mercoledì 29 marzo 2017

Nessuna cortesia all’uscita

Mi sono letto un'altra avventura di Marco Buratti, alias l’Alligatore, una delle prime, quella in cui Max la Memoria entra a far parte del terzetto di investigatori “non tanto per la quale” che costituiscono il nucleo forte dei romanzi di Massimo Carlotto.



Non starò  a farla tanto lunga: con il consueto stile veloce Massimo Carlotto stavolta mette i suoi protagonisti in una situazione difficile che li vede impegnati addirittura contro la mafia del Brenta, la quale a sua volta ha il suo da fare con la criminalità slava e balcanica che si sta facendo strada nel Nordest italiano.
Oltre che a tentare di salvare la pellaccia i tre sono indaffarati a cercare di non essere incastrati da poliziotti più o meno corrotti e da giudici rampanti tesi a sfruttare il più possibile le crisi di pentimento (interessate) dei delinquenti, e di non  finire in galera per reati che non hanno commesso (o che avranno pure commesso, ma a fin di bene…).
Un romanzetto agile, grondante sangue ancora più del solito per i reiterati ammazzamenti, e dal quale Carlotto tenta di far emergere l’importanza del “codice d’onore” della vecchia criminalità, seriamente minacciato dal progredire di quella “nuova” che non bada tanto per il sottile.
Il Lettore 

venerdì 24 marzo 2017

Antico o moderno?

L’altra sera quell’ingenua del mio editor e io siamo andati ad assistere a una conferenza alla Sala Santa Chiara nei meandri di Via Tornetta.
L’incontro riportava l’importante titolo “L’Odissea del moderno da Ulisse a Finnegans wake” ed era patrocinato dall’ Associazione culturale Umbria-Grecia “Alarico Silvestri”.
«Che dici? Potrebbe essere carino» mi ha detto la candida consorte.
«In effetti Joyce mi ha sempre interessato» ho risposto.
«Joyce?» mi fa lei, «Che c’entra Joyce?»
Sono rimasto interdetto. Poi ho capito e mi sono ripreso.
«Ma tu di che cosa pensi che parli la conferenza?»
Nel suo infinito innamoramento per la civiltà greca il mio editor era rimasta abbacinata dalle parole “Odissea” e “Ulisse” del titolo, oltre che dallo stesso organismo organizzatore, e non aveva tenuto nella minima considerazione né la parola “moderno” né tantomeno “Finnegans wake”.
«Di Ulisse” mi ha risposto.
Benedetta ingenuità.
«Mi sa che ti toccherà una terribile delusione» ho ribattuto, «spero che tu non debba annoiarti troppo».




Timore infondato. La conferenza, in una sala strapiena, è stata interessantissima (anche a detta di lei medesima) e il sentir parlare di James Joyce da persone esperte ha rinfocolato l’ammirazione che provo per l’autore irlandese. Anche se…
Di James Joyce ho letto e apprezzato Gente di Dublino e Dedalus, ma i miei tentativi di portare a compimento la lettura sia di Ulisse che di Finnegans wake si sono arenati dopo poche pagine e non sono mai riuscito a terminare i due libri pur avendoli iniziati entrambi a più riprese. Il conduttore della serata ce ne ha spiegato anche il perché, visto che una gentile esponente dell’organizzazione, presentando l’oratore, aveva confessato di trovarsi nella mia stessa situazione.
Ci si prova ma non si riesce ad arrivare in fondo, colpa della complessità su più livelli delle opere, e del fatto che Joyce ha scritto solo per il suo lettore ideale fregandosene altamente del lettore comune. Cose tipiche del genio.
Colui che ha tenuto la conferenza è stato Enrico Terrinoni, professore di letteratura inglese nonché attuale e ultimo traduttore del Finnegans (insieme a Fabio Pedone), coadiuvato dall’attore Michele Carli che ha letto e interpretato alcuni brani tratti sia da quest’ultimo che dall’Ulisse.
Terrinoni ha spiegato alla sala la difficoltà di leggere queste due opere di Joyce e la volontà  dell’autore (del tutto intenzionale) di far faticare il lettore, di costringerlo a riflettere a fondo su ogni parola di ogni frase in una metafora del viaggio e della vita stessa, che non è per niente facile come lo può essere un romanzetto. Ha spiegato la scelta della figura di Ulisse come ispiratore e alter ego del protagonista e i legami politici tra le innovazioni della scrittura di Joyce, l’Irlanda e la storpiatura della lingua inglese, fino ad approfondire la psicologia di Leopold Bloom come uomo molto avanti rispetto ai suoi tempi e il suo rapporto con la moglie.
Particolare attenzione è stata dedicata all’analisi dello stile del Finnegans wake, del quale Terrinoni ci ha reso edotti che Joyce ha impiegato circa 15 anni per scriverlo e che andrebbe letto non più di 2-3 righe al giorno, a voce alta, impiegando così circa 23 anni per terminarlo (!!!).
Certo che a dover comprendere appieno frasi come “Né a luce d’arco avevano Giem o Shem distillato un gallone del malto paterno, né il roriadoso estremo dell’altobaleno regisplendeva girigiocoso sull’acquispecchio” non metto in dubbio ci voglia un certo tempo. La traduzione in questo caso non è di Terrinoni ma di J. Rodolfo Wilcock, e proprio questo punto cruciale dei problemi di versione in un’altra lingua di un’opera del genere ha dato la stura, in macchina, tornando a casa, a una dibattuta disquisizione a due sui problemi di resa della traduzione e se non sarebbe in fondo più soddisfacente leggerlo direttamente nell’originale inglese storpiato. Così gli anni diventerebbero 46.
Comunque la conferenza è stata davvero interessante, mi ha fatto tornare la voglia di riprendere in mano i due tomi magari sfruttando la dritta di partire stavolta dal 4° capitolo dell’Ulisse invece che dall’inizio, ne è rimasta soddisfatta anche il mio editor, e ci si augura che di iniziative del genere ce ne possano essere di più e più spesso.
Anche se non trattano della Grecia in senso stretto.
Lo Scrittore 

martedì 21 marzo 2017

Il viaggio d’inverno

Di certo non si può dire che Amélie Nothomb manchi di fantasia.
Nei suoi romanzi brevi sia le trame che i personaggi stessi sono voli di fantasia sfrenata, condita da una cultura profonda e realizzata con uno stile sopraffino: il tutto consente di procedere in una lettura piacevole e colta che di solito lascia soddisfatti.
Una sfrenata fantasia fin dai nomi dei protagonisti dei quali la Nothombe rende edotto il lettore di tutta l’etimologia: Zoïle, modesto impiegato in una società elettrica, Aliénor, una scrittrice di successo autistica, e la sua tutrice Astrolabe.




I tre si incontrano per caso e Zoïle si innamora della bellissima Astrolabe, ma la missione che si è imposta quest’ultima di curare e proteggere la geniale scrittrice contrasta con la formazione di un rapporto d’amore, sia pure ricambiato, con l’uomo. Aliénor è sempre presente e curiosa, e ciò non consente all’uomo di aprirsi una strada nel cuore dell’amata, né tantomeno tra le sue gambe.
Zoïle ne rimane profondamente deluso e addolorato fino a che, dopo averle provate proprio tutte (anche fino a drogarle entrambe), trasforma la vicenda in un caso esistenziale e decide  per una soluzione estrema e definitiva: per dar prova del suo dolore dirotterà un aereo di linea e si schianterà con esso e tutti gli altri suoi passeggeri su un monumento famoso di Parigi.
“Mi rileggo con stupore: dunque colui che tra qualche ora farà esplodere un aereo con a bordo un centinaio di passeggeri quando ha occasione di scrivere i suoi ultimi pensieri inclina al più travolgente lirismo.”
Il romanzo non è altro che il racconto che l’uomo fa a se stesso e al suo taccuino di tutta la vicenda, con gli antefatti e le motivazioni, al momento di imbarcarsi sull’aereo che lo porterà alla morte. Un racconto crudo e deciso, un’introspezione psicologica all’interno di una mente assolutamente convinta di ciò che sta per attuare e pronta alle nefaste e definitive conseguenze.
Ma Il viaggio d’inverno non è solo il resoconto di una strage annunciata: le metafore di cui è farcito, a partire dal titolo che richiama sia il viaggio che l’inverno, cioè la fine, per finire con la psichedelica passeggiata nello psilocybe guatemalteco passando per il significato del freddo patito dalle due donne nel loro minuscolo appartamento, lo rendono un contenuto di simbologie saturo di amarezza esistenziale.
I personaggi sono decisamente eccentrici e, visto che il mirino dell’autore resta inquadrato sulla figura di Zoïle, delle due donne splendidamente caratterizzate rimane al lettore la curiosità di sapere che fine faranno una volta che il dramma si sarà compiuto.
Il Lettore 

domenica 19 marzo 2017

Lo Squizzalibro di domenica 19 marzo 2017

Quest’ultima settimana l’ho passata in giro per congressi dai titoli altisonanti e dal povero contenuto, nei quali si è impiegata la maggior parte del tempo ad ascoltare meno che mediocri politici incensare se stessi e il proprio operato.
Deprimente.
Il fatto abnorme è che i congressi riguardavano la mia professione, al lato tecnico della quale è stata riservata una misera percentuale del tempo a disposizione preferendo dedicarne la maggior parte al politichese più terra terra, infarcito di leccate di culo ai politicanti di turno da parte degli esponenti più sordidi della burocrazia imperante nel mondo degli enti pubblici.
Quando ho fatto notare la cosa a quello che avrebbe dovuto essere un mio rappresentante ufficiale, e se non sarebbe stato meglio piantarla di invitare politici a un congresso di, e per, tecnici,  lui mi ha risposto che sono i politici che fanno le leggi. Secondo lui questo giustificherebbe sia gli inviti che le leccate di culo, amen.
Sarà che difetto di molto in diplomazia, ma non mi sembra la strada giusta da percorrere. Un politico che gradisce reiterate leccate di culo per operare più o meno giustamente secondo me dovrebbe solo essere tolto dai coglioni al più presto. Ma, come dicevo, la diplomazia non è il mio forte, così a un certo punto mi sono staccato dal contesto e mi sono messo a esplorare il contenuto letterario del mio cellulare alla ricerca di un romanzo che mi consentisse di estraniarmi sufficientemente dalle idiozie degli oratori di turno.
Ce l’avevo. L’ho iniziato e finito nella durata dello stesso congresso.




1 – L’autore del libro da indovinare (e che mi ha consentito di superare interi eoni di tedio puro) è donna (donna?), giovane (relativamente), famosa (parecchio), strana (ancora di più).
2 – Dimenticavo: centroeuropea con tendenze di appartenenza alla globalità.
3 – Ha scritto tonnellate di romanzi, una peculiare caratteristica dei quali è che in genere sono romanzi brevi, tra le cinquanta e le cento pagine (proprio giusti per un congresso noioso).
4 – Il romanzo da indovinare è una confessione scritta in prima persona.
5 – Ma esplora anche in parte i meccanismi perversi della scrittura e degli scrittori che, come è scontato, persone tanto normali non sono…
Bene, nessun congresso in vista per la settimana entrante. Sospiro di sollievo.
Freereader

lunedì 13 marzo 2017

Di là dal fiume e tra gli alberi

Per leggere certi libri bisogna raggiungere una certa età.
Questo romanzo dal titolo splendido era l’unica cosa che mi era rimasta da leggere di tutta la produzione hemingwayana, compresi i romanzi postumi, gli articoli, le lettere e le poesie, per non parlare delle biografie che hanno scritto su di lui. E non è che non ci avessi provato. In passato lo avevo preso in mano e iniziato più volte, fermandomi sempre dopo poche pagine perché non lo avevo mai ritenuto abbastanza interessante da consentirmi di proseguire. Nonostante lo desiderassi.
Stavolta sono arrivato in fondo. Posso dire finalmente di aver letto tutto Hemingway.




Ernest Hemingway mette tutto il personaggio “se stesso” in questo libro che nel 1950 viene dato alle stampe dopo dieci anni di silenzio seguiti all’uscita di Per chi suona la campana. Dieci anni in cui ha scritto per i giornali, ha partecipato alla Seconda Guerra Mondiale, ha scorrazzato per l’Oceano Atlantico sulla sua barca a caccia di sottomarini tedeschi e ha effettuato battute di caccia in Africa.
E ce lo mette nel personaggio di un ex generale ― retrocesso al grado di colonnello ― dell’esercito americano che ha partecipato sia alla Prima che alla Seconda Guerra Mondiale e che sta facendo un viaggio in Italia subito dopo la fine di quest’ultima. Richard Cantwell è stato ferito più volte, oltre che con i tedeschi ha combattuto con la gerarchia militare e con l’idiozia umana, e si ritrova deluso e amareggiato e con il cuore che ha già subìto qualche infarto. Nonostante le sue condizioni di salute siano precarie vuole rivedere la città che ama, Venezia, e andare a caccia di anatre in laguna, oltre che passare un po’ di tempo, quello che egli pensa sia l’ultimo, con la donna di cui è innamorato, la diciannovenne Renata.
Di là dal fiume e tra gli alberi è un romanzo che al momento della sua pubblicazione è stato molto criticato soprattutto perché i lettori si aspettavano, dopo dieci anni di attesa, di ritrovare lo stesso Hemingway di Per chi suona la campana, e invece hanno letto di un vecchio soldato triste e innamorato, demotivato, demoralizzato, rassegnato ad attendere la propria morte, in una vicenda nella quale non accade assolutamente nulla e si dipana tra infiniti dialoghi tra Cantwell e Renata nelle calli e negli alberghi di Venezia, persi entrambi in un amore che sanno essere senza futuro.
Non succede nulla, è vero, ma Dio!, come l’ha saputo scrivere!
Ernest Hemingway ha adoperato l’esatto contrario dell’enfatizzazione: ha portato la semplicità di scrittura ai massimi livelli in un inno alla concisione e all’omissione. Leggere i suoi dialoghi è puro piacere, mai scontati o banali, semplici, brevi ed essenziali, con la ripetitività del concetto di amore a marcare l’importanza del sentimento. L’intero romanzo stesso è un atto d’amore, oltre che per la reale Adriana Ivancich (la Renata del romanzo), per Venezia e per l’Italia tutta nella quale lo scrittore si trovava così bene. Una Venezia descritta da maestro: “Mentre camminavano col vento alle spalle e i capelli di lei che sventolavano meglio di qualsiasi bandiera, la ragazza gli chiese, stringendosi a lui: «Mi ami ancora nella luce fredda e cruda del mattino veneziano? È proprio fredda e cruda, vero?» «Ti amo ed è proprio fredda e cruda.» Alla faccia di quegli editor che non sopportano le ripetizioni.
Esplorando i temi dell’amore, della guerra, dell’invecchiamento e della solitudine nell’avvicinarsi della morte, Hemingway ha riempito il libro di simboli e allegorie non esplicitati ma solamente lasciati intuire al lettore. Sembra che voglia dire: se ci arrivi bene, altrimenti chissenefrega, io non sto qui per doverti spiegare.
Quattro anni dopo la pubblicazione di questo romanzo queste stesse tecniche “semplici”, riconfermate in Il vecchio e il mare,  gli frutteranno il Premio Nobel per la letteratura.
È vero che nel romanzo praticamente non c’è azione, ad eccezione di qualche breve racconto di guerra e della caccia alle anatre finale (questa scena non me la sono goduta molto perché sono arrivato ad essere decisamente contro il concetto stesso di caccia, ma c’è da apprezzare comunque il modo in cui E.H., pur essendo stato un accanito cacciatore, tratta con infinita tenerezza gli animali come prede), ma nonostante l’apparente piattezza questo è uno dei libri che una volta letti non si scordano più.
I personaggi di Richard Cantwell e di Renata restano impressi nella memoria in modo indelebile e ci si trova spesso, anche dopo giorni, a rimuginare su qualche passaggio del romanzo  e sulle simbologie che l’autore ha voluto inserirci.
Sarà che una volta passati i cinquanta alla morte cominci a pensarci seriamente, e forse è per questo motivo che un romanzo del genere va letto solo dopo aver lasciato passare un congruo lasso di tempo dalla tappa del mezzo secolo.
Il Lettore 

martedì 7 marzo 2017

L’uomo che vedeva gli atomi

Sui miei scaffali (quelli situati in camera da letto, NdF), ho file intere di romanzi di fantascienza la maggior parte dei quali ho letto più di quaranta anni fa. Di alcuni non ricordo neanche di cosa parlino, di altri addirittura se li ho letti o meno. Delle volte però, quando non ho nulla da leggere, li esamino per l’ennesima volta cercando qualcosa che mi faccia venire voglia di riprendere il libro in mano e l’altra sera, disperato (non potevo proprio iniziarne un altro della George…), ho puntato l’occhio su questo L’uomo che vedeva gli atomi e mi sono detto ma sì, leggiamo della buona, vecchia fantascienza che non fa mai male.




Murray Leinster, pseudonimo di William Fitzgerald Jenkins, è uno di quegli scrittori che si possono considerare i padri della fantascienza moderna, avendone scritto fin dai primi degli anni ’30. Questo romanzo è stato pubblicato nel 1957, ma in realtà è tratto da una serie di racconti separati che Leinster aveva fatto uscire in rivista intorno al 1947 e che poi ha rimesso insieme fino a farne un volume. E questo si sente parecchio.
In pratica il romanzo è costituito da quattro racconti con gli stessi protagonisti principali. Bud Gregory è un meccanico di automobili il cui unico scopo nella vita è quello di stare nell’ozio più completo bevendo birra senza nemmeno sognarsi di lavorare, ma ha una strana prerogativa: è capace di costruire marchingegni incredibili capaci di eliminare del tutto qualsiasi tipo di attrito, di trasformare il calore direttamente in energia cinetica o di costringere gli atomi a fare qualsiasi cosa lui voglia. Non sa nemmeno lui come ci riesca, ma il fatto è che i suoi aggeggi funzionano, e dopo che David Murfree si accorge di questa sua caratteristica da idiot savant cerca reiteratamente di fare il possibile perché Gregory esca dalla sua indolenza e salvi l’intero pianeta Terra da minacce letali.
Gregory si trova così suo malgrado a dover costruire macchine per salvare gli Stati Uniti da minacce nucleari lanciate da altre nazioni o addirittura la stessa Terra da provocazioni di intelligenze aliene del tutto ostili.
A leggere questo romanzo oggi viene da sorridere: è infarcito di talmente tante ingenuità, di quelle che non sarebbero più ammissibili neanche in racconti di fantascienza “leggera”, che sembra essere stato scritto solo per bambini idioti, ma bisogna ricordare che gli argomenti più in voga all’epoca in cui è stato scritto erano la minaccia atomica e la Guerra Fredda, e che di come funzionasse l’atomo ancora non è che se ne sapesse un granché. Inoltre si era agli albori del genere fantascientifico e gli autori si divertivano a ipotizzare gli scenari più assurdi ai quali seguivano risoluzioni ancora più assurde.
Oggi non è più possibile scrivere di fantascienza in questo modo: per buttare giù un qualcosa di apprezzabile devi avere le stesse informazioni di base di uno scienziato, per poterle poi conformare ai tuoi scopi e crearci un qualcosa che come minimo non appaia infantile.
Il Lettore 

giovedì 2 marzo 2017

La miglior vendetta

Quando si hanno disponibili tutti i romanzi del ciclo dell’ispettore Lynley in formato elettronico è difficile non metterci mano a ripetizione. Stavolta ― della serie non so resistere alle tentazioni ― mi sono lasciato trascinare e ho aperto questo secondo romanzo di Elizabeth George a breve distanza da quello di pochi giorni fa.
Uffa! Direte, e avreste anche ragione. Ma come al solito il blog è il mio e me lo gestisco io, e la scaletta delle pubblicazioni non è affatto preordinata: al momento non so nemmeno io quale sarà il prossimo libro che leggerò (forse ancora la George? Scherzo…) .




In questa seconda avventura (1989) Thomas Lynley e i suoi colleghi si trovano a dover indagare sull’omicidio di una scrittrice avvenuto nel corso del reading di una sua opera teatrale in una nobile dimora scozzese.
Un giallo in stile classico, un po’ sulla scia del “mistero della camera chiusa”: il morto è chiuso a doppia mandata nella sua camera e a quanto pare nessuno ne ha prese le chiavi. Ma nel corso delle indagini si scopre che tutti avevano una qualche ragione per ammazzare la donna, compresi i parenti stretti. I sospetti così cadono via via su un po’ tutti i personaggi coinvolti fino a che non verrà individuato il vero responsabile. Stavolta però non per merito di Lynley, a cui la George fa prendere una bella cantonata, ma soprattutto per l’ostinazione di Barbara Havers.
Va bene, basta così, altrimenti vi tedio troppo. Comunque anche questo un buon giallo, ben costruito, con personaggi descritti minuziosamente e le solite ambientazioni particolareggiate della scrittrice americana. Lynley non ne emerge molto bene, ma forse la George ha voluto ricondurre il personaggio a una dimensione più terra terra.
Il Lettore