sabato 25 febbraio 2017

La caduta di un uomo

La mattina dell’8 giugno 1954 Alan Turing viene trovato morto nel suo letto nella cittadina inglese di Wilmslow.
Tutte le circostanze fanno pensare al suicidio ma la polizia, che in realtà ignora chi fosse realmente il personaggio morto ― nonostante avesse già subito una condanna per omosessualità ― e la sua importanza, inizia un’indagine per accertare se sia stata una cosa del tutto volontaria o se per caso qualcuno gli abbia dato una “spintarella”.




David Lagercrantz racconta in maniera romanzata tutti gli aspetti di questa indagine facendo perno proprio sul poliziotto che la conduce fino a delineare in pratica tutta la vita di quel genio che è stato Alan Turing. Dall’indagine di Leonard Corell emerge la figura di un uomo la cui identità e le cui opere sono state accuratamente tenute secretate dal governo inglese a causa prima della Seconda Guerra Mondiale e quindi della Guerra Fredda.
Dopo cinquant’anni dalla morte la figura di Turing è stata riabilitata pienamente, la condanna per omosessualità cancellata del tutto, e gli sono stati tributati post mortem quegli onori che ha del tutto meritato per essere stato uno dei padri fondatori dell’elaborazione elettronica.
Proprio perché nel corso delle indagini Corell si trova di fronte a parecchi segreti, da buon poliziotto fa il possibile per metterli alla luce, non rendendosi del tutto conto che tali segreti riguardano la sicurezza nazionale e la politica globale del pianeta e ci sono molte persone che farebbero di tutto perché non vengano divulgati. Lui stesso è uno studioso mancato e, quando viene a conoscenza degli studi di Turing, ne è così affascinato da cercare di approfondirne sia l’aspetto matematico che quello filosofico, ed è così che parlando con varie persone coinvolte riesce pian piano a penetrare nei misteri di Bletchley Park e della decriptazione di Enigma.
In effetti il romanzo di Lagercrantz è più rispondente alla realtà di quanto lo sia stato il film The Imitation Game, che in pratica racconta la stessa vicenda di Turing, basato però sulla biografia del matematico scritta da Andrew Hodges ma molto modificata per esigenze di sceneggiatura.
David Lagercrantz, diventato famoso per essere stato incaricato di portare avanti la saga Millennium di Stieg Larsson, ha voluto soprattutto esplorare il pensiero di Alan Turing ― tirando così in ballo anche Albert Einstein e Kurt Gödel, nonché gli scontri verbali tra lo stesso Turing e Ludwig Wittgenstein ― “ciò di cui non si può parlare si deve tacere”: quanto mi piace questa sua affermazione! ― e già che c’era ha lanciato uno sguardo anche su temi importanti che negli anni Cinquanta andavano per la maggiore: la Guerra Fredda, la caccia alle spie, il maccartismo, l’omofobia esasperata fino a considerarla reato, la differenza fra classi nella società inglese, riuscendo nel complesso a fare un buon lavoro.
Ma non eccezionale. A chi interessano i temi trattati qui sopra il romanzo piacerà, ma un lettore che cerca soprattutto del thrilling  lo troverà abbastanza piatto e noioso. Nel tentativo di far apparire le problematiche psicologiche che affliggono Leonard Corell simili a quelle di Turing,  per far comprendere al lettore come il poliziotto possa capire appieno il matematico e quindi interessarsi a lui, Lagercrantz si dilunga terribilmente fino a sfiorare la paranoia. Ma va be’, mi rendo conto di come questo fosse necessario per rendere organico il tutto.
I dubbi sulla morte di Turing restano comunque ancora oggi: si sarà davvero ucciso in un momento di depressione morsicando una mela intrisa di cianuro, sarà rimasto vittima del gas sprigionato dagli esperimenti di laboratorio che effettuava in casa, o qualcuno lo avrà “aiutato” per paura che prima o poi avrebbe rivelato al mondo i segreti che custodiva? Considerando che sono dovuti passare trent’anni dalla sua morte perché il governo inglese cominciasse a lasciar trapelare qualcosina su di lui, questa terza ipotesi resta possibilissima.
Il Lettore 

mercoledì 22 febbraio 2017

E liberaci dal padre

Dopo essermi sorbito Carrisi (mai più!) ho sentito l’impellente bisogno di assaporare un autore che sapesse scrivere. Confidiamo nel conosciuto, ho pensato, andiamo a colpo sicuro. Non mi andava di sciropparmi un’altra delusione.
Era anche parecchio tempo che avevo voglia di risalire alle origini della saga dell’ispettore Thomas Lynley, per cui ho colto l’occasione al volo e mi sono fiondato su questo primo romanzo pubblicato da Elizabeth George che tanto bene mi stava aspettando sepolto in qualche memoria elettronica.




E liberaci dal padre inaugura la storia del poliziotto aristocratico e non a caso ha avuto un immediato successo sia di pubblico che di critica. Era il 1988, e da allora la George ha proseguito questa saga per altri diciotto romanzi.
In questa prima vicenda vengono delineate le figure dei protagonisti seriali: Sir Thomas Lynley, ottavo conte di Asherton, bello, intelligente, ricco, colto, educato finemente, nonché sciupafemmine (sia pure pazzamente innamorato della moglie del suo migliore amico) e dotato di una profonda sensibilità umana, e Barbara Havers, un sergente di Scotland Yard invisa ai superiori, acuta ma brutta, tozza, inelegante, impulsiva, incazzereccia e dalla triste storia familiare.
La Havers disprezza Lynley reputandolo null’altro che un dandy fricchettone, ma insieme risolveranno il caso di un contadino trovato addirittura decapitato a colpi di ascia insieme al suo cane, e del cui omicidio la figlia stessa si autoaccusa. Ma c’è qualcosa sotto.
I due protagonisti vengono ben tratteggiati insieme ai personaggi di contorno, ed è soddisfacente per il lettore il percepire come l’atteggiamento della Havers nei confronti del superiore si modificherà nel corso del romanzo fino a trasformarsi in ammirazione (e anche un pizzico di innamoramento) per il suo comportamento.
Avendo già letto anche gli ultimi della saga posso affermare che lo stile della George è rimasto lo stesso fin da questo esordio: pacato e molto particolareggiato, teso a sottolineare bene anche tutte le sfaccettature psicologiche oltre a una maniacale contestualizzazione di quelle che riescono bene solo a una donna. A un uomo non importerebbe affatto di descrivere tutto l’arredamento di una stanza fin nelle minime peculiarità: essenze lignee e stile dei mobili, tappeti, cuscini, centrini, ceramiche e perfino soprammobili, ma la George lo fa, e pure senza annoiarti.
La vicenda resta nel perfettamente plausibile, senza le esagerazioni care oggigiorno a molti pseudoscrittori, e non manca di quel coinvolgimento emotivo che soprattutto nel finale accelera il ritmo e ti trasporta nelle nefandezze umane più nascoste e inconfessabili. Ma sempre restando sulla terra. Pacato con pathos, tanto per fare un riallacciamento musicale.
E il fatto di conoscere già gli ultimi episodi della saga ha contribuito a farmelo apprezzare ancora di più, non togliendo nulla a quelle che nel corso dei romanzi che sarebbero venuti  avrebbero potuto essere delle sorprese.
Lynley: più lo conosci lo ami.
Il Lettore 

sabato 18 febbraio 2017

Il cacciatore del buio

Ci sono ricascato. Donato Carrisi è un altro degli autori che avevo giurato di leggere solo nel caso avessi avuto uno dei suoi romanzi come unica cosa da leggere in un’isola deserta, e invece anche questo faceva parte di uno stock di prestiti e alla fine ho dovuto leggerlo. E tenete conto che se sull’isola non fossi stato solo avrei anche accondisceso a fare una chiacchierata (breve) con qualcuno, pur di rimandare il più possibile il momento di cominciare a sfogliarlo.
Il perché? Se volete gustarvi le altre stroncature che gli ho già inflitto cliccate sul nome “Carrisi” nella colonna qui a fianco. Auguri.




In questo Il cacciatore del buio il nostro dà prova della sua fantasia inesauribile riprendendo gli stessi protagonisti dei romanzi precedenti. Così non sto a perdere tempo per caratterizzarli dall’inizio, eccheccazzo.
Per il resto, solita solfa: l’esagerazione la fa da padrone, perché il modo in cui l’assassino uccide deve essere sufficientemente terrificante da poter terrorizzare il lettore. Quindi: donne torturate, suore squartate, ragazzi costretti a uccidere le proprie fidanzate, poliziotti che non cavano un ragno dal buco eccetera.
E poi anche qui le solute sette segrete con inenarrabili scopi nascosti e i soliti protagonisti che hanno intuizioni fulminanti, cadute dal cielo e sempre infallibili, sono preveggenti e dotati del dono dell’ubiquità perché sono sempre presenti nel posto giusto al momento giusto. Non se ne può più.
Parentesi. A tratti, forse perché troppo preso dall’elaborazione di cose con cui stupire il lettore, l’autore fa anche sfoggio della sua ignoranza dell’italiano spargendo congiuntivi e tempi verbali alla come viene viene: ho notato un “dovesse” al posto di “avrebbe dovuto” e altre quisquilie e pinzillacchere. Chiusa parentesi.
L’altro giorno mi è capitato di ascoltare per la prima volta (e unica, spero) la canzone vincitrice di Sanremo 2017. Vi ho riscontrato un importante parallelo con questo romanzo.
Il concetto di fondo è lo stesso: un’immane cagata, ma dal momento che vendono sembra che alla fine abbiano ragione loro.
La prossima volta che mi troverò su un’isola deserta con solamente un libro di Carrisi come unica cosa da leggere penso che lo userò come tagliere per preparare il soffritto.
 Il Lettore 

lunedì 13 febbraio 2017

La caduta

Mi ero ripromesso di non leggere più Michael Connelly per la delusione provata con l’ultimo che mi era capitato (Il cerchio del lupo, NdF) e non solo, ma nell’ultima tornata di prestiti c’era in mezzo anche questo e quando ho terminato gli altri che avevo (meno uno il cui autore proprio non lo strozzo e che ho lasciato apposta per ultimo, forse sarà oggetto della prossima recensione), non ho potuto non metterci mano.




Un altro Harry Bosch. Stavolta in procinto di andare in pensione (e sarebbe ora!) ma lui tenta di rimandare il momento in tutti i modi. Probabilmente perché non ne possono più di lui neanche i suoi colleghi, alla centrale di polizia di L. A. lo hanno messo a riesumare cold cases alla luce delle nuove tecnologie.
Gli capita un caso curioso: sul cadavere di una ragazza assassinata vent’anni prima era stata trovata una goccia di sangue che ora, con l’analisi del DNA, è stato possibile attribuire a un maniaco sessuale già pluricondannato. Caso risolto, tutti in pizzeria! Non proprio, perché all’epoca dell’omicidio il futuro maniaco sessuale aveva solo otto anni, e per quanto possa essere stato precoce avrebbe difficilmente potuto violentare e uccidere una ragazza di venti. E ora come la mettiamo?
Nel frattempo un giovane avvocato rampante precipita dal terrazzo di un albergo e il padre, un personaggio importante dell’amministrazione cittadina nonché acerrimo nemico di Bosch, chiede che sia proprio egli stesso a coordinare le indagini. Incidente? Suicidio? Omicidio? E perché se ti sto sul cazzo chiedi proprio a me di sbrogliare la vicenda? C’è qualcosa che non quadra, direbbe Clouseau.
Il romanzo consiste nello svolgimento di entrambe le vicende con Bosch coadiuvato dal suo nuovo compagno al quale il compito più importante che affida è quello di premere l’interruttore per accendere la stampante. Tanto per sottolineare chi comanda.
Indaga di qua e indaga di là ovviamente Bosch riuscirà a risolvere entrambi i casi mettendone alla luce tutte le sfaccettature più nascoste e trovando anche il tempo di A - badare alla figlia a letto con la febbre, B - farsi una trombatina con una nuova conoscente, C – litigare come suo solito con tutto il dipartimento di polizia. L’eroe di turno non si smentisce mai.
Devo dire però che stavolta, rispetto all’ultimo di Connelly che ho letto, la meccanica della vicenda è costruita bene e le risoluzioni sono accettabili, lo stile è buono, i colpi di scena ben dosati e tutto sommato non è un cattivo romanzo.
A parte il ritmo, che presenta lo stesso dinamismo di un bradipo addormentato.
Il Lettore 

venerdì 10 febbraio 2017

Il marchio del diavolo

Quando uno imbrocca un filone che gli porta un mucchio di soldi è un po’ difficile che poi se ne distacchi, e infatti con questo suo quarto romanzo Glenn Cooper conferma di essere un buon amministratore di se stesso infarcendolo delle tematiche che gli hanno fatto guadagnare quel che sta bene con i primi tre libri.




E così vediamo tirate in ballo profezie catastrofiche da fine del mondo, scoperte archeologiche destabilizzanti, l’utilità e il compito delle religioni, sette segrete che intendono distruggere la chiesa cattolica, complotti tesi a indirizzare a proprio vantaggio l’elezione di un nuovo Pontefice, codici segreti da decifrare e scopi nascosti dietro la realizzazione di famose opere d’arte.
Il tutto spalmato su duemila anni di storia, con l’intervento straordinario di personaggi (nel ruolo di se stessi) realmente esistiti quali Nerone con la sua cerchia di accoliti, San Pietro in procinto di diventare martire, Christopher Marlowe e il suo Faust, e anche William Shakespeare ottiene una piccola particina sia pure da semplice comparsa di quelle che non dicono nemmeno una battuta.
A  differenza però dell’ultimo romanzo di Cooper che ho recensito (L’ultimo giorno, NdF) perlomeno in questo l’autore al termine tira le fila della narrazione e non lo lascia del tutto sconclusionato, concedendo al lettore un poco di soddisfazione e di chiarezza. Ma restano l’esagerazione e la voglia di far colpo.
I fatti narrati saltano con agilità dall’antica Roma al Medioevo, dal Rinascimento ai giorni odierni, alternandosi ad ogni capitolo in una lettura leggera ma ben costruita e con una prosa semplice e accattivante. Come ho già detto in altre occasioni, Cooper sa scrivere, e anche stavolta ha confezionato un prodotto che consente una lettura veloce e alla fine anche abbastanza soddisfacente. A parte le esagerazioni, la scarsa plausibilità e i colpi di scena abbastanza scontati, ma con una dose decente di thriller.
E poi ci sono i Lemuri, questa setta di uomini (?) con la coda ―anche questa una scontata allegoria del male ― incapaci di provare sentimenti, intelligentissimi e organizzatissimi, ma che alla fine si lasciano infinocchiare come babbani in un libro di Harry Potter. Bah.
Il Lettore 

martedì 7 febbraio 2017

Rose Madder

L’argomento di questo romanzo di Stephen King è la violenza sulle donne. In particolare quella dei mariti sulle mogli. Purtroppo un tema sempre alla ribalta.
Rose McClendon (in Daniels) è una giovane donna picchiata e abusata dal marito finché trova il coraggio di uscire da questa situazione critica: scappa da casa all’improvviso senza portare nulla con sé e si rifugia in una grande città a 800 chilometri di distanza, dove trova asilo in una struttura per donne maltrattate e piano piano prova a ricostruirsi una nuova vita.
Ma il marito è un poliziotto, e conosce le tecniche per rintracciare una persona scomparsa. Norman Daniels non può sopportare l’idea che la moglie l’abbia piantato e parte alla sua ricerca con propositi di vendetta.




Tutto il romanzo è basato su Rose che impara a vivere di nuovo e Norman che la cerca sfruttando le capacità imparate nel suo lavoro, fino a che riuscirà a trovarla.
Stephen King è veramente un grande. Il romanzo è scritto in modo superbo,  ne emergono tutta la psicologia della donna e tutta la psicosi dell’uomo e ti fa stare in ansia dall’inizio alla fine. Ed è per questo motivo che di solito non leggo King. Sei sempre in tensione e temi il momento in cui la troverà per ciò che potrà succedere, perché nel frattempo lui ha saputo farti affezionare alla fragilità della protagonista e temere la pazzia di lui. Lo stesso autore alla fine ci dice che ha impiegato diciotto mesi per scriverlo, e dovrebbero essere stati diciotto mesi per nulla piacevoli, immerso e concentrato in universo di pazzia violenta e terrore incontrollabile: gli stati d’animo per i quali King è diventato famoso in tutto il mondo.
Intendete bene: ho apprezzato molto come è stato scritto il romanzo, ma non mi è piaciuto del tutto. E ora vi spiego il perché.
In primo luogo fa stare in ansia per tutta la lettura, temendo il momento in cui il marito violento troverà la moglie, e a me lo stare in ansia dà non poco fastidio. Evito accuratamente l’horror e anche i thriller più ansiolitici non è che li gradisca molto.
La seconda ragione è che per la risoluzione del romanzo King fa ricorso a una dimensione irreale: da circa metà libro in poi la narrazione entra in una dimensione parallela, onirico/magica, che abbandona la realtà per tuffarsi di testa nella mitologia greca con tutto ciò che le è connesso. Quadri che per qualche inesplicabile motivo permettono l’accesso al proprio interno, templi, incontri misteriosi, giardini del bene e del male, dei, minotauri ed Erinni. Avrei preferito una risoluzione basata sul reale.
Come ho detto la prosa è impeccabile, con una terminologia ricercatissima ma semplice e che tutti possono comprendere, e una sintassi perfetta con la costruzione delle frasi elaborata ma ineccepibile. Metafore e similitudini sono azzeccatissime e anche le numerose allegorie che costellano il magico mondo parallelo sono ben studiate. Ma la prosa di King è anche infinitamente logorroica, con la descrizione incredibilmente prolissa di ogni singolo particolare, sia nelle prospezioni psicologiche che nelle scene di azione. Mi rendo conto come tutto questo approfondimento sia stato intenzionale e necessario per raggiungere gli scopi dell’autore, ma francamente mi è sembrato un po’ eccessivo. Come il film La sottile linea rossa: vuoi arrivare al termine per vedere come va a finire e quello non finisce mai, e in questo caso cominci a suggerire a te stesso di saltare qualche pagina per sbrigartela prima ma hai paura di perderti qualche passaggio sostanziale. Sono convinto che con un centinaio di pagine in meno il romanzo non avrebbe perso nulla.
Ma questa è solo un’opinione personale. Indubbiamente con questo stile King ti fa immedesimare pienamente nei protagonisti e molti lettori si saranno sentiti angosciati quando l’assassino psicopatico sarà riuscito a raggiungere la moglie innocente. E magari saranno anche rimasti soddisfatti della Nemesi venuta da un’altra dimensione che, benché la cosa sia spiegata perfettamente dall’autore, è l’aspetto che mi è piaciuto di meno.
Sarebbe perlomeno augurabile che il bene cominci a vincere su questa terra.
Che frase retorica e stucchevole che mi è uscita!
Il Lettore 

domenica 5 febbraio 2017

Lo Squizzalibro di domenica 5 febbraio 2017

In queste plumbee giornate di febbraio quello che domina è la depressione.
Leggi un qualsiasi giornale e ti deprimi, esci, senti freddo e ti deprimi, piove e ti deprimi, incontri gente e ti deprimi, accendi la televisione e è meglio spegnerla subito, apri Faccialibro e giuri a te stesso di non entrarci più nemmeno per scherzo, i libri seri è meglio rimandarli a tempi più propizi, le cazzate ti annoiano e non ti imbatti più in nulla di divertente. Tipico di febbraio. Che poi se continua così anche a marzo allora la cosa si fa grave.
Trovare qualcosa di divertente che sia anche intelligente, poi, è più difficile che azzeccare il biglietto vincente alla lotteria di Capodanno. Bah. Trascorriamo una domenica depressa e lasciamo correre. Fortuna che per cena mi hanno promesso delle tagliatelline fatte a mano.
 Deprimiamoci nell’attesa e veniamo a noi…




1 – Come già anticipato, l’autore è un mostro sacro della letteratura mondiale. Conosciutissimo, sono sicuro che tutti abbiano letto almeno uno dei suoi romanzi o perlomeno abbiano visto uno dei numerosissimi film che ne sono stati tratti.
2 – Non ve lo volevo dire, perché così diventa troppo facile, ma è statunitense, ed è famoso soprattutto per aver sviscerato in quasi ogni anfratto un particolare genere di letteratura.
3 – Ma il bello è che anche quei suoi romanzi che non appartengono a quel genere sono notevoli, e inoltre ha sfornato anche saggi che ho apprezzato parecchio.
4 – Uno dei suoi saggi l’ho anche  recensito su questo blog; solo quello, perché io di solito questo autore non lo leggo, e il motivo di ciò sta proprio nelle tematiche che tratta.
5 – Ho fatto uno strappo alla regola: il suo romanzo da indovinare oggi appartiene proprio a quelle tematiche che evito, con un argomento che troppe volte e troppo spesso viene portato alla ribalta dall’attualità.
Facile scoprire chi sia lo scrittore, meno facile indovinare il romanzo che sarà oggetto della prossima recensione. In bocca al lupo… (magari!).
Freereader

mercoledì 1 febbraio 2017

L’ispettore Dover

Della serie “alla ricerca disperata di qualcosa da leggere” ho scovato questo libro cui non avevo mai messo mano tra i più antichi esemplari della mia biblioteca: l’edizione italiana è del 1968  e la stesura risale a prima del 1964. Praticamente al paleolitico.
Questo romanzo sembra essere il secondo del ciclo di Joyce Porter sull’ispettore Dover, perché la stessa autrice ci avverte, in una nota a pié di pagina 11, che la prima avventura, L’ispettore Dover e il latte versato, “non è stato e non sarà pubblicato mai, assolutamente”, dando prova così di saper prendere delle decisioni ferree e inappellabili. Nella realtà è proprio questo romanzo il primo della serie, quello in cui L’ispettore Dover fa il suo esordio (orrorifico) sulla scena della letteratura gialla.


Wilfred Dover è un ispettore di Scotland Yard grasso, sporco, straccione, antipatico, maleducato, politicamente scorretto e facilmente corruttibile (soprattutto con cibarie), e la Porter gli contrappone nel ruolo di  aiutante il Sergente Charles Edward MacGregor, un giovane aitante e belloccio, appassionato al suo lavoro, educato, elegante e ferocemente ambizioso. I due si stanno sul cazzo a vicenda, ma sono costretti a lavorare insieme perché il capo di Dover ritiene che l’essere costretti a collaborare con l’ispettore costituisca un banco di prova assolutamente costruttivo per i giovani agenti che devono farsi le ossa.

In questa avventura i due si trovano a indagare sulla scomparsa di una diciottenne enormemente grassa, antipatica, parecchio zoccola e dai capelli rosso fiamma, sparita dalla circolazione mentre faceva da “badante” a un anziano nobiluomo in uno sperduto paesino della campagna inglese. Come ha fatto a sparire? Vista la stazza di oltre 100 chili come è possibile che si sia allontanata inosservata? L’avranno assassinata? E come hanno fatto a far sparire il (piuttosto ingombrante) cadavere? I due indagano in modo classico interrogando tutti quelli che potrebbero aver avuto rapporti con la ragazza scomparsa, e ne emerge un simpatico quadro dei britannici di paese fino a che la situazione precipita e il mistero viene alla luce, in una soluzione che oggi non sembra più particolarmente originale, ma c’è da considerare che è stato scritto più di cinquant’anni fa.
Romanzo comunque piacevole, con tutti i personaggi, anche quelli minori, caratterizzati splendidamente e dal ritmo veloce e leggero nonostante i numerosi e ripetitivi interrogatori. E anche delicatamente umoristico. Tant’è vero che L’ispettore Dover all’epoca ha riscosso un discreto successo e l’autrice ha pubblicato una decina di avventure successive a questa. Ma credo che attualmente si possano reperire solo nei mercatini dell’usato.
Intanto mi sono arrivati ben quattro romanzi da leggere e ieri ho cominciato quello di un tipetto che è considerato in assoluto un mostro sacro della letteratura mondiale. Se faccio in tempo a terminarlo ne farò lo Squizzalibro della prossima domenica.
Lasciatemi leggere.
Il Lettore