tartassato dal bambino rompicoglioni, dall’amico profittatore ai compagni di viaggio nell’autobus alle mamme dai discorsi incredibilmente tediosi, e come non inserire la tortura degli obblighi sociali in occasione del Natale? Cose che capitano a tutti e che dalla maggior parte sono odiate, ma di solito nessuno ha il coraggio di dirlo. Ogni racconto è condito dalle considerazioni del protagonista che rispecchiano il leit motiv del libro, a partire dall’incipit:
Sono le cose più semplici, i gesti quotidiani, gli incontri inaspettati, gli affetti di sempre, gli amici e le persone che ti vogliono bene a farti apprezzare davvero la solitudine.
per proseguire con le altre battute ironiche:
 “Oggi è il primo d’aprile. Non crederò a niente e non mi fiderò di nessuno. Come tutti gli altri giorni.
 “Io tendenzialmente mi sveglio bene. Sono le persone che mi rovinano le giornate.
Ognuno nella vita incontra una persona speciale. Quella che se c’è lei io non vengo.
delle quali per non rendermi antipatico più di quanto già non sia ho riportato solo alcune tra le più politicamente corrette.
I racconti sono carini ― mi sono trovato spesso a sorridere leggendo ― veloci e scritti bene, compresi i dialoghi, ed è facile, per quelli cinici come me, identificarsi col sociopatico protagonista malato di “simpatia selettiva”, compatirlo e autocompatirsi. Della serie: sto tanto bene da solo, perché volete costringermi a uscire e incontrare gente?
E poi sapete che vi dico? A me è piaciuto. Di cosa ne potreste pensare voi non mi importa proprio nulla.
Il Lettore

martedì 4 ottobre 2016

Non è un paese per vecchi

Dopo averlo letto, la sensazione principale che ne è derivata è quella che questo romanzo sia stato molto sopravvalutato. Forse perché se ne è parlato molto nella versione cinematografica diretta dai Fratelli Coen, forse perché la crudezza del contenuto rispecchia l’attuale società statunitense, o forse solo perché a molti altri romanzieri è piaciuto tanto il risparmio di virgolette nei dialoghi da aver subito preso a esempio l’autore e averlo scopiazzato senza alcun pudore. Anche qui in Italia.
Le ragioni possono essere tante, di sicuro anche quella che non è un cattivo romanzo, che però  non mi ha entusiasmato, anzi, mi ha lasciato piuttosto indifferente senza avermi “preso” più di tanto.




Molti di quelli che possono essere visti come difetti, dai dialoghi banali e scontati al mancato approfondimento dei personaggi, al loro indugiare in attività inutili o futili, e soprattutto il riferire reiteratamente queste ultime da parte dell’autore, Cormac McCarthy li ha di certo inseriti volontariamente appunto per dare, con l’impressione di superficialità che ne deriva, un quadro il più possibile reale della società in cui vive, fatto sta che a un occhio smaliziato potrebbero senz’altro apparire come difetti, e non potresti dirgli nulla.
La trama è banale, da film western in chiave moderna: girellando nella prateria il giovane Llewelyn Moss si imbatte in una “mattanza” con mucchi di cadaveri, di droga e di soldi. Dei cadaveri pensa che non riuscirebbe a farsene nulla, ma magari la droga e i soldi forse forse potrebbero servire, e decide di portarseli via. Non l’avesse mai fatto. Da quel momento diventa oggetto di una spietata caccia all’uomo da parte dei “legittimi” proprietari del maltolto, delle forze dell’ordine e, perché no, anche dello psicopatico di turno che sembra che senza uno psicopatico tra i protagonisti oggi non si riesca a fare abbastanza cassetta.
Ovvio (tanto per restare sul banale) che la faccenda andrà a finire male per quasi tutti i protagonisti, ma che western sarebbe senza le pistolettate e i morti ammazzati?
D’altra parte devo ammettere che il ritmo è veloce e di certo non manca di azione, e di conseguenza può anche diventare una lettura piacevole. Sempre per quelli che possiedono un occhio non smaliziato a sufficienza.
Qualche volta li invidio, anch’io una volta mi divertivo molto di più con molto meno. Adesso, una volta terminato non mi ricordavo già più le personalità dei protagonisti.
E anche se si potrebbe risparmiare tempo nella battitura, non mi è presa nemmeno la voglia di scrivere i miei dialoghi senza virgolette. Anche se sembra che faccia tanto fico.
Il Lettore tradizionalista