lunedì 30 maggio 2016

Bruce Springsteen – Spiriti nella notte

I got a sixty nine Chevy with a three-ninety-six fuelie Heads and a Hurst on the floor… She’s waiting tonight down in the parking lot, outside the Seven-Eleven Store. Me and my partner Sonny built her straight out of scratch…
La voce roca scaturisce dal registratore a cassette poggiato sulla branda vicino alla mia dopo un assolo melodico di pianoforte, e io ne resto immediatamente conquistato. L’anno è il 1981, e il luogo una camerata della caserma Pierobon di Padova. È la prima volta in assoluto che mi capita di ascoltare Bruce Springsteen, e questa Chevrolet del '69 con carburatore 396 e la moquette sul pavimento salvata insieme a Sonny dallo sfasciacarrozze, che lo aspetta giù nel parcheggio del 7-11 come farebbe una ragazza innamorata con il suo uomo, mi entra subito nel sangue e non ne uscirà mai più.




Avevo già passato più di dieci anni a ingozzarmi di progressive ― pranzo cena e colazione, giorno e notte, feriali e festivi ― e avevo sviluppato un palato musicale evoluto che veniva solo sfiorato dal più grezzo rock senza che questo facesse una presa sostanziale, ma l’ascoltare all’improvviso questa dolce, triste Racing in the Street mi provocò quella stessa sensazione che nel 1974 aveva spinto Jon Landau, uno dei più noti critici musicali statunitensi, dopo aver assistito per la prima volta a un concerto del Boss, ad affermare: “Ho visto il futuro del rock’n roll, e il suo nome è Bruce Springsteen.
Mai visione fu più profetica. Da allora sono più di quarant’anni che il Boss è sulla breccia senza alcuna intenzione di andarsene, e dopo di lui non si è presentato nessun’altro con le capacità necessarie per reclamarne il posto. Da parte mia, dopo aver assimilato ben bene quello struggente Darkness on the edge of town fino a conoscerlo quasi a memoria, mi rifeci del tempo perduto e imparai tutti gli altri LP, a partire da Greetings from Ashbury Park per proseguire con Born to run e The River fino a Born in the USA e i successivi, a colmare una lacuna che però, per quanto piacevole, non riuscirà mai a scalzare il progressive dal primo posto delle mie preferenze musicali.
Bei ricordi, belle sensazioni. Sono ritornate tutte alla luce leggendo questo Bruce Springsteen ― Spiriti nella notte, la biografia del Boss realizzata liberamente in forma di fumetto da Marco D’Angelo (alla penna) e Fabrizio Di Nicola (alle matite).
I due autori hanno scritto un racconto che riporta gli episodi salienti della vita di Springsteen e della sua ascesa in campo musicale, suddividendolo in capitoli staccati ispirati ognuno ad una sua canzone e privilegiando gli aspetti psicologici e sentimentali che hanno portato alla sua creazione. La narrazione non è strettamente cronologica e i toni sono coinvolgenti, vi si alternano pagine esaltanti con situazioni malinconiche, non tralasciando passi pieni di azione alternati a momenti riflessivi. Dal suo primo incontro con una chitarra alle notti trascorse a camminare pensando o a correre in macchina, dall’incontro con quelle che saranno amicizie importanti ai primi concerti, senza che manchi il resoconto della costituzione della mitica E-Street Band che lo ha accompagnato per decenni fornendo un apporto sostanziale al suo successo.
I disegni di Di Nicola sono realizzati in un bianco-nero nitido, senza retinature e con poche concessioni alle sfumature, risultano dinamici e sono sufficientemente rappresentativi dei personaggi che si riconoscono a colpo d’occhio. Ovviamente per chi già sa chi essi siano. Ma il fumetto può soddisfare anche coloro che vogliano accostarsi in maniera piacevole a un fenomeno musicale senza saperne nulla a priori.
E a me ha innescato la voglia di continuare a scrivere di un rock-man genuino, uno dei pochi che si sono dati completamente al proprio pubblico mettendo in scena concerti dalla durata chilometrica fino a uscirne del tutto spossati per la pura gioia di suonare, ma questo andrebbe oltre gli scopi di questa pagina e rischierei davvero di annoiarvi.
Bene, indovinate che colonna sonora ho ripescato per scrivere questo post?
I got a sixty nine Chevy…
Il Lettore (in versione rockettara, moderata e struggente)

venerdì 27 maggio 2016

Noli me tangere

Una mattina di qualche giorno fa mi sono trovato ad aspettare una persona più a lungo del necessario, e dal momento che non mi ero portato dietro il Pulitzer del quale da qualche giorno ho cominciato la lettura (e che per gli altri libri sopraggiunti nel frattempo non riesco a terminare), sprofondato comodo nel sedile della macchina mi sono messo a spulciare nel telefono cosa vi potesse essere di buono per farmi ingannare l’attesa. Ho dato una scorsa all’inizio dei libri di tre o quattro autori senza esserne conquistato, poi ho aperto questo e ho proseguito la lettura per una cinquantina di pagine prima che la persona arrivasse.
I ritardatari li odio.




Però oramai il romanzo mi aveva preso e la curiosità ha fatto sì che ne proseguissi la lettura anche in seguito fino a terminarlo. Io non le capisco proprio le persone che si annoiano. Io non mi annoio mai. Nei momenti in cui non ho nulla di altro da fare leggo, e negli altri rari momenti in cui non ho voglia di leggere ho sempre qualcosa da fare, così se usi questo sistema è impossibile che ti assalga la noia. Chiusa parentesi.
La produzione di Andrea Camilleri può essere divisa in due grandi blocchi: i gialli con protagonista Salvo Montalbano e tutto il resto nel quale Montalbano non c’è. E se personalmente preferisco i primi, devo però ammettere che il più bel romanzo che a mio parere Camilleri ha scritto, La mossa del cavallo, fa parte del secondo gruppo, così come altri molto meritevoli, insieme a diverse altre cose che meritevoli non sono e che sono state mandate in stampa solo per fare cassetta.
Anche il romanzo di oggi vede l’assenza del Salvo nazionale, e in una mia personalissima scala di valori da uno a dieci sulla sua bontà, a differenza di altre recensioni che ho stilato su Camilleri, stavolta mi sento di attribuirgli un passabile sette.
Lo spunto: una donna scompare nel nulla, e la storia della sua ricerca è dipinta solamente tramite dialoghi tra le persone interessate alla sparizione (marito, amica, domestica, amanti, ex-amanti, commissario di polizia e altri), articoli di giornale o lettere, stralci di opere teatrali famose, senza descrizioni dei personaggi o contestualizzazioni di luoghi e atmosfere, ricalcando tecniche e schemi ai quali Camilleri ci aveva già abituato in libri come La concessione del telefono.
Il titolo del romanzo è preso dall’episodio evangelico dell’incontro di Maria Maddalena con Gesù Cristo risorto, prendendo spunto dai quadri in cui la scena è stata rappresentata e in particolare quelli del Beato Angelico (al convento di San Marco a Firenze) e di Tiziano (alla National Gallery di Londra), sui quali la donna scomparsa ha realizzato la sua tesi di laurea, la quale costituisce un motivo importante della sua evoluzione psicologica.
Viene fuori tutto il lato più interiore di una donna che nel libro appare pochissimo e solo tramite il resoconto fattone da altri, dapprima apparendo come una bellissima zoccola, poi pian piano cambiando registro man mano che lo scrittore ne rivela gli aspetti nascosti e motivazionali, fino a far apparire il suo comportamento perfettamente coerente con le pulsioni più intime e da sempre tenute nascoste.
Stavolta Camilleri ha messo  in opera una piece teatrale piacevole da leggere e che suscita da subito nel lettore quella curiosità necessaria a proseguire la lettura, in un italiano correttissimo con la sola concessione al dialetto (romanesco) ad opera di un personaggio secondario. I dubbi sulla sparizione della donna alla fine vengono risolti con spiegazioni psicologicamente plausibili, e alla fine di quelle poco più di due ore che ci si mette per leggerlo ci si ritrova con una sensazione positiva.
Mentre scrivo questo post mi vengono in mente metafore carine e parallelismi azzeccatissimi con situazioni già famose e personaggi reali (un esempio fra tanti John Lennon e Maharishi Mahesh Yogi), che però devo abbandonare quasi del tutto perché vi rivelerebbero troppo sulla trama e sui colpi di scena che si succedono nel romanzo. E solo mia è la colpa del fatto che ogni volta che sento nominare il tragico Cocktail Party di T.S. Eliot, immancabilmente mi viene in mente lo spassosissimo Hollywood Party con Peter Sellers, ma questo con il libro di Camilleri non c’entra proprio nulla.
O no?
Il Lettore 

martedì 24 maggio 2016

CineMAH presenta: Il buio in sala

Un altro cadeau giunto da Torino, ma stavolta il fortunato destinatario è mio figlio.
Fammi dare un’occhiata, gli ho detto, e ho cominciato a leggere. E non ho smesso fino a metà libro, con le lacrime agli occhi che sono cominciate a spuntarmi già dalle prefazioni e hanno continuato a sgorgare per ognuna delle recensioni che Leo Ortolani ha stilato sui film che è andato a vedere al cinema.
Non lacrime di dolore, intendete bene, ma singhiozzi di puro divertimento.




Ho preso un caffè insieme a Leo Ortolani quando è venuto a Perugia in occasione di un recente Immaginario Festival. Come d’obbligo si è scivolati a parlare della laurea che ci accomuna, e ci siamo ritrovati a piangere ognuno sulla spalla dell’altro. Il caffè è risultato un po’ salato.
Dal vivo Leo è come quando scrive e disegna: una battuta dietro l’altra. Si vede proprio che gli vengono spontanee. E dall’unione di questo aspetto della sua personalità con la sua passione per il cinema non poteva non nascere una serie di recensioni spassionate, aperte, ironiche, sarcastiche e soprattutto comicissime.



Il buio in sala è una raccolta di queste critiche personali, qualche volta positive, ma per lo più dissacranti, che Leo ha già pubblicato sul suo blog (https://leortola.wordpress.com/) nel corso del tempo, e con le quali spara a zero su tutti gli aspetti dei film (con una spiccata predilezione per quelli di supereroi) che non risultano di suo gradimento. Un po’ come faccio io in questo blog per quanto riguarda la scrittura. Ma a lui il sense of humour riesce meglio.



Così saltano fuori tutte le pecche dei film più noti che sono transitati per le sale cinematografiche in questi ultimi tempi, da trame inesistenti…


…a personaggi sopra le righe; da sceneggiature raffazzonate ad attori la cui capacità di recitazione rivaleggia con quella di uno scoiattolo impagliato, da registi e produttori votati al solo guadagno a un pubblico che si lascia prendere in giro consapevolmente, tutte situazioni intervallate con la solita tetta che il regista fa vedere quando bisogna risollevare gli spettatori dall’addormentamento.
E come non ridere a crepapelle nel leggere che le parti dei protagonisti in 50 sfumature di grigio sono state assegnate rispettivamente a una platessa ― l’unico pesce in grado di dare la giusta intensità recitativa al personaggio ― e al bricco del latte, l’unico che finché lo guardi recitare il latte non bolle?
Se amate il cinema, il fumetto e la comicità, non potete lasciarvi sfuggire queste recensioni dissacranti, sarcastiche ed ironiche, dense di quelle battute fulminanti alle quali Leo ci ha abituati con i suoi albi e che fanno ridere ogni volta che avanzi di una pagina. E, ovviamente, come potrebbero mancare quelle che vengono capite solo dai geologi?


E per finire, un altro merito di questo libro è stato che grazie a lui sono riuscito, per la prima volta in assoluto, a terminare di leggere per intero una storia di Zerocalcare senza abbandonarla dopo due vignette. Era una delle prefazioni. Costituita da una sola vignetta una.
Il Lettore


sabato 21 maggio 2016

Elogio del gatto

Uno dei regalini che mi sono arrivati dal Salone di Torino è questo Elogio del gatto, della scrittrice parigina Stéphanie Hochet, che mi dicono sia amica della ben più famosa Amélie Nothomb (e le assomiglia pure).
Visto che il libretto è minuscolo, appena un centinaio di pagine in un formato più piccolo dell’A5, vale a dire super tascabile, e che la curiosità era tanta, mi sono messo a leggerlo subito accantonando per un momento il Premio Pulitzer che avevo iniziato da poco. Potenza del fascino dei gatti.
Ma anche in questo caso il risultato è stato inferiore alle aspettative.




Il tema portante del libro è, manco a dirlo, un’apologia del gatto attraverso le citazioni dello stesso operate in letteratura, un po’ quello che ha fatto Carl Van Vechten con il suo Una tigre in casa che avevo recensito qui. La differenza è che Van Vechten aveva scritto un’opera quasi monumentale analizzando la presenza del gatto anche in tutte le altre arti estranee alla scrittura, mentre la Hochet si è limitata  a questa e (quasi) solo nell’ambito dell’ultimo secolo, che era sfuggito allo statunitense dal momento che aveva pubblicato il libro nel 1920.
Stéphanie Hochet rievoca la presenza dei gatti in diverse opere letterarie, da Shakespeare a Balzac, da Eliot a Maupassant, da La Fontaine a Walt Disney per poi approfondire ma non più di tanto, citando Tennessee Williams e la sua Gatta sul tetto che scotta, lo stretto rapporto che intercorre tra la sessualità femminile felina e quella umana. Ci sarei arrivato anch’io da maschio: la conclusione è che basta essere femmine per essere sempre pronte a tirare fuori le unghie.
Librettino leggibile, curioso, ma che in fondo lascia il tempo che trova. E il fatto che sia breve è un vantaggio perché la noia non fa in tempo ad assalirti che l’hai già finito.
Il Lettore 

mercoledì 18 maggio 2016

Canale Mussolini – Parte Seconda

Per restare in tema di pipponi, dopo la Allende eccone un altro interminabile e noiosissimo che purtroppo avrà ingannato ben bene tutti quelli, compreso il sottoscritto, ai quali l’originario Canale Mussolini era piaciuto molto.
Se il Canale primigenio di Antonio Pennacchi l’avevo divorato in brevissimo tempo (era il 2011, se non erro), intrigato dalle vicissitudini della famiglia Peruzzi e dagli sconvolgimenti topografic-agricol-sociali indotti nell’Agro Pontino nel corso degli anni ’30 del secolo passato, questo seguito non sono riuscito neanche a finire di leggerlo, tanto risulta lontano dal romanzo di cui costituisce la prosecuzione.
Distante anni luce, una delusione tremenda.




Se nel Canale Mussolini originario le vicende dell’Agro Pontino in epoca fascista facevano da sfondo al filone principale costituito dalle avventure dell’esule famiglia Peruzzi, e ciò completava in modo soddisfacente l’interesse suscitato nel lettore per lo scoprire l’evoluzione di quelle vicende, in questo Parte Seconda succede il contrario: l’autore racconta uno sfacelo di fatti, aneddoti, storielle, particolari relativi alla trasformazione dell’area nel corso e dopo la guerra mischiate ai quali, in secondo piano, ci sono alcuni fatti della famiglia Peruzzi. Come a dire che stavolta Pennacchi ha sbagliato bersaglio. Il rovesciamento delle priorità fa sì che venga a mancare la tensione narrativa e trasforma la narrazione in un’arida enumerazione di fatti ed episodi che ben presto stufa e alla fine lascia il tempo che trova.
Tanto per fare un esempio, la trattazione dell’evoluzione nel tempo della topografia urbana di Littoria (Latina: qui i fascisti hanno fatto erigere questo, qui gli americani hanno distrutto quest’altro, qui poi hanno ricostruito quest’altro ancora…) potrebbe interessare giusto quelli che ci abitano o i geometri del Comune, ma quanto a sprone per continuare la lettura ne possiede quanto le vicende delle rane che abitano i pochi stagni rimasti intorno alla città.
I particolari che Pennacchi racconta saranno anche curiosi e moderatamente interessanti, presi singolarmente, ma costituiscono una miriade di fatti, personaggi e singole storielle che ti portano ben presto alla confusione più totale nella quale, ammesso che ci fosse, ben presto ne perdi il filo logico conduttore.
In molti hanno anche criticato l’uso consistente del dialetto veneto nei dialoghi, ma quello a me non ha dato fastidio: basta entrarci dentro e dopo le prime frasi che possono lasciare un po’ sbalestrati ci si abitua e si legge bene anche se siamo più abituati al siciliano o al pisano.
Nel primo Canale Mussolini l’autore aveva saputo infondere della magia, del fascino nel ripercorrere la tragedia delle povere famiglie contadine traferite dal Veneto al Lazio, ma la cosa non gli è minimamente riuscito di ripeterla in questo prosieguo. Viene da pensare, malignamente, che dal momento che Antonio Pennacchi aveva raccolto una marea di materiale per scrivere il primo libro, l’editore non abbia voluto mandarlo sprecato e abbia avuto la bella pensata di tirare su un po’ di quattrini anche con quello. Che cattivo che sono.
Fatto sta che ne ho protratto la lettura per diverse sere avanzando di non più di una pagina ogni volta prima di caderci addormentato sopra, fino a che ho deciso che non ne valeva proprio la pena di continuare.
Ciao ciao Pennacchi, passiamo a un Premio Pulitzer che è meglio.
Il Lettore profondamente deluso

domenica 15 maggio 2016

Lo Squizzalibro di domenica 15 maggio 2016

Stamattina mi sono svegliato reduce da una serata di gozzoviglie durante la quale ho cucinato salsicce alla brace per una quarantina di persone, cioè il ristretto gruppo di invitati alla serata di festeggiamento del grandioso evento Perugia Comics 2016 in quel della Biblioteca delle Nuvole.
In mezzo a un marasma di artisti, disegnatori famosi o meno, sceneggiatori, editori, organizzatori e collaboratori io facevo il rosticciere, come al solito.
Mai una volta che mi possa godere un happening tranquillo senza pensieri, no, mi tocca sempre lavorare. Per fortuna che anche stavolta ci sono state anime buone che hanno provveduto a non farmi rimanere neanche per un secondo senza carburante, di quello rosso corposo.

E questo la mattina dopo si risente…

Lo dicevo io che da come scrivi sembri essere più ubriaco la mattina che la sera…
Ma piantala e vammi a fare un caffè, va…
Mi sa che è meglio, che ci vuoi far indovinare oggi?
Allora….
1 – il libro da indovinare oggi è un romanzo. Romanzo… vabbe’, non andiamo tanto per il sottile. È “quasi”, un romanzo. Potrebbe esserlo, ma… Forse l’intenzione c’era… Ma sì, l’autore l’ha definito un romanzo, dunque… E che, adesso diamo retta agli autori?
2 – Devo per forza, visto che dovete indovinare il seguito di un romanzo famosissimo. E se il “seguito” di un “romanzo” non è anch’esso un romanzo, che cosa dovrebbe essere? Ah be’, allora…
3 – Il romanzo di cui il libro da indovinare costituisce la seconda puntata mi era piaciuto moltissimo, per cui mi sono apprestato a questa lettura pieno di aspettative e curiosità. E chissenefrega, e questa ti pare un’indicazione?
4 – Hai ragione, diciamo che è un “romanzo” storico, ti basta? Ma certo che no! Di che epoca storica tratta? E dov’è ambientato? Quante ne vuoi sapere… Così diventa facile!
5 – Ti basti il fatto che è ambientato in Italia in epoca recente. Del resto l’autore è italianissimo ed è uno di quelli che hanno fatto la gavetta quella vera: uno dei suoi primi romanzi lo ha spedito a più di trenta case editrici prima che gli venisse accettato e pubblicato, e con il romanzo di cui questo da indovinare è il seguito ha vinto anche un importante premio letterario.
Se l’altro glielo hanno rifiutato in trenta, un motivo mi sa che ci sarà stato…
Non so, perché quello non l’ho letto, fatto sta che ora è diventato uno dei più noti scrittori italiani.
Ma l’autore ha scritto solo questi tre romanzi?
No, ne ha scritti parecchi, ma probabilmente tra questi ci sono i suoi due più conosciuti.
Non puoi dirci di più?
Allora, questo caffè?
Freereader

sabato 14 maggio 2016

Salone del Libro 2016

Leggo in rete che uno degli eventi più attesi e importanti di quest’ultimo corrente Salone del Libro di Torino sarà la presenza di Marie Kondo, la psicopatica giapponese che ha venduto più di quattro milioni di copie del suo libro Il magico potere del riordino che qualche tempo fa ho recensito qui.




Sarà a Torino allo scopo di spiegare meglio, per chi non fosse stato in grado di capirlo dal momento che il concetto era veramente troppo difficile da assimilare, come si fa a ricavare lo spazio necessario per sistemare tutte le proprie cose, soprattutto all’interno di una borsetta da signora.
Oltre che, naturalmente, a pubblicizzare la sua nuova puttanata: 96 lezioni di felicità, alle quali naturalmente non ho nessuna intenzione di avvicinarmi, tanto so già quale ne sarà il concetto portante: sorridi, pensa positivo. Ripetuto 96 volte.
Anche se oramai dovrei esserci abituato, la cosa mi fa sempre imbestialire: libri che valgono vengono bellamente ignorati, mentre si aprono le porte alle più immani stronzate che si vendono sfruttando la credulità e la dabbenaggine delle persone dappoco.
E i giornalisti, anch’essi dappoco, che fanno pure pubblicità alle pubblicità. Mah!
A Torino è andato il mio editor, promettendomi che sarebbe tornata con un regalino per me. Spero non sia questo libro. Ma domani sera, quando tornerà, le chiederò se nel corso della manifestazione oltre alle puttanate abbiano mostrato anche qualcosa di interessante, e nel caso ve ne farò partecipi.
Freereader

martedì 10 maggio 2016

L’amante giapponese

Nel corso degli anni mi si è sviluppata una certa repulsione nei confronti degli autori sudamericani (il fatto che in un libro tutti i protagonisti si chiamino Aureliano Buendìa supera la mia capacità di sopportazione), cosa assolutamente non condivisa dal mio editor che al contrario li adora.
Molti suoi tentativi di costringermi a leggere questo o quell’altro non sono andati in porto, ma se io sono cocciuto da una parte lei è cocciuta dall’altra e continua a insistere, e alla fine, anche per salvaguardare il ménage familiare, ho fatto buon viso a cattivo gioco e ho acconsentito a leggere questo romanzo che lei sosteneva essere molto carino (ma questo significa poco, lo dice di tutti i sudamericani).




E, tanto per confermare i miei timori, il romanzo di Isabel Allende ha cominciato ben presto a farmi girare le palle perché, alla faccia del titolo, per diverse decine di pagine non c’è alcuna traccia di qualsivoglia Amante giapponese, e uno comincia a domandarsi il perché di un titolo del genere se la vicenda tratta invece delle problematiche di un ospizio per anziani (un sacco allegro: schiattano una moltitudine di vecchietti…). E non è nemmeno colpa di una traduzione impropria: il titolo originale recita infatti El amante japonés.
Ma quando sei lì lì per rinunciarci… ecco che salta fuori questo Ichimei Fukuda che comincia a dare un senso perlomeno al titolo… Salta fuori perché un’ospite dell’anticamera del Paradiso dell’ospizio si comporta in modo strano, e quando i congiunti indagano sul perché delle sue stranezze scoprono che l’ultraottantenne Alma Belasco ha un amante pressoché coetaneo, quel giapponese lì, appunto, con il quale sta insieme da una vita senza che nessun’altro di quelli che le sono stati vicino abbia mai sospettato nulla.
Alma Belasco è un’anziana signora ricca e famosa, originaria della Polonia dalla quale i genitori l’hanno fatta fuggire prima di rimanere vittime delle persecuzioni naziste, e che si è fatta un nome importante nel campo dell’arte e della moda. Una donna volitiva e indipendente, che alla sua età gira in Smart (una via di mezzo tra una bicicletta e una carrozzina a rotelle, dice lei) perché così le sembra di non poter uccidere nessun pedone.
Isabel Allende parte così con il narrare della vita di Alma e di come alla fine sia capitata volontariamente in un ospizio, per continuare con il raccontare la vita di tutti i componenti della famiglia Belasco (per quattro generazioni!) che l’ha adottata e poi inglobata, della badante slava che la segue nell’istituto e che poi (forse, ma non è dato di saperlo) finirà per diventare la moglie di suo nipote, per proseguire con la vita dell’amante Ichi e di tutti i componenti della sua famiglia giapponese, e alla fine ti lascia con un palmo di naso perché smette di punto in bianco di narrare biografie e il libro è finito e tu ti domandi ma come? Finito così? E l’amante che fine ha fatto? E lei neanche muore?
In pratica, alla fine di un pippone interminabile in cui analizza nei minimi particolari una quindicina di esistenze, alla resa dei conti l’autrice non ti dice nemmeno che fine fanno i protagonisti principali. Per carità, uno se lo immagina (schiattano); ma probabilmente questa è la ragione (una delle) per cui questo romanzo è stato giudicato coram populo come uno dei peggiori della scrittrice peruvian-cilena-statunitense (checché ne dica la consorte).
Per me, nulla di sorprendente.
Ad essere del tutto sincero alcune parti interessanti le ho incontrate, perché di contorno alle biografie vi sono inquadramenti storici importanti che mi hanno anche rivelato cose che non sapevo, come la trattazione particolareggiata delle deportazioni dei nippo-statunitensi all’interno degli Stati Uniti nel corso della seconda guerra mondiale. E per dare un contentino alla consorte ammetterò che il romanzo è colmo di sentimento, da quelli personali a partire dall’amore sublime e resistente al tempo tra Alma e Ichi, all’amore tra gli altri membri delle famiglie, all’amore per le piante, per gli animali e per l’umanità in genere, e a tratti questo amore è anche raccontato in maniera decente.
Però alla fine, nonostante lo stile discorsivo della Allende sia leggibilissimo e chiaro, rimane una narrazione in cui si nota troppa carne al fuoco e portata avanti con un tono di sottofondo freddo e impersonale, mi viene in mente di dire da anatomopatologo, per poi concludere il libro di punto in bianco con un niente: tutti i personaggi, perlomeno quelli ancora viventi al tempo presente della narrazione, vengono lasciati a loro stessi senza specificare per nessuno la fine che fa, e questo veramente lascia molto perplessi. La mia consorte dirà (già la sento…): non ce n’era bisogno di dire che fine facessero…
E questo potrebbe anche essere giustificabile, ma resta il fatto che passerà molto, ma mooooolto tempo, prima che io possa anche solo pensare di riprendere in mano un altro scrittore sudamericano…
Il Lettore razzista (letterariamente parlando)

mercoledì 4 maggio 2016

La battaglia navale

Dal salto in libreria di qualche giorno fa avevo riportato non solo il Personal di Child, ma anche l’ultima fatica di Marco Malvaldi. E che, potevo limitarmi a un solo libro? È che subito dopo aver visto e impacchettato questi due mi sono costretto a uscire, altrimenti avrei di sicuro trovato anche qualcos’altro. Tanto più che anche la mia amica aveva finito, limitandosi ad acquistare per se stessa l’ultima avventura di Zerocalcare.
Zerocalcare???!!! Ma scherziamo? Come amica ha perso di botto un sacco di punti…




Vabbe’, pensiamo a Malvaldi che è meglio.
La vicenda di questo racconto parte dallo stesso uguale identico preciso tale e quale incipit del romanzo Tatuaggio di Manuel Vázquez Montalbán, in cui il detective Pepe Carvalho si trova a indagare su un cadavere rinvenuto su una spiaggia di Barcellona. Cadavere che esibisce un tatuaggio costituito da una scritta sottilmente conturbante: “Sono nato per rivoluzionare l’inferno”.
Solo che in questo caso siamo a Pineta, la spiaggia toscana dove sono ambientate le avventure indagatrici del Quartetto uretra, alias I prostatici quattro, il cadavere è di una giovane badante ucraina e il tatuaggio non è una scritta ma una semplice decorazione tribale.
Il gruppo dei protagonisti delle storie di Marco Malvaldi, il barrista Massimo, nonno Ampelio, Aldo il ristoratore, il Rimediotti, la procace Tiziana, il cuoco Tavolone, il vicequestore Alice Martelli, torna compatto in questa sesta avventura dei vecchietti del BarLume per cercare di sbrogliare l’ennesimo delitto avvenuto in quel di Pineta. Che come posto sembra portare sfiga peggio che nei telefilm della Signora in giallo. In ogni caso sempre di investigatori ottuagenari si tratta: Jessica Fletcher si sarebbe trovata a proprio agio su quel tratto di costa toscana in cui ogni tanto schiatta qualcuno.
Ma partiamo dalla trama: questa è leggermente migliore di alcune sue precedenti perché, come lo stesso Malvaldi confessa, il tutto non è farina del suo sacco ma di quello di sua moglie Samantha. Non che anche stavolta sia chissà che, però le vicende filano e si arriva a una conclusione ragionevole che non fa storcere la bocca e che, insieme allo stile spigliato del toscano, fa leggere il romanzo in una volata dandogli un tono da giallo estivo di quelli che non ti trovi a rimpiangere di averci speso soldi sopra.
Marco Malvaldi di suo ci ha messo lo stile e la capacità di sfornare battute a raffica portandoti a sorridere e perfino ridere in ogni capitolo con la simpatia e l’arguzia dei vecchietti sia pur malaticci, e dimostra ancora una volta di sapersi giostrare nel raccontare le dinamiche di un gruppo di persone conferendo il giusto spessore ad ogni personaggio tramite il linguaggio personalizzato e le particolari caratteristiche individuali.
Ne esce un libretto agile e spiritoso anche se non profondissimo, che fa piacere leggere e non delude. Però… Marco, ti rinnovo l’invito, a quando una trama di quelle sostanziose? O forse bisognerebbe rivolgere la richiesta a Samantha?
Il Lettore