giovedì 31 luglio 2014

GENESIS – I know what I like

Sull’onda dei ricordi riaffiorati in seguito alla lettura dell’articolo sui The Musical Box mi sono andato a riguardare su Tutubo i vecchi filmati delle esibizioni dal vivo dei Genesis (che poi, a farci mente locale un momentino… Tutubo, Faccialibro, Nubeaccesa, Gocciascatola, Cinguettatore: checcazzo di nomi…), quindi tra i sette libri che possiedo sui Genesis ho scelto questo di Armando Gallo e me lo sono riguardato e riletto.
Per l’ennesima volta.

Puro piacere, come riascoltare una loro canzone.


Sarò fissato (da 45 anni a questa parte…) ma oltre ad ascoltarli ancora oggi (del resto i complessi attuali fanno schifo…) ne leggo anche le biografie e le critiche (molte le prime, poche le seconde…) e mi è capitato in passato anche di scriverci sopra (e mi hanno pure pubblicato…) a significare un’altra di quelle passioni che non si sono mai spente.
Del resto i Genesis rappresentano un fenomeno pressoché unico nel panorama musicale mondiale. In primis per la musica, della quale però sarebbe fuori luogo parlare in questo contesto. Ma anche perché è stato un complesso durato quarant’anni, formato da elementi con una cultura di base di alto livello che si rispecchia nelle loro creazioni e che, oltre ad aver portato il gruppo ai vertici mondiali a più riprese, ha fatto sì che tutti i componenti, chi più chi meno, ottenessero il successo anche come solisti per proprio conto e rimanessero al top fino al giorno d’oggi, leggi Peter Gabriel e Steve Hackett. Tutti musicisti dei quali a differenza di tanti altri non si sono mai sentite storiacce di droga, di ambiguità sessuali, di gossip spicciolo, di ricerca della notorietà attraverso mezzucci di bassa lega.
Armando Gallo è invece un fotoreporter e giornalista che ha cominciato la sua carriera nel 1967 intervistando Rita Pavone, ma poi si è redento. Cominciando ad occuparsi di cose serie è arrivato ad essere il fotografo ufficiale dei Genesis sui quali ha scritto anche diversi libri, e dopo essersi occupato anche degli U2 e della PFM è finito a lavorare negli Stati Uniti.


Scorrendo questo volume, del quale io ho l’originale in inglese ma ne esiste anche una versione italiana, ci si accorge che Armando Gallo (nella foto sopra insieme a Tony Banks: per tutti coloro che ignorano tutto dei Genesis, poveri, mi rifiuto di specificare chi è chi, arrangiatevi), oltre ad essere un bravo fotografo è anche un ottimo scrittore, dal momento che ha stilato una biografia del gruppo e dei suoi componenti che si legge in una volata fornendo spunti di interesse in continuazione.
Il giornalista ha saputo cogliere in pieno l’essenza della band in tutte le sue sfaccettature: dai primi tentativi di mettersi insieme nella prestigiosa Charterhouse ai primi riscontri di pubblico; dalle prime defezioni (Anthony Phillips) alle grandi defezioni (Peter Gabriel); dai primi stentati successi alla consacrazione di eccellenza; dalle prime esibizioni continuamente costellate di incidenti e avarie elettroniche ai megaconcerti con folle oceaniche degli anni ’80; da un primo leader carismatico (P.G.) all’altro leader (Phil Collins) la cui concezione musicale più commerciale ha permesso al gruppo di fare i soldi quelli veri (ma il vero leader musicale del gruppo, Tony Banks, colui che a 22 anni ha composto un pezzo la cui struttura ricalca la serie di Fibonacci, dando prova di genialità e/o di cultura superiore, è rimasto sempre lontano dalle posizioni di primo piano).
E che dire delle centinaia di fotografie delle quali il libro è corredato? Dagli scatti in b/n risalenti all’adolescenza dei musicisti a quelli in cui si inorridisce di fronte all’evidenza di abiti e acconciature di moda negli anni ’70, dalle foto durante i concerti a quelle nei backstages, alle immagini della vita privata dei componenti e del loro entourage, una documentazione importante, significativa e bella da guardare a più riprese.
L’ultima chicca che vi propongo è una foto pressoché introvabile in rete scattata da Richard MacPhail nell’aprile del 1973 a New York, nella quale si riconosce lo stesso Armando Gallo attorniato dalla formazione storica dei Genesis al completo:


Sarò buono, via: Armando Gallo è quello con il maglione rosso. E dalla vostra sinistra verso destra: Tony Banks, Peter Gabriel in versione mohicana, Mike Rutherford, Steve Hackett e Phil Collins anche lui con ancora i capelli. Se si pensa che sono passati 41 anni…
Per par condicio, prossimamente dovrò parlare anche dell’altro volumone che nella mia libreria è collocato di fianco a questo: Inside Out di Nick Mason, la prima autobiografia dei Pink Floyd
Il Lettore amante della buona musica

martedì 29 luglio 2014

Ogni cosa è illuminata

Questo di Jonathan Safran Foer è un romanzo che suscita reazioni decisamente contrastanti: non si può fare a meno di affermare che è molto ma molto interessante, commovente e anche divertente, con un’impostazione oserei dire davvero geniale, ma è anche complicato e alle volte troppo confusionario per poter essere considerato un vero capolavoro.


Il racconto parte dall’intenzione di un giovane ventiduenne (cosa che l’autore, Jonathan, ha fatto realmente) di ripercorrere le tracce del passato dei suoi avi andando a ricercarle in una Ucraina diametralmente opposta agli Stati Uniti da cui è partito. La cosa geniale è che la vicenda è narrata da un ragazzo del luogo (Alex) che accompagna il giovane nella ricerca con funzioni di interprete e traduttore, insieme al proprio nonno che funge da autista e al loro cane, Sammy Davis Junior Junior, e il linguaggio adoperato è quello stentato di una persona che l’inglese lo conosce approssimativamente, e di conseguenza usa spesso vocaboli e frasi idiomatiche non del tutto consone alla situazione. Questa trovata dell’ostacolo della lingua, insieme al dover tradurre con ripetizioni continue i dialoghi tra i due ad uso e consumo del nonno che ignora la lingua inglese, fornisce una serie di gag divertenti che stemperano il dramma di fronte a cui si trova il giovane man mano che emergono i fatti terribili della storia della sua famiglia: i pogrom, gli eccidi compiuti dai nazisti, i tradimenti, la povertà e l’arretratezza dell’Europa orientale.
La narrazione della ricerca di Jonathan è alternata a capitoli nei quali Jonathan stesso dipana gli avvenimenti storici della propria famiglia a partire dal diciottesimo secolo, e da alcune lettere che Alex manda allo stesso Jonathan, nelle quali parla dello scritto in formazione e della sua intenzione di trasferirsi negli USA per diventare un commercialista.
Altre trovate tecniche interessanti sono i dialoghi continui tra i protagonisti senza andare a capo tra una frase e l’altra, la scrittura di interi periodi in maiuscolo o maiuscoletto, l’assenza dei segni di interpunzione in molte parti della storia della famiglia compresi i dialoghi, lunghi periodi a flusso di coscienza con un layout a colonna singola stretta al centro della pagina, fino ad arrivare a due pagine intere colme di un continuo “Stiamo scrivendo… Stiamo scrivendo…”.
Tutto ciò dà origine ad un romanzo che sicuramente non è per tutti e la cui lettura, sia pure sempre interessante, rimane piacevole solo a tratti, mentre soprattutto nei capitoli iniziali genera una confusione per niente facile da seguire e districare. Ma gli aspetti tragici sono descritti con forza, e scorrendo il libro ci si ritrova in un’alternanza di sorrisi e stati d’animo confusi o angoscianti, fino al ribrezzo per gli orrori di cui è capace l’essere umano.
Un romanzo complesso e difficile, che non mi sento di consigliare a chi cerca in un libro solo un sistema per rilassarsi dopo una lunga giornata di lavoro, ma che d’altra parte può soddisfare pienamente quei lettori più smaliziati che non si accontentano di una narrazione lineare e che vengono mandati in brodo di giuggiole dai virtuosismi tecnici e/o dalle tragedie.
Prima di renderli ai legittimi proprietari, dello stesso autore ora devo leggere Molto forte, incredibilmente vicino, altro romanzo giudicato da molti superiore a questo, e Se niente importa, un saggio che costituisce una forte condanna degli allevamenti industriali di animali a fini alimentari.
Ma per il momento sento il bisogno di dedicarmi a una lettura più leggera…

Il Lettore

domenica 27 luglio 2014

Lo Squizzalibro di domenica 27 luglio

In questo febbraio freddo e brumoso (sembra che da quindici giorni a questa parte, o da sei mesi, nelle condizioni atmosferiche non sia cambiato proprio nulla) cosa c’è di meglio che prendere un buon libro e scordarsi della realtà? Altro che aria aperta sotto la pioggia! Almeno per qualche ora. La poltrona sì, ma mi rifiuto proprio di accendere la stufa.


1 – Anche oggi il libro da indovinare è un romanzo, che mi ha lasciato molto perplesso. La cosa buffa è che qualche tempo fa ho preso in prestito da un’amica un altro romanzo dello stesso autore, ho iniziato a leggerlo ma l’ho sospeso per altre letture più urgenti, quindi un’altra amica mi ha consigliato questo libro insieme a un terzo del medesimo scrittore, me li ha prestati entrambi anche lei, e dei tre ho preferito iniziare e terminare questo perché è stato il primo romanzo che l’autore ha scritto.
2 – La vicenda è in parte autobiografica, e considerate che l’autore l’ha scritta all’età di 24 anni (anche se lì per lì non era sua intenzione farne un romanzo).
3 – L’autore è statunitense e vive a New York.
4 – Oltre ad essere considerato una delle maggiori promesse della letteratura americana, secondo molti critici l’autore è un vero e proprio genio, mentre molte persone questo stesso romanzo l’hanno giudicato illeggibile.
5 – Le principali tematiche trattate sono l’ebraismo e il vegetarianesimo.
Sotto con la spremitura di meningi!
Freereader

venerdì 25 luglio 2014

A proposito di classici

Permettetemi una divagazione in campo musicale: vorrei esternare una considerazione ispiratami dalla lettura di un articolo su La Repubblica e dall’ascolto di Ludwig Van Beethoven.

E non stupitevi dell’immagine che segue: scoprirete che ha una sua ragion d’essere.


Sprofondato in poltrona nel dopopranzo di ieri stavo ascoltando, complice il periodo di vacanza regalatomi da moglie e figlio a cinquecento chilometri di distanza, la Sinfonia n. 9 op. 125 Corale del genio tedesco, altrimenti nota come l’Inno alla Gioia, e mentre contemplavo sul mio braccio la pelle d’oca che questa musica mi provoca ad ogni ascolto ho ripensato a un articolo letto pochi giorni fa sul giornale on line, a firma di Flavio Brighenti, sulla band canadese (The Musical Box, appunto, originariamente il primo brano dell’album Nursery Cryme di cui sopra) che gira il mondo in tournèe riproponendo tali e quali, fin nei più minimi particolari, gli spettacoli dei Genesis degli anni dal ’69 al ’75.
Parentesi: io adoro la musica dei Genesis di quel periodo, e i The Musical Box sono andato a vederli a Milano quando nel 2004 hanno clonato il tour di Selling England by the Pound: spettacolo fantastico! Consiglio tutti di andarseli a gustare nel giro italiano che cominceranno alla fine di questa estate.
Bene, nell’articolo Brighenti sosteneva tra l’altro: “(…) l'universo del rock. È ancora la musica dei giovani (come lo fu nella seconda metà del secolo scorso) o è diventata la musica della Terza Età? E ancora: se la tendenza è quella non più di inventare ma di riprodurre il già esistente - come fanno i Musical Box - non è più appropriato parlare (paradossalmente) di "nuova" musica classica? La tendenza sembra la stessa dell'Ottocento, quando il passaggio alla musica classica venne sancito dalla rappresentazione (e quindi dalla certificazione) delle opere più amate, eseguite esattamente com'erano stata scritte”.
Ecco, in pratica sta succedendo per alcuni gruppi degli anni sessanta e settanta (Genesis, ma anche Pink Floyd, Queen, Beatles e altri, compresi alcuni italiani) quello che è successo a Ludwig Van Beethoven, ad Antonio Vivaldi o a Johann Sebastian Bach o agli altri che sono considerati gli esponenti più rappresentativi della musica classica: orchestre a loro successive (quelli che oggi sono i cosiddetti “cloni”) riprendono partiture e arrangiamenti tali e quali gli autori li hanno ideati e li ripropongono ad un pubblico di pronipoti.
Non posso fare a meno che concordare con Brighenti sul significato intrinseco di un tale modo di fare, cioè sul suo sancire, sul suo certificare il passaggio di tali autori ad una condizione di “classicità”, cioè alla definizione di uno status destinato a proseguire nel tempo e a fungere da sistema di riferimento per le generazioni che verranno. Gli artisti che raggiungono questo status hanno creato tutti un proprio stile consolidato, valido per l’epoca che hanno vissuto ma, a quanto pare, anche meritevole di essere perpetuato nel tempo.
Considerato inoltre il livello meno che mediocre, anzi, direi decisamente infimo della musica che a livello planetario viene proposta in questi ultimi anni, iniziative del genere non possono che riscuotere tutta la mia approvazione.
Ma in campo letterario, possiamo individuare una tendenza del genere? In altre parole, quali potrebbero essere gli scrittori di oggi le cui opere potrebbero fregiarsi un domani della qualifica di “classico”?
Oggi come oggi vengono considerate “classici” le opere che sono sopravvissute alla macina del tempo: Anabasi, Iliade, Eneide, La Divina Commedia, Re Lear, Faust, I Promessi Sposi, tanto per citarne solo alcune, tutte opere dal valore universale, che hanno in comune la caratteristica di mostrare verità, sentimenti e comportamenti umani che possiedono validità nel tempo.
Degli scrittori dalla metà del Novecento in poi, quali sono coloro che potrebbero meritarsi in futuro di essere annoverati tra gli “indimenticabili”? Hemingway? Steinbeck? Faulkner? Calvino? E tra gli ancora più recenti? Foster Wallace? Safran Foer? Auster? Di italiani non me ne viene in mente nessuno.
Bella domanda, vero?
Il Lettore & lo Scrittore

mercoledì 23 luglio 2014

Timbuctù

Quando Kuiry  mi ha consigliato di leggere Paul Auster che a lui era piaciuto molto, lì per lì mi ero riproposto di prendere il suo libro più famoso, la Trilogia di New York, ma un paio di settimane fa ho scovato questo Timbuctù nella libreria di mia nipote e l’ho subito preso in prestito.


Non avevo mai letto Auster, e devo confessare che è stata una bella sorpresa che mi porterà quasi certamente a prendere anche la Trilogia di New York. Lo statunitense ha uno stile veloce e interessante, molto discorsivo, e anche se in questo libro “racconta” più che mostrare, attraverso un narratore onnisciente esterno alla storia, lo fa con una tecnica fluida ricca di concatenazioni che rinnovano di continuo l’interesse.
Il romanzo narra le vicende di un cane, Mr. Bones, al quale viene a mancare il padrone umano dopo anni di convivenza, e delle sue peregrinazioni alla ricerca di un destino che si rivelerà ogni volta diverso da quello che avrebbe voluto. Mr. Bones è consapevole di dover morire, prima o poi, ma vorrebbe che dopo la dipartita gli fosse possibile il ricongiungimento con il suo amato padrone in quel luogo, Timbuctù, dove vanno tutti dopo morti ma nel quale, forse, i cani non sono ammessi. E quest’angoscia del non sapere se potrà accedere in questo fantomatico posto e ritrovare il suo Willy  permea tutto il libro.
Oltre ad essere un auto interrogazione esistenziale, lo scritto insiste sul tema caro ad Auster dell’inesplicabilità del fato e dell’importanza del caso nella vita di ognuno, oltre a fornire un interessante spaccato dell’America contraddittoria degli anni novanta.
Mi è piaciuto, pur essendo un racconto nel quale la tristezza riveste un ruolo molto importante, e lo scrittore è stato un maestro nel descrivere modi di fare, pensieri e sentimenti del protagonista cercando di immedesimarsi nell’animale per raccontare i fatti dal punto di vista canino senza indulgere nell’antropomorfizzazione.
Il Lettore

lunedì 21 luglio 2014

I segreti di New York

Fosse per me, questo è uno di quei libri che non avrei mai letto.

Non che abbia qualcosa contro Corrado Augias, non mi ha fatto proprio nulla, ma non mi sarebbe mai passato per la mente di leggere un suo libro, né tantomeno di comperarlo. Stessa cosa, del resto, per gli altri giornalisti sia televisivi che della carta stampata, da Vespa a Santoro, da Pansa a diocenescampi Gramellini.


Ma l’altra mattina, tanto bene, il mio alter ego letterario, quello che in altri post avevo chiamato Sergio, è sceso dalla macchina porgendomi questo libro e dicendo: “Tieni, stroncalo tu…”, scaricando quindi su di me la rabbia che aveva con se stesso per aver sprecato ben 5 euri al solito negozietto di libri usati (anche lui non l’avrebbe mai preso, da nuovo).
La cosa ovvia è che così facendo ha stuzzicato la mia curiosità e, appena terminato di leggere i volumi dei quali avete letto le recensioni nei giorni scorsi, l’ho aperto subito per capire il perché a lui non fosse piaciuto.
Diciamo subito che a differenza sua non l’ho trovato così orrendo da dover essere stroncato: del resto è sempre scritto da un giornalista che sa fare il suo mestiere, con un suo stile consolidato, con un mestiere affinato nel corso degli anni. Solo che il pretendere di svelare I segreti di New York in 340 pagine mi sa come tentare di spiegare la Teoria delle Stringhe prendendo come esempio i lacci delle scarpe. Il titolo avrebbe dovuto limitarsi ad essere Qualcuno dei segreti di New York, ma così avrebbe sicuramente venduto di meno, o ancora meglio, parodiando la Wertmuller, Alcuni dei segreti di alcuni dei personaggi che hanno vissuto più o meno a lungo a New York in un qualche periodo della loro vita.
Perché il libro non è altro che questo: il racconto di alcuni fatti che sono successi ad alcuni personaggi, più o meno noti, che sono transitati per la grande Mela: da Melville a La Guardia, da Poe a Petrosino a Meucci eccetera, solo alcuni, scelti non si sa con quale criterio, tra i milioni di persone che hanno abitato la metropoli. Va be’, certo, non è che si poteva stare a raccontare i segreti di tutti.
E non nego che alcuni di questi segreti siano anche interessanti e accrescano il bagaglio di cultura generale di chi ne venga edotto, ma tutto sommato il libro si riduce a una lettura alle volte anche noiosetta, quando non confusionaria per la notevole quantità di allacci e rimandi che condiscono quasi tutte le storie. E resta sempre il dubbio su quali saranno stati i segreti di tutti quelli che Augias non ha nominato.
E poi certo, se magari potrebbe essere anche stato interessante sapere i particolari delle procedure di smistamento degli immigrati a Ellis Island, del venire a conoscenza delle misure spropositate del pene di Basquiat ne avrei potuto fare tranquillamente a meno.
Il Lettore

sabato 19 luglio 2014

Trilogia della città di K.

Ho cominciato a leggere questo libro una mattina presto, e prima di pranzo ne avevo già divorato la metà: non riuscivo a staccarmi dalle sue pagine.

Sarà stata la vicenda, l’uso ossessivo del presente indicativo che velocizza, il narrare in prima persona (anzi, in prima persona plurale) che accelera, le frasi secche, aspre e scioccanti che determinano un ritmo incalzante, la lucidità e la spietatezza dell’autrice nel raffigurare gli orrori quotidiani della guerra, ma questa lettura ha saputo prendermi come poche altre.


Per onestà dirò subito che dalla seconda metà del romanzo centrale il ritmo rallenta e i periodi si fanno più lunghi e articolati consentendo un più ampio respiro. Ciò è spiegato in parte dall’intenzione di Agota Kristof di rendere, all’inizio del Il grande quaderno, il pensiero semplice e crudo dei due bambini narranti, ma anche dal suo non padroneggiare perfettamente la lingua francese nella quale ha scritto tutti i romanzi. Con il crescere dei protagonisti, e con il procedere della scrittura nell’arco dei cinque anni che ha impiegato a scriverlo, è migliorato da parte sua anche l’uso della lingua realizzando una stesura di parecchio più complessa.
E per questo non lo celebrerò come un capolavoro, come è stato invece definito dalla stragrande maggioranza delle persone che lo hanno letto: secondo me, per poter affermare che un libro è un capolavoro bisogna prima capirlo, e io non ci sono riuscito, come non ci sono riusciti tutti gli altri che lo hanno letto. Sono convinto che chi sostiene di averci capito qualcosa sia un emerito bugiardo. Se l’autrice si fosse limitata a scrivere il primo romanzo avrebbe potuto veramente assurgere al ruolo di grande scrittrice, ma con i successivi ha complicato le vicende in una maniera inesplicabile, alla quale è difficile trovare una giustificazione. I critici, naturalmente, ci riescono, attribuendo alla confusione dei ruoli dei protagonisti il significato della difficoltà di collocare il proprio ruolo di origine, ma a me sembra francamente un concetto tirato per i capelli, di quelli che possono uscire solo dalla bocca di un critico. Di questo libro, tutte le persone normali non hanno capito una mazza.
Il racconto è contestualizzato in un non ben definito paese dell’est europeo (con i caratteri propri dell’Ungheria patria dell’autrice), teatro di guerre, invasioni e rivoluzioni con al seguito tutte le tragedie sociali e personali che le accompagnano, e si sviluppa su tre romanzi che descrivono le vicende di due gemelli che finiscono con il rappresentare le vittime di tutte le guerre. Guerre e regimi che distruggono cose, persone, sentimenti, vite.
Ma attenzione, non ci si trova in presenza di una narrazione lineare, perché nel secondo romanzo, La prova, cambia il narratore e sono stravolti i ruoli dei precedenti protagonisti, e nel terzo, La terza menzogna, i protagonisti sono gli stessi ma con ruoli, storie e precedenti ancora una volta modificati, fino al punto da non riuscire più a dare a nessuno un’esatta collocazione.
Si prova un senso di difficoltà nel seguire il dipanarsi della vicenda, perché nonostante i protagonisti rimangano gli stessi cambiano le loro ambientazioni e il loro stesso passato. Si resta confusi e non si sa più se dare per buono ciò che è già acquisito o rimettere tutto in discussione considerando ognuno dei tre romanzi come un’opera a sé stante avulsa da una continuità, pur rimanendo fedele al contesto generale.
Il libro nel suo complesso sconvolge e scandalizza, è potente, inquietante, ma arrivati alla fine rimangono numerosi punti oscuri e non si capisce il perché l’autrice abbia modificato di continuo le premesse fino ad incastrare i fatti in una collocazione astrusa, come se si volessero inserire quadrati in forme triangolari. Alla fine emerge solo che non esiste una sola realtà, il tutto è al limite della pazzia contenuta in una delirante immaginazione, come se fossero vicende ambientate su universi paralleli che possono anche essere quelli mentali.
A posteriori provo un certo senso di rimpianto per non essermi limitato a leggere solo il primo dei tre romanzi, il migliore, sia come coerenza che come stile e piacere di lettura, e di certo non avrei sentito la mancanza dei successivi che al contrario hanno finito con l’inquinare il piacere provato all’inizio.
Il Lettore 

giovedì 17 luglio 2014

unastoria

Che già non si capisce perché il titolo è scritto minuscolo e senza lo spazio tra “una” e “storia”, se non a significare uno schiribizzo momentaneo dell’autore dietro al quale fior di critici si saranno scervellati per andare a rintracciarne gli intendimenti più reconditi.
E magari li avranno pure trovati.

Poveretti.


Sarà che a me Gipi non è mai piaciuto.
Fin dalla sua prima opera che ho letto: Baci dalla provincia. Non mi ha lasciato nulla, nemmeno il piacere di ammirarne il tratto, e nemmeno mi ricordo il contenuto dei racconti. Sarà che da subito non mi è piaciuto lo stile dei disegni ingenui tanto da sfiorare una grezzaggine da incompetente, con quei nasi invariabilmente a punta a corredo di crani microcefali su corpi ipertrofici, le espressioni assenti come le sceneggiature.
Ma dal momento che quell’opera è stata giudicata dai critici come un capolavoro… mi rimetto, taccio, sicuramente loro ne capiscono più di me.
A pensarci bene, ritengo che sarei capacissimo di scrivere una recensione inneggiante a questa graphic novel dal titolo minuscolo mancante di uno spazio, non ne dubitate, se fossi un critico potrei rimarcarne le atmosfere felliniane, il contrasto tra l’antico e il contemporaneo, i dubbi e le angosce dell’invecchiare insieme alla tragedia dell’esistenza umana.
Ma non lo farò.
Perché neanche questastoria mi è piaciuta.
Gipi, al secolo Gianni Pacinotti, è comunque uno in gamba. Di sicuro. Si vede dalla presunta profondità dei contenuti, ma anche dalla naturalezza, dalla spontaneità e dall’interesse che riesce a suscitare nel corso delle interviste che concede. E sa giocare con i critici che lo apprezzano a tal punto da proporre la candidatura di unastoria al Premio Strega. Lui, di sicuro, lo sa benissimo di disegnare male, e allora che cosa ti inventa? Un’opera dal titolo La mia vita disegnata male, che i critici non possono far altro che lodare per la plateale ammissione intrinseca e l’ammirevole modestia, che proprio per questo assume una valenza superiore e guai che qualcuno si sogni di dire ma questo fa proprio schifo!, darebbe mostra di non capire un accidente dell’Arte con la A maiuscola.
All’epoca non l’ho detto nemmeno io, ma solo perché stavo sfogliando quell’opera in una stanza assieme a una decina di ammiratori sfegatati del Pacinotti che mi avrebbero sbranato all’istante. Ma sono bastate poche pagine per farmelo pensare.
Comunque, il fatto che unastoria di Gipi non mi abbia soddisfatto non significa nulla. È solo un mio parere personale che i disegni non mi siano piaciuti, che il lettering sia trascurato (ma naturalmente ciò è fatto apposta, è Arte), che la storia manchi totalmente di motivazioni e di un finale, che sia troppo lenta e che ti lasci come ti ha trovato. Sarò io che non l’avrò capita, mi sarà sfuggito di certo qualcosa e forse fareste meglio a dar retta a tutti i critici.
Be’, però in fondo alcune delle tavole ad acquerello le ho apprezzate.
Quelle in cui non ci sono persone, intendo.
Il Lettore 

martedì 15 luglio 2014

Giorno da cani

Era da parecchio tempo che volevo recensire Alicia Gimenéz-Bartlett, e l’occasione è arrivata sotto forma di questo Giorno da cani che ho trovato a ben 4 euro la settimana scorsa al solito negozietto di libri usati.


Il volumetto andrà ad impinguare lo scaffale dove già hanno trovato posto diverse altre avventure dell’ispettrice Petra Delicado, che insieme al Pepe Carvalho di Manuel Vázquez Montalbán forma la coppia più stravagante di investigatori operanti in una Barcellona fervente di cambiamenti. Ma se Carvalho è il frutto delle vicende politiche spagnole, del confronto tra la sinistra e il dopo-Franco, la Delicado è figlia dell’innovazione e del risveglio della coscienza femminile in una Spagna non ancora del tutto matura.
Il genere di questo giallo, come anche degli altri in cui è protagonista la Delicado, appartiene al filone in cui, dal momento che l’ispettrice narra in prima persona, l’indagine su un omicidio si dipana man mano che procede il romanzo e il lettore ne segue gli sviluppi venendo a conoscenza delle novità solo quando le scoprono gli investigatori. Ma l’indagine rappresenta solo una parte del contenuto del romanzo, perché la Gimenéz-Bartlett ama soffermarsi a lungo anche sulla vita privata dei protagonisti, sulla loro umanità, sui loro amori privati e sul loro interesse per la buona tavola.
Il tutto fa sì che la vicenda raggiunga le 400 pagine quando per raccontarla ne sarebbero tranquillamente bastate la metà, ma in fondo è una prolissità che si legge volentieri e che fa solamente sorridere quando le vicissitudini di Petra Delicado e del suo vice Firmìn Garzòn rasentano un’ingenuità infantile disarmante e alle volte anche un po’ stucchevole.
Gli accadimenti sia professionali che personali si susseguono e si intersecano fornendo ritmo alla narrazione ma anche qualche discrepanza: è mai possibile che una conclusione lapalissiana fondamentale per le indagini venga fuori solo a pagina 290? Un qualsiasi altro detective scalcagnato ci sarebbe arrivato molto prima. Ma tant’è. La miscela di privato e professionale che diluisce la storia prosegue fino al termine e lascia spazio ad un approfondimento che si sviluppa anche negli altri romanzi successivi a questo, nei quali si ritrovano gli stessi ritmi oltre agli stessi protagonisti e a ingenuità simili.
Un punto di merito che va attribuito all’autrice è invece quello di aver imbastito il tema del romanzo su un argomento scottante preso come spunto anche da altri scrittori odierni, non ultimo Andrea Camilleri: il turpe commercio illegale di cani destinati alla sperimentazione farmaceutica o ai combattimenti clandestini.
Anche se non raggiunge la forza palesata da un Hans Ruesch o da un John M. Coetzee, la condanna verso tali pratiche emerge potente anche da questo giallo, e ti porta a sentirti schifato dagli esseri umani (?) che ne fanno un commercio, insensibili a qualsiasi sentimento nei confronti di poveri animali considerati alla stregua di oggetti inanimati. Quando sento parlare di queste cose (ma anche di altre…), la mia ripugnanza nei confronti di alcuni appartenenti al genere umano cresce fino al punto di trovare inadeguata la pena di morte.
Nel senso che sarebbe una punizione troppo leggera.
Il Lettore

domenica 13 luglio 2014

Lo Squizzalibro di domenica 13 luglio

Buona domenica a tutti! Arrivati quasi a metà di questo luglio freddo e piovoso, nel quale i gestori delle gelaterie stanno riconvertendo i propri negozi alla vendita di caldarroste e gli amanti del jazz disertano le piazze allagate per adagiare delicatamente la puntina sul vecchio vinile davanti al fuoco del caminetto, in questa mattina presto nella quale mi lascio sfiorare dall’idea di ripescare dall’armadio il mio pile preferito e gli occhi della mia gatta dardeggiano la muta implorazione ma perché cazzo non accendi la stufa?, andrò a proporvi un Squizzalibro facile facile, un esercizietto leggero leggero tanto per scaldare i muscoli.


1 – Il titolo da indovinare è un romanzo, per essere precisi un giallo.
2 – L’autore è straniero, per essere precisi spagnolo.
3 – Per essere ancora più precisi (e basta!) non è un autore uomo ma un’autrice donna, e anche molto famosa.
4 – Dai suoi libri più noti è nata anche una fiction televisiva, che però non è stata trasmessa in Italia.
5 – Il romanzo in questione è il secondo della serie con il suo protagonista seriale, e la trama gravita intorno al mondo della cinofilìa.
Facile, vero? Forza, uscite da sotto i piumoni e andate a consultare la vostra biblioteca!
Freereader

venerdì 11 luglio 2014

Lezioni (semiserie) di Scrittura Creativa: Quarta Puntata


4 – IL LAYOUT
Ovverossia l’impaginazione.
Di solito i manuali di scrittura cominciano parlando dei contenuti, io invece voglio essere originale e preferisco partire dalla fine. Questo perché, come sostenevo in precedenza, dovete consentire al Valutatore che avrà sotto gli occhi il vostro elaborato di arrivare fino in fondo, e un ottimo modo di iniziare è quello di sottoporgli un testo esteticamente gradevole.
Odio quando sono costretto a leggere un Times New Roman corpo 9 a interlinea singola che riempie una pagina senza margini con più di 900 parole: mi indispone all’impatto, prima ancora di cominciare a leggere la prima riga. Mi irrita, e questo significa che non sono certo nello stato d’animo adatto a giudicare benevolmente lo scritto. E non venite a dirmi che potrei ingrandirlo sullo schermo… non regge comunque. Tra l’altro, una tale impaginazione significa che l’autore non ha nemmeno riletto il proprio testo, altrimenti si sarebbe accorto della difficoltà di lettura in cui si stava impelagando, e da ciò deriva che il testo stesso sarà anche pieno zeppo di errori di qualsiasi tipo. Ne consegue anche che quell’autore il proprio testo non lo ama neanche abbastanza da controllarlo e dotarlo di un minimo di qualità estetica, non parliamo dell’averselo gustato per se stesso.
Quindi.
Dal momento che potete scrivere come vi pare: a matita, con la biro, con la stilografica, sul tablet, sul telefono cellulare (contenti voi…) o incidendo una tavoletta d’argilla, ma prima o poi sarete costretti a riportare la vostra creazione su un computer, nel momento in cui metterete le mani su una tastiera la prima cosa da fare sarà organizzare un layout di pagina gradevole. Non pensate che questo non sia importante. Toglietevi dalla testa che quello che conta sono i contenuti…  o che quello che scrivo è arte pura… intanto badate a far arrivare fino in fondo chi legge.
Ognuno può scegliere la soluzione che più lo soddisfa, a patto che sia sobria ed esteticamente piacevole. Non fornite un testo scritto in caratteri strani (mai!), ma usate un font che sia facilmente leggibile sullo schermo. Nel mio libro consigliavo font come Garamond, Georgia, Verdana, Palatino Linotype, Bodoni, Century Schoolbook, Rockwell e anche lo stesso Times New Roman a patto che sia scritto almeno in corpo 14. E aggiungevo che l’adoperare caratteri estrosi, a meno che non vi sia una ragione più che valida per farlo (cioè mai…), serve solo a far indispettire chi legge. Considerate che un carattere sans serif come Verdana possiede una leggibilità migliore a schermo, mentre un carattere con grazie come Garamond è più piacevole da leggere stampato su carta.
A me piace scrivere direttamente nel layout finale di stampa, perché rileggo spessissimo ciò che ho scritto e ogni volta mi piace confrontarmi con un’estetica della pagina gradevole. Quindi in corso di scrittura dei miei elaborati uso la seguente impaginazione:
foglio: formato A4 verticale;
margini: superiore 3.6 cm, inferiore 3.6, sinistro 3.5, destro 3.5;
carattere del testo: Georgia corpo 13;
titoli capitoli: centrati corpo 16;
interlinea: minima 20 punti;
allineamento: giustificato;
rientro prima riga paragrafo: 0.7;
nessuna spaziatura ulteriore tra un paragrafo e l’altro;
sillabazione automatica attivata;
numerazione delle pagine: in basso al centro.
Ne risulta una pagina che contiene 31 righe con un numero di caratteri (compresi gli spazi) di circa 1800 e un numero di parole variabile tra 280 e 320, ricalcando mediamente lo standard di cartella editoriale. Fate una prova con il vostro programma di videoscrittura e rendetevi conto di come viene il risultato.
Un ulteriore aspetto importante del layout è la gestione degli “a capo”.
Scrivendo di getto, molto spesso si trascura di separare il testo in paragrafi, ma al contrario questo risulta basilare per “dare respiro” alla trattazione, per scindere concetti o scene leggermente diversi, per concedere una pausa al lettore e, non ultimo, per consentire a quest’ultimo di interrompere la lettura in corrispondenza di una sia pur minima sospensione alla quale poi gli sarà facile riallacciarsi quando riprenderà a leggere. Con questo non voglio assolutamente incoraggiare coloro che inseriscono un “a capo” dopo ogni frase, anzi, ma dal momento che non credo vi chiamiate Marcel Proust, se fossi in voi eviterei di comporre paragrafi lunghi più di una ventina di righe senza spezzarli.
Fate qualche esperimento, rileggete spesso il vostro elaborato, e vi accorgerete come l’adottare questi semplici consigli apporterà ben presto un sensibile miglioramento anche alla qualità della vostra scrittura.
Provare per credere.

Lo Scrittore Insegnante

mercoledì 9 luglio 2014

Il professore va al congresso

Questa volta è stato grazie alle fantastiche allieve (ve lo avevo detto che erano tutte donne?) del mio primo corso di scrittura creativa che ho conosciuto un “nuovo” autore cult, del quale non sospettavo minimamente l’esistenza.


Il professore va al congresso mi è stato regalato (insieme ad una carinissima filastrocca della quale sono il protagonista e che dimostra inequivocabilmente la bravura delle partecipanti oltreché la riuscita del corso stesso…) durante la cena con la quale abbiamo salutato la fine del corso, e tale pensiero gentile mi ha emozionato non poco.
David Lodge è considerato un Autore-cult, dicevo, alla pari di un Bill Bryson o di un Robert Pirsig, talmente di culto da aver scomodato per la prefazione italiana una personalità del calibro di Umberto Eco che ti avverte che stai tenendo tra le mani uno dei libri più divertenti degli ultimi anni. Ora, alle prefazioni, anche se scritte da Eco, bisogna sempre credere con beneficio d’inventario, ma in effetti il romanzo divertente lo è davvero, non solo nel prendere in giro l’ambiente accademico universitario riducendo l’attività congressuale alla frenetica ricerca del modo per infilarsi dentro i letti altrui o di abbuffarsi il più possibile, ma anche per l’atmosfera picaresca e vagamente irreale, e le trovate narrative diluite su 400 pagine.
Il professore va al congresso mette in mostra una miriade di personaggi dei quali Lodge illustra storie e difetti in una moltitudine di sottotrame che finiscono per ricollegarsi tutte al filo portante del romanzo che, come succede nei temi di cui i congressisti discutono nel corso dei loro convegni, si può ricondurre al romanzo epico, con la disperata ricerca dell’anima gemella da parte dell’eroe di turno in una mirabolante serie di avventure dislocate in tutto il globo.
In quella che è quasi metaletteratura il romanzo parla di se stesso, e l’autore lo riempie di citazioni letterarie, di storie individuali che non sono altro che rivisitazioni di saghe cavalleresche di autori famosi, e lo fa con uno stile asciutto ed efficace che non gli impedisce di arricchire la narrazione con episodi magari a prima vista estranei alla corrente principale ma che invece finiscono con il mostrarsi necessari ad essa.
David Lodge sa mostrare anche nel raccontare, è capace di riallacciarsi con una trovata geniale ad un personaggio lasciato anche decine di pagine prima e tiene sotto controllo tutti i protagonisti come un abile marionettista. La sua capacità di mostrare è tale, che dopo aver descritto come un’addetta al check-in dell’aeroporto di Stansted distribuisca i posti a bordo dell’aereo sulla base dell’istintiva simpatia o antipatia che le ispira il viaggiatore, per tutto il libro, nel momento ad esempio in cui leggi che un tipo scostante si è trovato seduto vicino a un ragazzino pestifero a bordo di un 747, tu non puoi fare a meno di sorridere pensando a quella ragazza e a quanto il tipo le debba essere riuscito antipatico…
Senza contare che in questo libro ho incontrato una delle scene con il più alto contenuto di erotismo fine che mi sia mai capitato di leggere.
Insomma, un libro intelligente, finemente ironico, con quell’acume penetrante permeato di understatement che alla fine ti lascia ampiamente soddisfatto.
Grazie, ragazze!
Il Lettore

domenica 6 luglio 2014

Io uccido

Penso di essere stato fra le prime persone che hanno letto Io uccido, perché la mia ammirazione per Giorgio Faletti come comico era tanta che l’ho comperato a scatola chiusa appena uscito in libreria nel 2002.


Ricordo che mi piacque, un bel thriller, magari non così eccezionale come poi è stato dipinto da tutti dopo che ha venduto più di quattro milioni di copie, e già condito di quelle esagerazioni a malapena credibili forse indotte dall’amicizia dell’autore con Jeffrey Deaver.  Ma era comunque una conferma delle doti poliedriche di questo artista che è riuscito a farsi apprezzare dapprima sul palcoscenico come attore, comico, cabarettista e cantante, e poi come scrittore e pittore. Per essere un debutto nella scrittura, poi, Io uccido ha raggiunto delle vette difficilmente uguagliabili, al pari de Il nome della rosa.
Come scrittore Faletti è stato da molti criticato sia per lo stile che, appunto, per le esagerazioni, e in effetti le opere che hanno seguito l’esordio hanno registrato un progressivo calo di gradimento per le trovate narrative non proprio azzeccate, fino all’uscita di Appunti di un venditore di donne che è stato come un colpo di reni: sebbene non abbia entusiasmato la critica, a me è piaciuto molto e reputo ancora che sia la sua opera migliore.
L’altro ieri sono rimasto amareggiato dalla notizia della morte prematura di quest’uomo che ha saputo esprimersi ed emergere in molteplici ruoli nel panorama artistico italiano e che ha segnato un passo importante nella narrativa. Sarà impossibile dimenticarlo, sia nei panni di cantante a Sanremo, sia in quelli della caustica Suor Daliso delle “Piccole Madri Addolorate del Beato Albergo del Viandante e del Pellegrino”, sia rivestito del pancione di un Vito Catozzo dalla sintassi allucinante.
Sia come grande scrittore.
Il Lettore

venerdì 4 luglio 2014

Libero chi legge

Della serie “Libri che parlano di libri”, oggi siamo in presenza della Signora della Letteratura italiana, o meglio della Signora Italiana della Letteratura mondiale, o meglio ancora della “Signora” e basta. Togliamoci il cappello.


Ho ripreso in mano Libero chi legge per andare a riguardarmi il giudizio (per Mondadori, giudizio editoriale n. 286) che Fernanda Pivano aveva espresso il 16 settembre 1957 nei confronti di On the road di Jack Kerouac, dopo averne letto la prima copia ancora fresca di stampa fornitale da Hannah Josephson, per trasmetterlo a mia volta ad un’amica entusiasta di questo romanzo che era rimasta piuttosto male quando le avevo detto che a me non era piaciuto.
«Non è possibile…» mi aveva risposto, «è stupendo!»
«Non ne metto in dubbio la valenza storica, ma come romanzo l’ho trovato piuttosto noioso” avevo detto io.
«Noioso? Ma come fai a dirlo?»
«Lo dico, e non sono il solo a pensarlo».
«Non ci credo…» aveva concluso.
Così le ho fornito le prove mandandole il brano in cui la Pivano, oltre ad affermare: “Il libro non è forse un capolavoro ed è pieno di difetti…” insisteva dicendo che è lungo e che Kerouac ha sbagliato protagonista, ma nonostante ciò concludeva intravedendo in esso e nel suo autore il simbolo di un’intera generazione. E il suo giudizio si è rivelato ancora una volta profetico.
Fernanda Pivano era un Grande (volevo dire una Grande, ma suona male). Una vita passata sui libri, una vita di amicizie con i maggiori scrittori, primo fra tutti Ernest Hemingway, che hanno marcato un secolo, una protagonista indiscussa della scena culturale di tutta la seconda metà del Novecento. Le sue critiche e i suoi apprezzamenti vanno gustati alla pari dei libri stessi che commenta, vanno riguardati, ripresi in mano ogni tanto per cercare di apprezzare quello spunto in più che lei ha sempre saputo cogliere nei testi che  leggeva. Pagine americane 1943-2005 è un libro che tengo sempre vicino alla mia postazione di lavoro e che consulto spesso quando devo cercare un paragone o confrontare una similitudine stilistica.
Senza considerare la Fernanda Pivano Autrice: il suo Hemingway del 1985 è una delle migliori biografie che io abbia mai letto.
In Libero chi legge sono raccolti 100 suoi commenti a 100 libri, raggruppati (non si riesce a capire bene se da lei stessa o dall’editore dopo la sua morte) sulla base dell’idea di Libertà: Libertà dalla morale, Libertà sessuale, Libertà di parola e Libertà dalla violenza. Ogni testo analizzato apporta qualcosa a quel concetto di Libertà che è sempre stato ai primi posti nell’elenco delle priorità della Pivano. E si passa quindi per i più famosi da Kerouac a Hemingway, da Masters a Chandler, da Miller a Foster Wallace a Leavitt a Easton Ellis a tanti altri, senza tralasciare i meno conosciuti Thompson, Tyler o Hellman e altri. Un’antologia di commenti che fornisce, oltre ad un giudizio critico più che competente, una serie di consigli, di suggerimenti su libri da scegliere per impolpare la propria libreria e la propria cultura.
In ogni caso il messaggio resta sempre quello suo più forte: Leggere rende Liberi.
Il Lettore

mercoledì 2 luglio 2014

Il colore dell’inchiostro

Di solito è blu o nero... Va be’, a parte gli scherzi, questo è il romanzo che avevo comperato nel corso di Umbria Libri, della serie leggiamo anche gli autori sconosciuti e non si dica quindi che mi occupo solo di libri famosi e scrittori noti. Che però, detto inter nos, nella maggior parte dei casi se uno scrittore non è famoso una ragione ci deve pur essere. In effetti, questo romanzetto di brutto non ha solamente la copertina…


Prima di passare alla recensione del romanzo voglio raccontarvi della presentazione a cui ho assistito. Per brevissimo tempo, ma bastante per poterlo tramutare in un insegnamento su come non si fa una presentazione. Tutto serve per imparare. Allora, entro nella sala e vi trovo una quindicina di persone sparse sulle sedie come i pezzi degli scacchi in un finale di partita. Al centro del tavolo in fondo l’autrice, Francesca Schaal Zucchiatti, bella donna, affiancata alla sua sinistra da un distinto barbuto che mi hanno riferito essere un professore di liceo. Alla sua destra quella che per me rimane un’illustre sconosciuta sta raccontando la trama del romanzo. Prima cosa che non si dovrebbe mai fare: in una presentazione tutt’al più alla trama vi si accenna, ma non si deve spiegare tutto per filo e per segno. Dovrebbe essere come stilare una sinossi: brevissima e incisiva, tale da farti venire la voglia di leggerlo, non di fartela passare perché alla fine è come se l’avessi già letto.
Il tono è piatto e uniforme, pare una veglia funebre. Inoltre l’impianto di amplificazione della sala è regolato su toni che più bassi non si può, e della metà delle frasi non ne capisco una mazza (mia moglie sostiene che è la sordità incombente, ma si sbaglia; eh? come hai detto?): già questo mi innervosisce e sarei tentato di andare io stesso al mixer a smanettare un po’ sui cursori dell’equalizzatore, ma lascio perdere. La mia costernazione raggiunge il top quando la sconosciuta signora racconta tranquillamente il colpo di scena finale del romanzo! Non ci posso credere! A questo punto l’autrice perde l’aplomb e si incazza pure un pochetto, ma il danno è fatto. Per salvare la situazione comincia a parlare il professore, ma il mio interesse è oramai del tutto svanito: compro una copia del romanzo a otto euro solo per poterlo leggere (speriamo bene!) e recensire e me ne vado a rischiare di farmi prendere per i fondelli dai finalisti del Premio Strega.
Ma torniamo al libro, Il colore dell’inchiostro, che come dicevo di brutto non ha solo il titolo e la copertina, con quella composizione escheriana, ma tra le sue peggiori, di farfalle che ricordano troppo l’Acherontia Atropos resa famosa da Il silenzio degli innocenti. E tutto quel nero di listato a lutto: un cazzotto in un occhio. A che scopo? Ma lasciamo perdere, cominciamo a leggere. La vicenda (in breve, non come la sconosciuta oratrice) è intessuta su un giovane assassino che rapisce una ragazza, la rinchiude in un luogo introvabile e si mette a raccontarle la propria vita in un lungo monologo. Ho usato 25 parole senza neanche dirvi il finale, e ad averci avuto più tempo sarei riuscito a fare di meglio.
Comincio a leggere, dicevo, e già dopo dieci pagine ne ho le palle piene. Per carità, scelte semantiche azzeccate, costruzioni sintattiche ineccepibili (del resto l’autrice è una giornalista); sulla resa formale, a parte qualche refuso sparso qua e là, non si può proprio dire nulla.
Ma una noia… una noia!
Un resoconto monocorde, per niente avvincente, senza un briciolo di tensione narrativa, con capitoli di narrazione autobiografica alternati a parti più corte nelle quali la ragazza rapita (monocorde anche lei) esterna i propri improbabili pensieri. Mi trascino svogliatamente per qualche decina di pagine costringendomi ad arrivare alla fine per poterci scrivere sopra, ma l’esposizione narrativa incessante e monotona dei pensieri dei due protagonisti è di un tedio tale che, oltre ad addormentarmi ogni tanto, a un certo punto passo a leggere solo la prima frase di ogni capoverso per poter arrivare in fondo più in fretta. Ci arrivo, ma che fatica. E non mi resta nulla.
Un romanzetto che avrebbe voluto essere un thriller, forse, ma che alla fine potrebbe benissimo essere utile come sonnifero. Colpa mia. Poco intuito, avrei dovuto capirlo già dalla presentazione.
Il Lettore