giovedì 28 settembre 2017

Tempo da elfi

Avevo abbastanza aspettative nell’accingermi a iniziare questo Tempo da elfi, soprattutto perché ancora non avevo mai letto qualcosa di nessuno dei due autori. Di Loriano Macchiavelli non sapevo nulla se non per sentito dire, ma il nome stesso di Francesco Guccini è una garanzia.
O perlomeno avrebbe dovuto esserlo.




Grande delusione. Questo romanzetto non mi è piaciuto per niente, tanto che ci ho messo più di una settimana per terminarlo con la voglia continua di piantarlo a metà. Ho pensato che sia stato ideato nel corso di una cena nella quale scorreva del buon vino, al tempo in cui si ventilava il passaggio della Guardia forestale sotto l’arma dei Carabinieri.
Non mi va proprio giù che venga tolta di mezzo la Forestale” avrà detto l’uno all’altro. “Non la eliminano, verrà accorpata alla Benemerita”, la risposta. “Anche peggio.” ”Secondo me è una cazzata, sorbole.” “Come tutte le cose che fa il governo.” “Ma tu non eri di sinistra?” “Lo ero sì, ma sono riusciti a nauseare anche me.” “Scriviamoci qualcosa sopra.” “Buona idea, al morto ammazzato ci pensi tu o ci penso io?
Penso che nella realtà non sia andata poi tanto diversamente. Fatto sta che la denuncia nei confronti dell’operazione governativa non è riuscita loro molto bene. Nella scrittura si nota il professionismo di entrambi gli autori, ma in un romanzo che a me è sembrato tirato via, scritto con superficialità, carente di approfondimenti e di pathos narrativo. Non è mai riuscito a “prendermi” come avrei sperato.
Guccini e Macchiavelli hanno tentato, sì, di enfatizzare gli aspetti affascinanti del bosco e della montagna, chiamando in causa il nobile lavoro dei Forestali insieme alla passione naif di coloro che scelgono di vivere una vita diversa da quella di città ritornando alle (simil)origini, ma non è riuscito loro nemmeno di avvicinarsi, a un risultato decente.
Non prendono i personaggi, non mi ha preso la trama, sorvoliamo sulle descrizioni e lasciamo perdere del tutto i dialoghi che mi sono sembrati alquanto abborracciati. Peccato, da uno che ha scritto canzoni entrate nella leggenda mi sarei aspettato molto di più.
Dovrò leggere ancora qualcosa di suo, non voglio restare con questa delusione. Salvo poi il confermarla.
Il Lettore 

lunedì 25 settembre 2017

Né di Eva né di Adamo

Non riesco a decidere quale delle due Amélie Nothomb sia migliore: se quella capace di plot dal guizzo originale e fulmineo o quella autobiografica. Di certo c’è che riserva sorprese ogni volta che ci si accinge a iniziare un suo libro.




Né di Eva né di Adamo fa parte della seconda tranche: è un romanzo autobiografico, collocato temporalmente prima di Stupore e tremori, del quale in qualche modo costituisce un antefatto e a cui in parte si sovrappone. La ventunenne Nothomb torna a studiare in Giappone dal quale manca da sedici anni e si concentra nel cercare di recuperare l’uso di quella lingua con la quale è cresciuta nei suoi primi anni di vita. Per integrarsi ulteriormente comincia a impartire lezioni di francese a un ventenne di Tokio, col quale inizia ben presto una relazione sentimentale fatta non tanto di amore vero e proprio quanto dello stare bene insieme in alcune occasioni.
Il resoconto di questa relazione è la scusa per mostrare la passione di Amélie Nothomb per il paese del sol levante, i suoi abitanti, i suoi paesaggi e molte delle sue usanze, molte delle quali saranno poi ironicamente massacrate in Stupore e tremori. Una botta al cerchio e una alla botte.
E la Nothomb ne approfitta per descrivere luoghi — in particolare il Monte Fuji e le coste aspre del Giappone settentrionale — e specialità gastronomiche, e per esternare sentimenti affettuosi sempre in bilico tra la voglia di tradizione e la novità entusiasmante.
Ho trovato questo romanzo veramente delizioso, e mentre leggevo mi ha fatto venire voglia di fare anch’io una piccola escursione fino alla cima del vulcano più alto del Giappone in cerca di sacralità. Del resto sono solo 5 o 6 ore di ascensione.
A parte le 12 e passa di aereo per arrivare alla sua base, naturalmente.
Il Lettore 

mercoledì 20 settembre 2017

L’allegria degli angoli

Leggendo quest’altro romanzo di Marco Presta scordatevi pure tutte le risate che avete fatto con Un calcio in bocca fa miracoli. O per meglio dire, non è che Presta non ci provi a farci ridere, lui ci prova anche con la consueta ironia che gli è propria, ma un po’ per i contenuti, un po’ per l’odierna situazione sociale, non è che gli sia riuscito molto bene.




L’accoppiata tra “contenuti del libro” e “odierna situazione sociale” è quello che rende questo romanzo insopportabilmente deprimente. Perché l’autore fotografa senza sconti una situazione troppo comune e reale.
Lorenzo è un geometra trentaduenne che non riesce a trovare un impiego serio e sopravvive con lavoretti saltuari e pure umilianti, come fare la statua vivente di un Faraone in piazza per racimolare qualche spicciolo, ed è circondato da un gruppo di amici sfigati ognuno dei quali ha le proprie beghe da risolvere. Vive ancora con la madre vedova ed è troppo timido per dichiararsi alla donna della quale si è innamorato.
Il romanzo è tutto qui: l’istantanea di una vita senza ideali, senza prospettive, condotta tra lo squallore del non avere una lira e la patologica mancanza di speranze concrete per il futuro. Oddio, non è che Marco Presta non tenti di renderlo interessante (per quanto possa esserlo una vita in cui non succede nulla di eccitante): lui ci prova anche a essere ironico, con uno stile narrativo pulito e senza fronzoli e con battute che potrebbero strappare un sorrisetto, ma sono proprio le circostanze contingenti a renderlo triste e in fin dei conti abbastanza noioso.
Nessuno si entusiasma leggendo di cose che vede continuamente intorno a sé e con le quali è costretto a convivere.
Fossero allegre, poi.
Il Lettore
Presta, Lettore

domenica 17 settembre 2017

I guardiani

Il nuovo filone a cui ha dato vita Maurizio De Giovanni è del tutto diverso dai precedenti. Non vi si parla di polizia, né ai tempi nostri né tantomeno ai tempi del fascismo, né si parla di partite di pallone. E che cosa c’è a Napoli di interessante oltre ai fatti criminali e al calcio?
Ma il Vesuvio, naturalmente.




La geologia di Napoli assume un ruolo rilevante in questo romanzo che a quanto pare dovrebbe essere la prima uscita di una serie sia letteraria che televisiva. Questo ciò che ho scoperto quando sono andato a informarmi, ma anche solamente leggendo il romanzo si capisce subito che deve per forza esserci un seguito, perché la vicenda non solo non finisce, ma lascia tutti gli interrogativi in sospeso facendoti sentire alla fine come una pera cotta. E adesso che succede? E questo chi è? E quest’altro che fine fa?
Niente, il buon Maurizio ti crea un mucchio di curiosità e non te ne risolve una. Ti costringe ad aspettare come minimo una seconda puntata. E speriamo che quest’ultima esca prima della serie televisiva.
In compenso la scrittura è buona come quella alla quale ci ha abituato, con frequenti incursioni nel narrare in prima persona in pagine che al primo impatto non riesci a distinguere se siano riflessioni, monologhi o dialoghi, né tantomeno capisci chi è che sta parlando.
Alcune cose si comprendono andando avanti, altre si ipotizzano, altre ancora boh?, non si riesce proprio a capire dove voglia andare a parare.
Al di là dei quattro principali protagonisti “normali”, questa volta De Giovanni ha tirato in ballo anche I Guardiani, esseri praticamente immortali incaricati di sorvegliare e tutelare luoghi da sempre ritenuti sacri in più di una religione e situati sia sopra che soprattutto sotto la superficie terrestre, oltre a ben tre (3) entità all’apparenza sovrannaturali, delle quali non sono spiegate sufficientemente a fondo (speriamo lo siano in seguito) l’origine e la ragion d’essere. E che sembra risalgano, e qui l’autore non è andato proprio per il sottile, alla nascita stessa dell’uomo e a probabili influenze extraterrestri che ne sono state compartecipi.
Va be’, al di là che il romanzo ti lascia con una marea di domande e zero risposte, in fin dei conti è una lettura piacevole che suscita la curiosità irrisolta di sapere come andrà a finire. Vedremo in futuro come proseguirà questo tuffo nell’esoterico che, come sembra sia una prassi ormai consolidata per Maurizio De Giovanni, è frutto delle idee e del lavoro di un intero pool di persone, almeno una decina, che hanno collaborato con lo scrittore nel mettere a punto quest’opera.
Un appunto tecnico invece si può fare quando l’autore afferma che Napoli poggia su un unico mare sconfinato e ribollente di magma sempre sul punto di emergere in superficie, dai Campi Flegrei al Vesuvio. Questo oceano di magma nella realtà è separato: i Campi Flegrei hanno un proprio bacino magmatico e il Vesuvio un altro, sono due vulcani distinti.
Invece il fatto che prima o poi il magma emergerà in superficie… su questo no, su questo non ci piove.
Il Lettore 

giovedì 14 settembre 2017

Le sei regine

In rete non sono riuscito a trovare alcuna notizia su Phil Kansel, l’autore di questo romanzo che ho trovato nell’ultima tornata di materiale fornitomi dal mio editor. Ho cercato e ricercato, ma niente. Il suo nome è associato a questo libro e poi nient’altro. Non c’è una voce col suo nome nemmeno su Wikipedia.
Va be’, vi domanderete, ma come mai tutta questa curiosità?
Un po’ perché mi piace documentarmi sugli autori che leggo, ma soprattutto perché scorrendo il romanzo un tarlo insistente ha cominciato a martellarmi le tempie e si è fatto via via più pressante man mano che procedevo, fino a costringermi a cercare di saperne di più. Mentre andavo avanti mi si è fatta sempre più concreta l’ipotesi che in realtà questo Phil Kansel non esista proprio, ma che sia solo uno pseudonimo usato da qualcuno che non voleva far sapere il suo nome vero.
Il nome di una donna, per la precisione.




Il convincimento che l’autore sia in realtà una donna ha cominciato a formarmisi in mente notando la cospicua quantità di particolari futili presente nel romanzo. Particolari ai quali in genere un uomo non farebbe minimamente caso, non parliamo di inserirli in un romanzo. Le peculiarità degli abiti femminili, le descrizioni degli arredamenti, l’attenzione nel parlare dei giochi e degli atteggiamenti delle bambine, l’insistenza nel rimarcare le ragioni su cui sono fondati i rapporti di coppia, il fatto che quasi tutti i personaggi siano di sesso femminile, tutto questo ha portato a farmi pensare che l’autore sia in realtà una donna.
Ma a parte questo, ciò non significa che il romanzo non sia piacevole. Questo (o questa) Kansel ha scritto un buon thrilling, senza pretese ma soddisfacente.
Le sei regine è il nome che alcune diciassettenni hanno dato al loro club, costituito soprattutto per evadere dal piattume della routine quotidiana di adolescenti. Nel corso di una specie di seduta spiritica accade un incidente che conduce alla morte di una di esse. Tredici anni dopo quelle che all’epoca sono state le sopravvissute cominciano a morire anch’esse di morte violenta, e i segni lasciati sui luoghi dei delitti fanno pensare che ci sia un nesso palese con il tragico episodio di tanto tempo prima.
Il romanzo prosegue in un crescendo di pathos, sia pure inframmezzato da una buona dose di particolari fatui (anche se, per onestà, devo ammettere che un senso all’interno della vicenda ce l’hanno anche questi), fino alla scoperta finale del responsabile degli ammazzamenti e delle ragioni che l’hanno condotto a farlo.
Come dicevo un buon thrilling, scritto bene e che fa venire voglia di vedere come va a finire, ma con delle imprecisioni che però non ne inficiano la leggibilità, come per esempio il fatto che a un certo punto l’assassino si infila in casa della protagonista e vi si trattiene per diverse ore senza che i due cani che vivono con lei si accorgano minimamente della sua presenza. Per quanto stupido, qualsiasi cane si sarebbe accorto immediatamente di un intruso in casa e lo avrebbe perlomeno fatto capire.
Forse i cani olandesi sono più addormentati dei nostri.
Il Lettore

lunedì 11 settembre 2017

Cosmetica del nemico

Un altro racconto lungo (romanzo breve?) di Amélie Nothomb. Dentro il lettore ne ho almeno un’altra decina e me li centellino come si farebbe con un buon vino. Ognuno è una piccola sorpresa, a modo proprio sconvolgente per l’invenzione a sua volta densa dei risvolti psicologici che l’autrice ci mette dentro.




Secondo la Treccani, il significato di “cosmetica” è:
  1. agg. Che serve a conservare o accrescere la bellezza e la freschezza del corpo umano, soprattutto del volto, della carnagione, della capigliatura: prodotti c.; acqua c., nome generico di soluzioni alcoliche, essenze, estratti odorosi, olî essenziali e sim. usati per lavare, ammorbidire o profumare la pelle del viso o del corpo.
  2. 2. s. m. Qualsiasi sostanza, come saponi profumati, lozioni, sali per bagno, creme di vario tipo, ciprie, belletti, smalti, ecc., usata nelle pratiche della cosmesi a fini igienici, estetici o compensativi, avente, a seconda dei casi, azione detersiva, emolliente, tonificante, eutrofizzante, assorbente, coprente.
Ma la Nothomb invece riporta che invece il concetto primigenio era questo: “La cosmetica, povero ignorante, è la scienza dell’ordine universale, la morale suprema che determina il mondo. Non è colpa mia se gli studiosi di estetica hanno recuperato questo termine, peraltro stupendo.”
Ed è proprio sulla base della morale che l’autrice ha impostato questo racconto. Tutto comincia con una situazione banale: Jérôme Angust si trova nella sala d’aspetto di un aeroporto in attesa del suo volo che sta ritardando quando gli si avvicina un importuno che vuole parlare insistentemente con lui. In tutti i modi lui cerca di allontanarlo, ma per quanto ci provi fino a essere anche maleducato, non c’è verso di liberarsi di questo Textor Texel che sembra voglia solamente parlare e parlare, facendolo ascoltare forzatamente e infischiandosene se Jérôme invece non ne ha nessuna voglia. Jérôme arriva persino a coinvolgere la polizia ma niente, non riuscirà a liberarsi dell’importuno fino alla drammatica fine.
In un centinaio di pagine costituite soprattutto da un dialogo fulminante e via via sempre più incalzante, la Nothomb mette in scena una vicenda paradossale che con il proseguire diventa un’esplorazione dei luoghi più profondi del nostro essere fino a portare alla luce il nemico che ognuno di noi ha dentro di sé, fino a far emergere le vergogne più nascoste e i sensi di colpa più occultati. Insieme all’incapacità di riconoscerle, quelle colpe.
Sono d’accordo che l’autrice è un po’ strana del suo, ma come le verranno in mente, queste storie?
Il Lettore

venerdì 8 settembre 2017

Un pomeriggio movimentato

Alquanto irregolarmente il mio editor mi rifornisce di materia prima che salvo in una directory per poi trasferirla tutta insieme nel lettore senza stare troppo a guardare che roba sia. Amo le sorprese.
Così, cercando qualcosa da leggere nell’ultima mandata, sono incappato in questo Un pomeriggio movimentato.
O toh, un nuovo Camilleri, ho detto tra me, non ne avevo ancora sentito parlare. Lo apro e rimango basito quando scopro che sono solo 19 pagine. In una mezzora lo leggo e… l’unica cosa buona è che ora posso scriverci un post sopra.




Raccontino scialbo, senza lode e senza infamia che, ho scoperto poi, non è neanche commercializzato tanto è vero che si può trovare in rete liberamente. Se ci fate caso, in un libretto che sembra far parte della ormai famosa collana “La Memoria”, in fondo alla copertina non compare la consueta scritta “Sellerio editore Palermo”, ma un’insolita “Questura di Palermo”. È stata la stessa Polizia a richiedere all’Andrea nazionale un racconto in occasione della cerimonia celebrativa del 155° Anniversario della Fondazione della Polizia di Stato, che poi è stato stampato a cura della stessa Sellerio e probabilmente distribuito sotto forma di copie omaggio. Perché poi ci si è premurati di sottolineare in questo modo tanto bene il 155° non lo so proprio.
Leggo in rete la notizia che i vertici della Polizia sono rimasti molto soddisfatti sia del dono che del racconto. Non è roba di tutti i giorni ottenere in regalo uno scritto dall’autore al giorno d’oggi più famoso d’Italia, ma quando ti chiami Polizia di Stato molte cose diventano possibili.
Fatto sta che l’Andrea poteva anche sforzarsi un pochino di più, perché: originalità zero, banalità a volerne e buonismo di più.
Ma giustamente questo era tutto ciò che volevano i capoccia.
Il Lettore

martedì 5 settembre 2017

Sotto il culo della rana

Trovarsi “Sotto il culo della rana in fondo a una miniera di carbone”, vale a dire il titolo di questo romanzo, è un modo di dire ungherese che sta a significare il trovarsi in una condizione di sfiga assoluta, in pratica l’aver toccato proprio il fondo di una certa situazione.
Un po’ come l’odierna situazione politica di casa nostra.




Tibor Fischer è ritenuto uno dei nuovi geni della letteratura inglese. Di genitori ungheresi, esuli in Inghilterra in seguito alla rivoluzione antisovietica del 1956 (come si sa finita nel sangue), ha esordito nel 1992 con questo romanzo che ha subito conseguito un meritato successo sia di critica che di pubblico.
Sotto il culo della rana racconta le vicende di un gruppetto di giovani sul finire degli anni ’40 del secolo scorso, a cavallo tra la dominazione nazista e quella sovietica dell’Ungheria, un periodo in cui la gioventù ungherese non aveva altra scelta che decidere se essere trucidata dai tedeschi, fucilata dai russi o morire di fame.
I nostri eroi decidono di riporre le loro speranze nella pallacanestro a livello professionistico, il cui vantaggio più grande era quello di evitare loro di svolgere il servizio militare se avessero giocato bene quel minimo sufficiente per riconoscere il cesto proprio da quello degli avversari, e per allontanare i patemi d’animo cercano 1) di fare sesso con il più alto numero possibile di ragazze “come diceva Pataki, se la fellatio fosse mai diventata una specialità olimpica l’Ungheria avrebbe fatto il pieno di medaglie”; 2) di riuscire ad abbuffarsi di cibo alla minima occasione per far fronte a una carestia cronica “dovevano aver rastrellato tutto quello che c’era da mangiare nel raggio di quindici chilometri. A Giury dispiaceva soltanto che il suo stomaco non ce la facesse più, avesse messo sulla porta un biglietto che diceva «sono a pranzo» e fosse uscito, rifiutandosi di continuare”.
Certo, il fatto che abbiano preso l’abitudine di viaggiare nel corso delle trasferte completamente nudi li rende un pochino originali, ma questo non impedisce loro di soddisfare né il punto 1 né il punto 2, né di realizzare un numero sufficiente di canestri per i loro scopi.
Tutte le continue scenette in cui incappa il gruppetto di cestisti sono solo una scusa per l’autore di raccontare a modo suo la rivoluzione ungherese, innescata da coloro che non ne potevano più delle magagne del comunismo, e la sanguinosa repressione che ne è seguita da parte dell’Unione Sovietica. Le gag si succedono una dopo l’altra ad ogni pagina, raccontate sempre con un cinismo estremamente distaccato (alla Fantozzi, appunto), a cui però fa sempre da sfondo la realtà nuda e cruda di un paese sprofondato nell’abisso.
Un libro che mi ha fatto ridere e ho apprezzato, ma non del tutto. Un po’ per il fatto che le gag a ritmo serrato dopo un po’ finiscono con l’annoiarti, e un po’ perché leggere tutti quei nomi ungheresi, da quelli propri dei personaggi a quelli dei toponimi, è fastidioso come leggere quelli scandinavi, con tutte quelle consonanti che se provi a sillabarli ti fanno arrotare la lingua.
Però mi ha fatto venire la curiosità di leggere altri scritti dello stesso autore, e visto che il mio editor me ne ha gentilmente forniti altri due, tra i quali quello che in molti dicono sia il miglior romanzo di Tibor Fischer, penso che lo incontrerete di nuovo su questi schermi.
Il Lettore

domenica 3 settembre 2017

Lo Squizzalibro di domenica 3 settembre 2017

Ed ecco a voi un altro Squizzalibro domenicale, anche questo imperniato sulla serie “ Le cose che non sopporto”.
Oltre al calcio, alla napoletanità, alla bambinitudine e alle mamme logorroiche dei fanciulli c’è anche un’altra cosa che non riesco proprio ad apprezzare, ma che anzi odio proprio: le sagre.
Quelle manifestazioni che molto tempo fa avevano un senso e ora non più, nate come feste paesane ma ben presto trasformatesi in sistemi procacciatori di voti politici e/o mezzi per far incassare quattrini a pochi sfruttando fino allo sfinimento bonarie massaie di borgo e bambini ben al di sotto dei limiti di età consentiti per il lavoro minorile.
Senza peraltro che vi sia una ragione tradizionale fondata per organizzarle.
Trovatemi voi una spiegazione plausibile per la “Sagra del pesce di mare” in un paesino a quattrocento chilometri dall’acqua salata più vicina, o per una “Sagra dello speck” a Sud del Po. O per una “Sagra delle sagre” a San Sisto.
La spiegazione comunque c’è ed è semplice, ed è quella che con le sagre si incamerano un mucchio di quattrini non pagando chi vi lavora (che lo fa bontà sua per la “comunità”), non pagando le tasse (non ho mai sentito di una sagra obbligata a farlo), e pagando pochissimo le materie prime necessarie da dover poi rivendere a prezzi che oramai hanno raggiunto quelli di qualsiasi ristorante.
Ai quali oltretutto le sagre causano un danno incommensurabile, perché perlomeno i ristoranti le tasse le pagano e chi vi lavora pure, e tutto questo far pasteggiare i gonzi di paese in paese non fa certo loro del bene.
Ho smesso del tutto di andare alle sagre. E se qualche tempo fa abbozzavo alla richiesta di qualche conoscente solamente per amicizia e soffrendone non poco, adesso ritengo che non ne valga più proprio la pena: cercare posto in parcheggi strapieni (in genere ricavati su qualche prato alla faccia di tutte le leggi contro l’inquinamento e sull’agricoltura biologica, avete presente quante auto sgocciolano olio dal sottocoppa?), cacciarsi in un bordello inimmaginabile assordati da un vociare a migliaia di decibel, sotto tettoie stracolme di centinaia e centinaia di esseri umani della più infima qualità, combattere a gomitate per conquistare il posto a un tavolo strapieno, sopportare ore di fila per pagare alle casse, aspettare che il bambino addetto al tuo tavolo ti consegni quanto ordinato con una grazia inesistente, mangiare cibi che per quanto caratteristici sono stati comunque realizzati in serie per una massa gastronomicamente ignorante, va proprio al di là della mia capacità di sopportazione.
E se, tanto per tornare con la memoria alle ultime sagre a cui sono stato, devo ammettere che la coratella dell’ultima in fondo non era male, d’altra parte le rane fritte della penultima facevano veramente schifo, e di conseguenza gli svantaggi superano di molto i vantaggi. La delusione per un piatto cattivo riveste molta più importanza dell’apprezzamento di una pietanza decente.
Ma questo come si allaccia al libro di oggi? Perché il testo che vi propongo è pieno di abbuffate a feste paesane che, pur svolgendosi in un paese che non è l’Italia, mi hanno fatto ricordare le deleterie sagre nostrane.




1 – Il libro da indovinare è un romanzo in cui di abbuffate ce ne sono diverse, con gare a chi mangia di più e chi perde è un pirla. Sazio ma comunque pirla.
2 – L’autore è inglese. Con ascendenze dell’Europa dell’Est ma nato in Inghilterra da genitori ivi immigrati dalla nazione in cui è ambientata la storia.
3 – Il contenuto è tragicomico. Non ho ancora deciso da che parte far pendere la bilancia: di risate me ne ha fatte fare parecchie, ma gli sfondi che fanno da retroscena a queste risate, se osservati con l’animo rivolto alla serietà, sono di un tragico che più deprimente non si può. Di persone ne muoiono a vagonate e c’è di mezzo il destino stesso di un’intera popolazione.
4 – Ma il tutto è narrato con una leggerezza superiore, potrei dire fantozziana. Tant’è vero che al mio editor, la quale non apprezza proprio l’umorismo di genere fantozziano, il romanzo non è piaciuto e ne ha addirittura sospeso la lettura prima di essere arrivata a metà. L’umorismo basato sulla verità cruda ed esasperata non le è mai andato a genio.
5 – La cosa veramente tragica è che i fatti sui quali è basata la storia che fa da filo portante sono accaduti davvero. È pura storia europea, tutto già successo, e le vagonate di morti ci sono state veramente.
Ma bando alle tristezze che oggi è domenica. Da domani mi voglio dar da fare per organizzare un movimento politico contro le sagre. So già che non avrò molti adepti, ma si deve pur incominciare a fare qualcosa, no?
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