martedì 30 ottobre 2018

Leggere o tagliare? Dentro o fuori?


Questi dilemmi esistenziali!
Ultimamente sto leggendo molto meno. Per diverse ragioni: 1) ho cominciato un nuovo corso di scrittura e sono impegnato a rinfrescarmi le lezioni; 2) ho acceso la stufa nuova per l’inverno e 2a) devo accenderla tutti i giorni; 2b) devo fare legna a tutto spiano perché la suddetta consuma come una Ferrari in prova; 3) sono incappato in una serie di libri oserei dire “dall’andamento lento” (traduzione: a tratti pesantemente pallosi), e mi ci vuole del tempo per andare avanti considerando anche che la sera, a letto, crollo addormentato dopo una pagina.

Quindi il dilemma è: impiegare il poco tempo a disposizione per leggere, o andare nel bosco a fare legna?

Il leggere mi è fondamentale, ma quando ho da fare posso soprassedere. Il fare legna è necessario, nonché divertente, e l’unico motivo valido per non andare nel bosco è la pioggia.
La settimana scorsa, complice il bel tempo, vi ho trascorso tutte le mattine. Da solo. Nel silenzio più assoluto. Rotto solo dall’imprescindibile obbligatorietà di dover accendere le motoseghe che sono notoriamente molto rumorose (cosa della quale purtroppo non posso fare a meno, ma giuro che mi da parecchio fastidio e voglio valutare seriamente se i prossimi acquisti potranno essere soddisfacenti con l’alimentazione a batteria).
Stare nel bosco è rigenerante. Anche senza fare alcunché. Si contempla il lavoro svolto nei giorni precedenti, del tutto immersi nel verde e nel silenzio (perlomeno fino al momento di dover per forza mettere mano a qualche attrezzo), ci si congratula con se stessi perché il risultato è gradevole e si studia dove intervenire per continuare a migliorarne l’aspetto. Sto tagliando in un punto decisamente lontano da casa, quindi non corro nemmeno il rischio che per caso capiti qualcuno che voglia fare due chiacchiere.
L’odore del muschio è amplificato dall’umidità trattenuta dalle chiome degli alberi e l’unica difficoltà è riuscire a mantenersi in piedi sui ripidi versanti che rasentano l’incisione del fosso, con poca luce per il forte ombreggiamento che domina nelle aree in cui non sono ancora intervenuto.
A dire la verità di difficoltà ce ne sarebbero anche altre, ma lasciamo perdere che questo non è un blog che si occupa di lavori nel bosco e sono già andato nettamente fuori tema.
Era solo per giustificarmi e chiedervi di perdonarmi per il rallentamento nella cadenza delle pubblicazioni. Se non piove sapete dove sono.
Lo Scrittore



mercoledì 24 ottobre 2018

La scopa del sistema


Mi ci è voluto parecchio anche per leggere questo romanzo, ma la cosa che alla fine viene da dire è: geniale.
È il primo attributo che mi viene in mente dopo aver letto questo libro. Bisogna essere proprio un genio per scrivere un romanzo del genere. A una persona normale le cose di cui tratta non verrebbero in mente.
Romanzo stranissimo ai limiti dell’assurdo, La scopa del sistema è il primo romanzo di David Foster Wallace, scritto quando l’autore aveva solo 24 anni e che lo ha proiettato immediatamente ai vertici della letteratura statunitense, facendolo diventare un esponente di spicco della corrente letteraria avantpop. Il romanzo successivo, Infinite Jest, lo ha consacrato il personaggio più promettente nella letteratura americana della sua generazione.
Dopodiché si è suicidato. Finiti i giochi.



In Questo romanzo si passa da deserti neri creati artificialmente a pappagallini parlanti che diventano star televisive a nonne cultrici di Wittgenstein che scompaiono improvvisamente dall’ospizio in cui dovrebbero essere confinate, transitando per innamoramenti folli e una miriade di personaggi uno più strano dell’altro di molti dei quali ammetto sinceramente di non aver neanche capito bene la funzione e il perché del loro inserimento.
Comunque l’aspetto che mi ha colpito di più nel romanzo è quello dei dialoghi: finora di David Foster Wallace avevo letto solo saggi senza “parlato” che mi avevano colpito per lo stile e l’acume con cui aveva trattato argomenti tra i più svariati, dalla letteratura alla filosofia al tennis alla critica cinematografica, ma in effetti è proprio nella stesura dei dialoghi tra due o più persone che è risultato eccellere, non risultando mai banale e scontato e dando modo anche di intuire le esitazioni, le ripetizioni e i momentanei controsensi di una chiacchierata “vera”. Dovrò portarlo ad esempio di come si scrive un dialogo, insieme a Ernest Hemingway e Ed McBain, nei miei corsi di scrittura.
Ma non solo: anche il cambiare stile e forma letteraria nei diversi capitoli, che richiede molta attenzione al lettore per restare al passo, alla fine risulta gratificante (e non solo per essere riusciti a capire il tutto).
Vi fornisco un esempio della sua scrittura in un brano quasi “normale”, tanto per far capire come anche in un semplice passaggio descrittivo ci si trovi di fronte a uno scrittore che tanto normale non era: “L’improvviso impeto con cui il desiderio di andare a vedere se le iniziali da me incise piú di vent’anni prima nello sportello di uno dei gabinetti nel bagno dell’Art Building fossero ancora lí, l’improvviso e inatteso e irresistibile impeto che mi aveva pervaso con tanta urgenza appena sceso dal taxi, davanti al dormitorio, con Lenore, era una cosa agghiacciante. Raggiunta che ebbi la serpentina di studenti che si snodava su per il tutt’altro che mite pendio volto all’Art & Science Building, essi e io parimenti impegnati nello sgraziato e fochesco passo di chi si inerpichi di buona lena su per un tutt’altro che mite pendio, con la maggior parte di noi foche evidentemente in ritardo per la lezione, e con una di noi in ritardo per l’appuntamento con un circoscritto oceano di proprio passato, oceano disteso e scrosciante accanto al graffitato pontile della sua infanzia e nel quale detta particolare foca era in procinto di mescere un intenso (sperabilmente non bi- né poliforcuto) fiotto della propria presenza, per dar prova di essere ancora, e quindi d’essere stata – ammesso, ovviamente, che i bagni fossero ancora lí –, raggiunta che ebbi la fila di foche in pantaloni corti e camicia a maniche corte e scarpe da barca e zainetti, e mentre sentivo la paura che accompagnava la e in parte dipendeva dalla intensità di sensazioni e desideri e via di seguito che a loro volta accompagnavano persino il pensiero di uno stupido gabinetto in uno stupido edificio di uno stupido college dove uno stupido ragazzo triste aveva trascorso quattro anni vent’anni prima, mentre sentivo tutte queste cose, dunque, mi venne in mente un fatto sul quale rifletto adesso che mi trovo seduto sul letto della nostra stanza d’albergo, a scrivere, con la televisione accesa a volume basso e con l’aguzzocrinito oggetto della mia adorazione nonché centro assoluto della mia intera esistenza assopito e lievemente russante accanto a me sul letto, un fatto della cui inconfutabile verità sono ormai persuaso, e cioè che l’Amherst College nel 1960 sia stato per me un divoratore del midollo emotivo, un edificatore di canyon psichici, un istigatore del pendolo dell’Indole tramite la spranga dell’Eccesso.”
Notare la precisione di assemblaggio, le invenzioni, i neologismi, lo sciabordante profluvio di congiunzioni, le parole composte e le assurdità all’interno di un discorso dalla sintassi perfettamente costruita oltre che chilometrica, con subordinate a ripetizione ma perfettamente concatenate tra loro tramite una punteggiatura perfetta. Trovo che un modo di scrivere così sia estremamente affascinante, anche se magari un po’ ostico da comprendere appieno.
 Magari questo romanzo non mi è piaciuto del tutto (forse proprio per la sua assurdità, forse perché io non sono abbastanza geniale per comprenderlo appieno), ma l’ho trovato molto intrigante. In questo momento non me la sento di affrontare le mille e passa pagine di Infinite Jest, ma qualcos’altro di questo Autore rileggerò senz’altro a breve.
Il Lettore 




mercoledì 17 ottobre 2018

Pastorale americana


Un altro scrittore destinato al Premio Nobel per la letteratura che non ha fatto in tempo a vederselo assegnato. Colpa sua che è morto troppo presto o colpa della commissione del Nobel che per quanto riguarda quelli bravi tergiversa fino a farli morire preferendo loro cosiddetti “poeti” dal cosiddetto merito altalenante come un ubriaco appena uscito dall’osteria?
Ho cominciato a leggere questo capolavoro proprio pochi giorni prima che giungesse la notizia della morte di Philip Roth. L’avevo cominciato e sospeso già in precedenza, poi, dopo la morte dell’autore ne ho ripreso la lettura e dopo poco l’ho interrotta di nuovo.
L’altra sera ero a cena con colei che mi ha gentilmente prestato il volume (che ringrazio di cuore), la quale mi ha informato che anche lei al momento stava leggendo un altro dei primi romanzi di Roth. Ovviamente il discorso è scivolato sull’autore di Pastorale americana e non abbiamo potuto fare a meno di parlare di questo libro.
L’aspetto consolante è che anche lei la pensava esattamente come me.

Ho un grosso cruccio nei confronti di questo romanzo: pur riconoscendo e apprezzando la bravura dell’autore, pur avendolo iniziato diverse volte, pur avendoci messo tutta la più buona volontà, pur desiderando ardentemente di vederne la fine (cazzo!, è Philip Roth, mica un Pinco Pallino qualsiasi), non sono mai riuscito a proseguire oltre la centesima pagina.

Il perché è presto detto: è noiosissimo.

Pur apprezzandone la sintassi e lo stile e il modo di costruire le frasi da grande romanziere, questo grande spaccato di una famiglia americana (che dovrebbe incarnare tutti gli aspetti della più ampia società americana), a me non è riuscito a coinvolgermi, non mi ha interessato affatto (come è già successo con altri autori famosi, soprattutto statunitensi).
Forse perché sono così diverse dal nostro vissuto quotidiano, del resto sono sempre un provincialotto di una piccola città dello sperduto centro di un paese che è grande solo lo zero virgola zero tre per cento degli Stati Uniti e quindi niente in confronto, fatto sta che le vicende di questo Nathan Zuckerman (alter ego dell’autore) chiamato a scrivere la biografia di Seymour Levov (lo Svedese, per via dei suoi capelli biondi), personaggio che dalla vita ha avuto praticamente tutto, sia nel bene che nel male, in me ha suscitato lo stesso interesse di una partita di calcio: zero assoluto. E quindi noia montante fino ad abbandonare ripetutamente la lettura.
Su questo libro sono stati versati fiumi d’inchiostro, ne hanno scritto tutti nella quasi totalità dei casi esaltandolo, facendone emergere le tragedie e i profondi risvolti psicologici; basta scorrere i commenti dei lettori su siti come amazon o ibs per notare come nella maggior parte dei casi i lettori abbiano dato stura al proprio estro creativo per sviscerare gli aspetti più intriganti delle intenzioni di Roth scrivendo non semplici recensioni, ma veri e propri romanzi per analizzarlo negli angoli più reconditi, e finendo con l’annoiare molto di più del romanzo stesso.
Mi dispiace, sinceramente, io non gliel’ho fatta. Ho superato il momento della vita in cui uno si impone per forza di terminare assolutamente i libri che inizia. Ora se uno scritto mi annoia lo pianto subito. Non vale più la pena perdere tempo con ciò che ti annoia.
Ripeto: mi dispiace, perché mi piace la scrittura di Roth e ho già avuto modo di apprezzarla, per esempio qui, ma sentir parlare per pagine e pagine di baseball, football, cibi americani o condizioni sociali degli ebrei negli Stati Uniti non fa proprio parte del mio DNA.
Passo.
Il Lettore 

mercoledì 10 ottobre 2018

Il sole dei morenti


Libro consigliatomi da un amico dicendomi che lo rilegge almeno una volta all’anno.
Ad un’affermazione così io non so resistere: me lo sono fatto cercare subito dal mio hacker di fiducia e il giorno dopo avevo almeno sei o sette romanzi di Jean Claude Izzo sul mio e-reader, compreso questo Il sole dei morenti.
Ma poi ci sono rimasto male: l’amico non mi aveva precisato come il romanzo fosse di una tristezza infinita. Bello, sì, ma proprio quel che occorrerebbe ad una persona depressa per decidersi a saltare l’ultimo gradino.



Rico è un clochard che vive a Parigi. Un barbone, un homeless, un senzatetto che vive di quello che trova tra i bidoni della spazzatura e dorme dove capita. Quando il suo amico Titì muore di freddo, Rico decide che Parigi non fa più per lui e decide di andare a Marsiglia in cerca di un po’ di sole.
In realtà il narratore interno alla storia è Abdou, un adolescente algerino con il viso sfregiato da ustioni che vagabonda per Marsiglia insieme al suo amico Zineb, ma questo si scopre solo a tre quarti del romanzo, quando Rico è già arrivato a Marsiglia dopo diverse vicissitudini. È Abdou che racconta di Rico e di ciò che ha passato, del perché si è ridotto a vivere per strada dopo essere stato abbandonato dalla moglie e aver perso il lavoro, e di tutto ciò che gli è successo a corollario, dalla sequela di incontri con le persone sbagliate ai pochissimi che lo trattano con un minimo di quel rispetto che è dovuto a qualsiasi uomo di qualsivoglia estrazione sociale.
Sai, il fatto che... Vivi tranquillo, con tua moglie, tuo figlio. E poi un bel giorno tua moglie ti abbandona. Ti ritrovi da solo. Credi che sia la fine del mondo, eccetera...”
Le vicende dei protagonisti si dipanano con uno stile molto asciutto, crudo, senza concessioni ad abbellimenti di qualsiasi tipo, il che lo rende un romanzo molto veloce da leggere.
Mi fermo qui. Non voglio cadere nella retorica finendo col parlare del fenomeno sociale dei senzatetto in generale, perché in fondo il libro non è altro che un’incitazione a vederli come esseri umani, magari più sfortunati di altri e con più occasioni di altri di trovarsi ad avere a che fare con persone e situazioni molto poco politicamente corrette, per usare un eufemismo, ma la cosa tragica è che potrebbe capitare a tutti, prima o poi, se si è sfortunati, di arrivare a trovarsi nelle stesse condizioni dei protagonisti, ed è proprio per questo che se uno ci pensa, arriva anche a commuoversi, per i destini infelici che l’autore riserva loro.
Mi ripeto: buon libro, scritto bene, ma tristissimo e dall’argomento toccante. Capisco anche come possa essere di ispirazione per una riflessione più approfondita, ma forse anche proprio perché ne sono stato toccato, personalmente non lo rileggerei di nuovo.
Il Lettore 



giovedì 4 ottobre 2018

Il fosso bianco


Al termine della sua “scappata” a Perugia, Massimo Bertarelli mi ha fatto dono di una copia del suo primo romanzo pubblicato, Il fosso bianco, appunto, edito ancora prima di Mi chiamo Ugo e che per ovvi motivi non avevo ancora letto.
Nel regalarmelo ha tenuto ad avvertirmi che non l’avrei trovato allo stesso livello degli altri, quasi a giustificarsi in anticipo per quello che di negativo avrei potuto scriverci sopra in questo blog.
Tranquillo, Massimo, anche se dovessi stroncarlo ti voglio bene lo stesso. Ma, nel caso, tu manterrai ancora la stima che provi per me?



Che poi in effetti non merita proprio di essere stroncato, anche se devo ammettere in tutta sincerità che non mi è piaciuto del tutto come i successivi, non mi ha soddisfatto in pieno.
Purtroppo su queste pagine non posso nemmeno specificarne il perché, dal momento che equivarrebbe a rivelarne il finale, e sapete che io ho sempre evitato di fare degli spoiler. Dirò solo, in generale, che l’appunto principale riguarda l’ultima sezione, che mi è sembrata un po’ troppo affrettata, non preparata a sufficienza nella linea temporale del romanzo, in qualche maniera avrebbe dovuto essere anticipata. Magari con qualche metonimìa nelle prime pagine.
Inoltre (dico subito tutte le cose negative che ci ho trovato così posso passare a quelle positive), un’altra cosa che ho trovato di non mio gradimento è stata l’inneggiare alle bellezze di una zona della Toscana (ed altro) con un tono un po’ troppo entusiastico, che in un romanzo risulta sempre sopra le righe. D’altra parte è assolutamente vero, lo confermo, ma si sente che l’autore nello scrivere si è lasciato trascinare dall’esaltazione che quei luoghi gli avevano innescato dentro. Parere del tutto soggettivo: personalmente sono più portato per un understatement britannico che per l’eccitazione propria di noi italiani.
Basta con le critiche. Per il resto ho ritrovato lo stile pulito del Bertarelli che già conoscevo: una scrittura semplice, chiara ed esaustiva pienamente godibile, magari condita da qualche piccola ingenuità dovuta all’inesperienza dello scrittore al primo tentativo di romanzo lungo, ingenuità che nelle sue opere posteriori non si ritrovano più. In questo campo più che in altri l’esperienza acquisita man mano è di fondamentale importanza.
Posso anche dire che in qualche punto mi ha perfino commosso, il ché è tutto dire.
Aspettiamo il prossimo!
Il Lettore 



lunedì 1 ottobre 2018

«Sta scherzando Mr. Feynman!»


Richard Phillips Feynman è stato un celebre fisico deceduto nel 1988. Ha fatto parte del progetto Manhattan per la costruzione della prima bomba atomica, ha conseguito il Premio Nobel per la Fisica nel 1965 per l'elaborazione dell'elettrodinamica quantistica e in seguito è diventato un esperto di nanotecnologie.
Sicuramente un grande fisico.
Come scrittore è meglio che lasciamo perdere.



Mi sono imbattuto in questo libro dal sottotitolo Vita e avventure di uno scienziato curioso per caso, girellando in rete, e visto che era gratis l’ho scaricato subito perché avrebbe potuto interessarmi. Per richiamarmi avevano anche scritto che era divertentissimo, e desiderando leggere un libro divertente non me lo sono lasciato sfuggire. Purtroppo non ha soddisfatto le attese.
Un libro veramente brutto, che si capisce benissimo perché lo diano via gratis.
Sarò obiettivo: in realtà il libro non sarebbe neanche di Feynman, perché non è altro che un resoconto delle chiacchierate intercorse tra lui e l’amico Ralph Leighton, suo compagno di performance percussionistiche. Quindi la scrittura sarebbe opera di questo Leighton, che non avrebbe fatto altro che scrivere attingendo ai ricordi (o forse sotto dettatura da un registratore).
E questo si sente.
In queste chiacchierate (con un solo oratore) Feynman parla di se stesso, dall’infanzia all’età adulta, raccontando aneddoti, situazioni di vita e del suo amore per la scienza e la tecnica che lo ha portato ad essere un fisico da premio Nobel. Roba terra terra che tutti sono passati per qualche situazione simile a quelle riportate. Magari farci la chiacchierata sarà stato anche piacevole, ma narrarle ad altri non ha raggiunto proprio lo scopo desiderato. Per di più molte di quelle vicende sono anche raccontate male. Insieme ad episodi che lasciano il tempo che trovano, oltre alla banalità, addirittura qualche volta non si capisce del tutto la situazione e rimangono una miriade di dubbi irrisolti.
Da un premio Nobel che era a Princeton insieme ad Albert Einstein e ha fatto parte con Julius Robert Oppenheimer del gruppetto di Los Alamos, mi sarei aspettato qualcosina di più anche in campo letterario.
Magari sarà stato anche una persona divertentissima, non lo metto in dubbio, ma di sicuro né Mr. Feynman né il suo amico erano questi gran narratori.
Va be’, pazienza, passiamo oltre.
Il Lettore