sabato 31 dicembre 2016

L’isola dei cacciatori di uccelli

Evvai! Ce l’ho fatta! Ho terminato questo romanzo! Ma ti sei rimbecillito? Finito! Finito! (Colonna sonora: il club di Topolino dal film Full Metal Jacket). Sì, sei proprio scemo. Non puoi capire, l’ho finito! Sì, questo mi pareva di averlo sospettato, ma cosa ci sarebbe di così sensazionale? Avevo cominciato a leggerlo sette mesi fa! Diavolo, hai un po’ rallentato la velocità di lettura?
No, è che questo romanzo di Peter May mi era stato caldamente consigliato da più di una persona e me lo avevano anche fornito in forma elettronica, ma il fatto è che, dopo averlo iniziato, come lettura non mi aveva mai preso, anzi, per i miei gusti era decisamente noioso, e così ogni volta che dovevo riprenderlo mi metteva pensiero e quindi vi ho attinto solo le volte che non avevo proprio altro da leggere.
Contento tu…
Già è tanto che l’ho terminato senza abbandonarlo per strada, ma il bello è che sarebbe la prima puntata di una trilogia, e mi hanno gentilmente rifornito anche dei seguiti. Presto metterò mano anche a quelli. Per cancellarli direttamente.




Fin McLeod è un poliziotto scozzese che viene chiamato a indagare su un omicidio commesso nell’isola di Lewis con lo stesso modus operandi di un altro assassinio effettuato a Edimburgo, e per questo gli inquirenti pensano che a commetterli sia stata la stessa persona. A McLeod è morto un figlio da poco (e ti pareva che il protagonista non avesse un qualche problema) e tanto bene lui stesso è nato e cresciuto nell’isola di Lewis, per cui la vicenda dell’omicidio finirà con l’intrecciarsi alle sue vicissitudini personali che l’autore ripercorre alternando capitoli al tempo presente, narrati in terza persona, a capitoli (narrati in prima persona da egli stesso) nei quali McLeod era dapprima bambino, poi fanciullo e quindi adolescente fino alla sua partenza dall’isola per frequentare l’università.
Ovviamente alla fine McLeod chiarirà tutti gli aspetti dell’omicidio ― dalle motivazioni come minimo discutibili ― affondando nel proprio passato e portando alla luce segreti che gli abitanti dell’isola avevano fatto di tutto per tenere nascosti.
Perché la trama del romanzo è più che altro una scusa per indagare sulla vita degli abitanti dell’isola di Lewis e delle altre isole sperdute nell’oceano artico dove le condizioni di vita sono proibitive. In particolare Peter May descrive accuratamente ― e vi dedica un mucchio di pagine ― il modo particolare di cacciare la sula, un grosso uccello marino che nel romanzo viene chiamata guga, per farne un piatto prelibato. Un sistema usato da centinaia di anni e che per un adolescente nato in quelle isole assume il significato di una vera e propria iniziazione all’età adulta. Tutto ciò che succede nel corso della caccia, che si svolge su uno scoglio desolato e sperduto nell’immensità dell’oceano, non deve assolutamente uscire dall’interno del gruppo di uomini che vi partecipano, e ciò che vi succede la volta in cui McLeod vi partecipa da ragazzo avrà un significato importante sulle motivazioni dell’omicidio su cui si trova ad indagare vent’anni più tardi.
Per arrivare a queste motivazioni e scoprire l’assassino ci ho messo sette mesi. Non posso però affermare che sia un brutto romanzo ― nelle pagine finali si riscatta un pochino anche come velocità di lettura ― perché spunti interessanti in fondo ce ne sono (ma proprio in fondo), e ammetto che qualcuno potrà anche rimanerne soddisfatto, ma quando a me una cosa non prende dall’inizio poi ce ne vuole per farmi cambiare idea.
Il Lettore 

martedì 27 dicembre 2016

Norwegian wood

Dopo essere venuto a conoscenza della sua pubblicazione in un noto Forum del settore questo libro, che non è un semplice manuale, mi aveva incuriosito non poco, e ovviamente, avendo esplicitato le mie curiosità alla consorte, me lo sono visto recapitare da Gesù Bambino. Non proprio da lui in persona, capiamoci.
Il titolo è già stato sfruttato non poco, dalla canzone dei Beatles al susseguente e bellissimo romanzo di Haruki Murakami, ma dal momento che il sottotitolo recita Il metodo scandinavo per tagliare, accatastare & scaldarsi con la legna (in italiano), e che io taglio, accatasto e mi scaldo con la legna, non potevo fare a meno di leggerlo, vi pare?
E considerate che questo volume del norvegese Lars Mytting, oltre ad essere stato nominato libro dell’anno (per la non-fiction) in Inghilterra, ha venduto 500.000 copie solo in Norvegia nelle prime settimane dalla pubblicazione, ed è in corso di traduzione in tutto il mondo.




Tra l’altro, l’edizione italiana della UTET è splendida, con copertina rigida e telata, stampa accurata sia del testo che delle numerose foto, e non un solo refuso in duecentocinquanta pagine. Con compresa nel prezzo la possibilità per chi lo ha comperato di poterlo scaricare anche in forma digitale. E non è mica poco.
Dicevo che non è un manuale, e che già prima di leggerlo sapevo che non vi avrei trovato nulla che già non sapessi, ma la sua lettura mi ha soddisfatto lo stesso e me lo sono goduto in un paio di giorni. Lars Mytting è un romanziere e si sente: il libro è scritto curando molto la fraseggiatura e in modo da non annoiare mai.
Il tema portante è che in Norvegia “il fare legna” non è solo un trastullo domenicale ma una vera e propria questione di vita o di morte: quando devi passare un intero inverno a -40° è bene che la legnaia sia piena e la stufa perfettamente funzionante, altrimenti la questione diventa più di morte che di vita.
Mytting analizza la tematica da tutti i lati: tecniche di taglio, di essiccazione, di accatastamento; una panoramica sulle essenze vegetali, sui tipi di stufe e loro funzionamento, sulle motoseghe e gli altri sistemi di taglio e di spacco; con un particolare riguardo nello sviscerare le problematiche ecologiche e ricordando sempre, ad ogni capitolo, come vi sia una vera e propria filosofia di vita dietro a questa semplice attività che porta anche a delle vere e proprie gratificazioni personali.
Ogni uomo guarda la sua catasta di legna con una specie di affetto” diceva Henry David Thoreau nel suo Walden, “Mi piace avere la mia di fronte alla finestra, e più sono le schegge che la compongono, più essa mi rammenta il mio piacevole lavoro.”
Nel mio piccolo mi fermo anch’io diversi minuti a contemplare la mia catasta ogni volta che la faccio crescere: se nessuno mi fa i complimenti perché a nessun’altro importa nulla, perlomeno me li faccio da solo.
E Mytting ci ricorda che Thoreau amava anche dire: “Incidere sulla qualità della giornata, ecco la più sublime delle arti.” E spaccare legna è un bel modo di passare il tempo.
Ripeto, una persona già esperta di lavori nel bosco non ci troverà nulla di nuovo se non concetti già da tempo assimilati: meglio che la legna da bruciare sia secca (e grazie tante!), e meglio che la catasta da essiccare sia rivolta a Sud (nell’emisfero meridionale deve guardare a Nord, NdF). E il metodo ‘valle e ponte’, cioè il modo giusto per accendere un fuoco: “…si posano due ciocchi paralleli, a distanza di 10-15 cm, e nel mezzo, ossia al centro della ‘valle’, si colloca la carta di giornale appallottolata (che non è mai troppa, e non deve essere carta patinata, NdF) o un cubetto accendifuoco. Sui ciocchi, a mò di ‘ponte’, si posa la legna da esca, che così resterà sollevata al di sopra della cenere e ben ventilata dal basso” io lo avevo già imparato quando avevo 12 anni.
Ma le notizie storiche sui metodi antichi di taglio e accatastamento, sull’evoluzione delle stufe o delle motoseghe sono interessanti e piacevoli da leggere, e sono convinto che così come me lo sono gustato io se lo gusteranno anche tantissime altre persone che per un verso o per un altro hanno a che fare con la legna.
Acc… che invidia! Vorrei averlo scritto io…
Ma già, mica sono norvegese…
Il Lettore 

sabato 24 dicembre 2016

L’amore del bandito

L’altra sera sono andato alla presentazione del libro di un amico che si svolgeva in un ristorante di quelli con l’atmosfera giusta: salette piccole con pareti rivestite da scaffalature piene di libri.
Visto che come al solito ero in anticipo mi sono messo a curiosare tra i volumi e ho preferito cominciare a leggere qualcosa invece di mischiarmi alle chiacchiere con gli altri. Qualcosa di non particolarmente impegnativo, perché di lì a poco lo avrei dovuto lasciare. Ho scelto questo L’amore del bandito. Quando la presentazione del libro è iniziata ne avevo lette 30 pagine.
E dopo cena me lo sono portato a casa (di nascosto): dovevo assolutamente sapere come andasse a finire.




Perché la bravura di un autore si vede anche e soprattutto da come riesce a incuriosirti fin dalle prime pagine. Massimo Carlotto ci riesce eccome, e anche se questo romanzo magari non sarà fra i suoi migliori, lo stile essenziale e il non tergiversare riescono a prenderti da subito.
I protagonisti sono i suoi soliti: il trio composto da Marco Buratti alias l’Alligatore, Max la Memoria e Beniamino il Contrabbandiere, alla ricerca della donna del terzo misteriosamente rapita da qualcuno che vuole vendicarsi su Beniamino per un omicidio che lui ha commesso senza starci troppo a pensare (come suo solito).
Il tutto si svolge tra Padova e Grenoble, la Serbia e il Libano, in un ambiente tra i più infimi della miseria umana, in cui tutti quanti sono delinquenti, tutti i poliziotti sono corrotti, tutte le altre persone sono corruttibili e se non sei una prostituta sei un magnaccia, se non sei tossico sei spacciatore. Ce ne fosse uno normale: il nordest italiano mostrato come un formicaio di aberrazioni.
Ma se riesci a dominare il ribrezzo e la depressione il romanzo è piacevole soprattutto, come ho già detto, per lo stile incisivo e la rapidità di progressione. Carlotto non va tanto per il sottile, riporta i fatti che si susseguono a ritmo frenetico e negli ammazzamenti non sta tanto a pensarci sopra: se qualcuno deve sparare a qualcun altro lo fa e basta, non sta tanto a chiacchierare permettendo l’arrivo del Quinto Cavalleggeri in extremis.
Tempo fa leggevo un altro romanzo di un autore che intendeva proporlo per la pubblicazione e per quanto fosse presentato in modo perfetto non sono riuscito a proseguire oltre le prime trenta pagine: preamboli chilometrici e infinite masturbazioni mentali me lo hanno fatto abbandonare prima ancora che l’autore si avvicinasse al conquibus. Ogni tanto fa bene rammentare che esistono anche scrittori concreti.
Ora devo ricordarmi, la prossima volta che passo dalle parti di quel ristorante, di portare con me il volumetto per rimetterlo al suo posto sullo scaffale senza che se ne accorga nessuno.
Ah, dimenticavo, Buon Natale!
Il Lettore 

lunedì 19 dicembre 2016

La creatura del desiderio

 Ho letto un altro Camilleri.
Brutto.
Sarà ora che smetto.



Ma ovviamente quand’è uscito è stato presentato come un piccolo capolavoro. E mica se confessi che in realtà fa schifo poi riesci a venderlo…
Andrea Camilleri narra in modo freddo e asettico la relazione tumultuosa tra Alma Schindler ― già amante di Gustav Klimt; poi moglie di Gustav Mahler; e in seguito moglie anche di Walter Gropius e Franz Werfel; nonché “amica” intima di Arnold Schömberg e Alban Berg  ― con il giovane pittore emergente Oskar Kokoschka.
Della serie: te la dò anche, purché tu sia famoso o farai di tutto per diventarlo.
La curiosa coincidenza è stata che avevo appena cominciato a leggere questo libro quando mi è capitato di vedere un bel documentario della BBC strutturato in tre puntate, nel quale si parlava della Vienna del 1908, della Parigi del 1928 e della New York del 1951, e di ogni città se ne analizzava la storia in quel periodo e i personaggi più rilevanti. Molto interessante. A Vienna, insieme a Sigmund Freud, a Egon Schiele e al già nominato Schömberg, e oltre ad un Adolf Hitler del quale hanno fatto vedere alcuni dei disegni bocciatigli all’Accademia, nel 1908 cominciava a diventare famoso anche un certo  Oskar Kokoschka, che con tutte quelle kappa nel nome non avrebbe potuto essere altro che un pazzo furioso, come testimoniano i suoi quadri che per inciso non mi sono mai piaciuti.
E che anche a giudicare dal proseguo della sua infatuazione per l’ex amante tanto per la quale non era.
La focosa storia tra il pittore e la zoccol bella e interessante donna assume fin da subito toni melodrammatici (che Camilleri descrive ma non riesce a rendere reali) fino a che la relazione si sfalda e lui parte per la guerra. Una volta tornatone e non avendola dimenticata (intanto la zocc donna si era già risposata un altro paio di volte),  incarica un artigiano di costruirgli un simulacro che ne riproducesse le fattezze a dimensioni naturali con i grezzi materiali disponibili all’epoca (altro che le bambole gonfiabili di oggi!) e si intrattiene con esso come palliativo. Chissà quanto si sarà divertito. Poi uno si domanda perché dipingeva in quel modo.
Questa la vicenda narrata, in un tono freddo e impersonale e con le frequenti aggiunte di stralci dell’epistolario tra i due e altri brani di lettere di personaggi che erano a loro vicini, che a loro volta contribuiscono a rendere il libro arido e per niente piacevole. La vicenda sarà anche curiosa, ma appare come se avessero chiesto all’Andrea nazionale: ho questa storia, ma se la scrivo io non frega un cazzo a nessuno, perché non la firmi tu? Così almeno vendiamo qualcosina. Mi accorgo mentre sto scrivendo che questo è un discorso che ho già fatto e smetto subito. Tanto più che sto cominciando ad abituarmi alle delusioni.
Resta il fatto che sulla vicenda sono stati pubblicati anche altri libri, per lo più tesi ad osservare i fatti e la psicologia della zocc di Alma Mahler anche e soprattutto dal punto di vista della donna emancipata, libera e spedita che è stata.
Ed è appunto per ciò che questo libro un Andrea Camilleri se lo sarebbe potuto risparmiare.
Il Lettore 

sabato 10 dicembre 2016

Testimone inconsapevole

Ho scoperto che il primo romanzo di Gianrico Carofiglio è già entrato a far parte delle antologie scolastiche a meno di quindici anni dalla sua prima edizione. L’altro giorno ho sbirciato da dietro le spalle di mio figlio mentre stava studiando e ho notato che era impegnato nella lettura di un brano di questo libro; il giorno successivo, tornato da scuola, mi domanda se lo possedessimo, e alla mia risposta positiva mi chiede se avesse potuto prestarlo a una sua compagna di classe.
Orrore! Odio prestare i miei libri, e se c’è una cosa infinitamente peggiore del prestarli a un amico è il prestarli a una quindicenne sconosciuta. Prestito uguale scomparsa definitiva. Ma come fai a dirgli di no? Profondendomi in infinite raccomandazioni sulla speranza che tornasse indietro (probabilmente del tutto inutili) ho tirato giù il volumetto dallo scaffale, ma visto che ormai ce l’avevo in mano, e in una sorta di ultimo saluto prima di dirgli addio definitivamente, ho detto al pargolo che prima di darlo alla sua amica avrebbe dovuto aspettare almeno un giorno, e ho colto quell’ultima occasione per rileggermelo.




In questo suo primo romanzo Carofiglio ci fa fare conoscenza con il personaggio che lo ha portato al successo: un avvocato penalista già demotivato e farfallone che viene inaspettatamente piantato dalla moglie e cacciato da casa. Guido Guerrieri ne è distrutto, cade in depressione e comincia un difficile percorso per cercare di ricostruire la sua vita.
Ci riuscirà anche impegnandosi in tribunale a difendere un extracomunitario senegalese dall’accusa di aver assassinato un bambino, basando la sua strategia difensiva sulla differenza che esiste tra i concetti di “verità”  e “verosimiglianza”,
Carofiglio descrive tutte le fasi del dibattimento processuale nel corso di alcuni mesi intercalandole con gli accadimenti personali della vita di Guerrieri: dalla riscoperta dell’amore per il pugilato ai primi approcci con nuove figure femminili al risollevarsi dopo la caduta, e scrive il tutto con un garbo accattivante coadiuvato anche dalla narrazione in prima persona che consente una maggiore immedesimazione con il protagonista. Il romanzo è piacevole e, a differenza della maggior parte degli autori al loro esordio, il magistrato sa infondere interesse nel romanzo fin dal primo capitolo, sviluppandolo poi alternando serietà e dibattimenti processuali con tratti che alleggeriscono la narrazione. Poi, nei successivi romanzi con lo stesso protagonista, Carofiglio si perderà un poco cercando di allungare il brodo con qualche sciocchezza, ma in questo primo romanzo ancora non l’ha fatto.
Bene. Addio, Testimone inconsapevole, è stato piacevole leggerti e possederti per qualche anno. E poi, chissà mai che le raccomandazioni possano funzionare…
Il Lettore 

martedì 6 dicembre 2016

Il Cobra

Ormai lo sapete che Frederick Forsyth è uno dei miei autori preferiti, ma anche ai migliori qualche volta capita di toppare. Che ci volete fare, non si può restare sempre ai massimi livelli. Per quanto uno ci metta l’impegno, e in questo romanzo Forsyth ce ne ha messo parecchio, non sempre il risultato è all’altezza delle aspettative o delle intenzioni.




Di impegno l’inglese ce ne ha messo un mucchio, soprattutto per quanto riguarda la documentazione: sia nel campo delle innovazioni tecnologiche che in quello del mondo dei narcotrafficanti, nel campo delle armi e nello studio sui sistemi più adatti per stroncare una piaga diffusa come quella della cocaina. Peccato che per raggiungere il risultato abbia scopiazzato un po’ a destra e un po’ a sinistra, a partire da se stesso.
Il Presidente degli Stati Uniti decide di stroncare una volta per tutte il traffico di stupefacenti e con esso tutte le tragiche conseguenze che ne derivano, e per farlo si affida a un pensionato della CIA soprannominato Il Cobra per la sua capacità di colpire. Prima scopiazzatura: Paul Deveraux, alias il Cobra, è uno dei personaggi dell’altro romanzo di Forsyth Il Vendicatore nel quale, da alto funzionario della CIA, tenta di incastrare il protagonista Calvin Dexter prima che questi gli mandi a monte un’operazione segreta. Non ce la fa, Dexter riesce a fregarlo, l’operazione va a monte e Devereaux se ne va in pensione.
Ma viene richiamato in questo romanzo. Forsyth non è nuovo a exploit del genere: aveva già ripreso il protagonista del suo Il pugno di Dio, il maggiore Mike Martin, per dargli un ruolo sostanziale in L’afghano, e ora riprende Devereaux, affiancandogli nientedimeno che lo stesso Calvin Dexter (l’unico di cui il Cobra si fidi proprio per il fatto che è l’unico che è riuscito a fregarlo) per combattere la cocaina. Risolto il problema dei protagonisti.
E come risolvere quello del narcotraffico? Ma copiando Tom Clancy, naturalmente, che già gli aveva dato una bella mazzata in Pericolo imminente con lo stesso sistema di abbattere direttamente e senza alcun avvertimento gli aerei utilizzati dai trafficanti per trasportare la droga (perlomeno Clancy è stato più politicamente corretto e prima di farli fuori faceva loro intimare di atterrare e consegnarsi alle forze dell’ordine). In questo caso Forsyth allarga il tiro, facendo mitragliare gli aerei da un pilota sudafricano ben motivato e sequestrando e affondando direttamente le navi che trasportano la droga dall’America meridionale all’Africa dopo averne imprigionato gli equipaggi. Il tutto nel più completo segreto, coadiuvato dagli ultimi ritrovati della scienza come computer, droni e satelliti, un budget illimitato e la possibilità di operare al di fuori della legge e della morale.
La sparizione di numerosi carichi di cocaina provoca un terremoto nei vertici del Cartello colombiano che ne controlla il traffico e una vera e propria guerra tra questo e le bande criminali che ne sono i destinatari in tutto il mondo, e a questo punto… basta, non vi dico altro perché se continuassi andrei a intaccare la serie di colpi di scena finali e non ve lo meritereste.
Resta il fatto che il romanzo è comunque piacevole fino alla fine, ben costruito e ben scritto, da vero professionista come Forsyth è senza dubbio, ma nel complesso appare… “legnoso”, arido, quasi che l’autore abbia perso un mucchio di tempo per mettere insieme i fili della storia e giustificarne i vari passaggi non avendone poi più a disposizione per dargli il tocco di classe che condisce di solito i suoi romanzi.
Un romanzo più tecnico che intrigante, ecco.
Il Lettore 

martedì 29 novembre 2016

Harry Potter e la pietra filosofale

Per la serie “riletture” ho ripreso in mano questo piccolo capolavoro che ha dato la stura a uno dei fenomeni editoriali più rilevanti di tutti i tempi, se non il più importante in assoluto. Tradotti in ben 75 lingue, compresi latino e greco antico, questo romanzo e i suoi successivi compari hanno permesso a J. K. Rowling di guadagnare più di un miliardo di dollari e di fregiarsi di una quantità di onorificenze tale da poter trasformare il suo biglietto da visita nell’elenco telefonico di Bristol.
Ma forse non tutti sanno che, prima di essere pubblicato dalla Bloomsbury, questo romanzo aveva ricevuto ben tre rifiuti da altrettante case editrici, i cui responsabili si staranno ancora prendendo a schiaffi davanti allo specchio.
Questa è una di quelle cose a cui penso sempre quando boccio qualche nuova proposta.




Ricordo che lo lessi per la prima volta appena pubblicato, prima ancora che esplodesse il boom Harry Potter, e mi piacque allora così come l’ho riapprezzato adesso rileggendolo. Ovviamente non vi tedierò con la trama, dal momento che a 18 anni dalla prima pubblicazione e dopo 8 romanzi e 7 trasposizioni cinematografiche questa sarà ignota solo all’ultimo soldato giapponese rimasto abbandonato solo soletto a fare la guardia su un’isoletta del Pacifico.
Fatto sta che la Rowling ha fatto veramente un buon lavoro. Un romanzo per ragazzi buono anche per gli adulti,  che è anche un romanzo di formazione; l’invenzione di un intero mondo al di fuori della normalità ma facilmente comprensibile per un qualsiasi lettore, con tutti i punti di forza nei quali un lettore ama ritrovarsi con la fantasia; l’escalation di un bambino sottoposto a bullismo fino al ruolo di vero e proprio protagonista con tutte le gratificazioni che ne derivano; il tuffo nella magia e nell’arcano che ha da sempre rappresentato un lato importante nel pensiero umano.
E la Rowling ti ci fa trovare proprio dentro, facendo un uso sapiente dell’ellisse e del dare per scontato, mostrandoti le cose come del tutto reali: è del tutto normale che esista un binario 93/4 e che tu lo raggiunga passando attraverso un muro, è normale l’esistenza di draghi incazzerecci, centauri e unicorni, è normale che i personaggi si muovano nei quadri e che le scale si spostino quando ne hanno voglia, è normale che una scopa ti salti in mano a comando e tu possa cavalcarla quando ne hai voglia. E a chi non piacerebbe che ciò fosse del tutto reale?
Un romanzo veramente piacevole anche dopo una rilettura a distanza di anni, con anticipazioni e risoluzioni ben ritmate che permettono di tenere l’interesse sempre ben sveglio e con sporadiche considerazioni sul senso della vita e della morte: “In fin dei conti, per una mente ben organizzata, la morte non è che una nuova, grande avventura”.
Ecco, ora affermerò una cosa che mi trascinerà addosso le ire di tutti gli adoratori fanatici della saga di Harry Potter, trasformandomi in bersaglio per incantesimi letali.
Se la Rowling si fosse fermata dopo questo primo romanzo, letterariamente parlando non avrebbe fatto nulla di male. Tutti gli altri che ne sono derivati (e li ho letti tutti) secondo me non hanno apportato nulla di sostanzialmente significativo a questa prima vicenda. Brodo allungato con acqua di rubinetto. Nel corso degli anni ogni nuova uscita mi ha annoiato terribilmente (così come i film, sempre più tetri e cupi) e di ciò che è successo dopo nella vicenda complessiva ricordo poco più che niente.
Ma intanto questo Harry Potter e la pietra filosofale ha innescato un processo che è andato avanti a valanga: la saga che ha stracciato ogni record di vendita (fino a 15 milioni di copie vendute in un solo giorno), che ha incassato più di ogni altra nella storia dell’editoria e del cinema, che ha riportato in auge il genere fantasy, con una miriade di scopiazzatori che si sono dati da fare anelando lo stesso successo dell’inglese.
E tutto per merito di un maghetto undicenne sfigato e  insignificante.
Niente da dire, proprio brava.
Il Lettore 

giovedì 24 novembre 2016

Rileggere per salvarsi

Avrete notato come il ritmo di questi post ultimamente sia rallentato.
Non è perché io non legga più, ma questo è un momento in cui si ha bisogno di certezze come poche volte è successo in precedenza.




Non è solo il propendere per un SI o per un NO, che su quello non ho dubbio alcuno, è che guardandoti intorno e ascoltando gente che parla ti accorgi come di persone che aprono bocca e danno fiato al giorno d’oggi ce ne siano un’infinità, ma in realtà quelle che sanno di che cosa stanno parlando e a cui credere sono veramente poche e difficilmente individuabili.
Basta fare un giretto su Faccialibro per rendersene conto. Ad un’occhiata superficiale sembra vero tutto e il contrario di tutto, qualsiasi affermazione appare sacrosanta, e guai ad inserire un commento perché qualsiasi cosa tu dica trovi qualcuno che come minimo non è d’accordo e di norma sarebbe disposto a utilizzare il tuo intestino come budello per le salsicce. E il bello è che per farlo porterebbe anche ragioni a prima vista valide.
A chi credere? Come scartare la pula? Come e dove trovare le ragioni oggettive di un determinato fatto?
Dove sono finite quelle belle certezze che c’erano una volta? La certezza della pena, per esempio. La certezza di un lavoro, la certezza dell’onestà di un politico, la certezza di un’aleatoria equità, la certezza che se pubblicizzano un libro deve essere buono per forza.
Non ci sono più. Si sono volatilizzate lasciandoci in mano a chiunque abbia voglia di dare fiato senza sapere nemmeno minimamente di cosa stia parlando o, peggio, che intenda trascinarti dalla sua parte per scopi che sono noti solo alle sue intenzioni di lucro.
E allora è meglio fermarsi, piuttosto che continuare ad alimentare un baratro di incoerenza e pressappochismo, piuttosto che lasciarsi invischiare nella superficialità dilagante alimentata dai media per la soddisfazione di una massa imbarbarita a dovere.
Dove trovare le certezze di cui hai bisogno?
Ma nei libri già letti, ovvio.
Quelli che ti hanno soddisfatto, che ti hanno fatto sentire bene una volta terminati, quelli che avresti voluto scriverli tu, quelli che ti hanno fatto nascere delle emozioni, quelli di cui hai goduto ogni passaggio.
Quelli sì, che sono una certezza: sai che è già successo e risuccederà ancora quando lo riprenderai in mano, te lo gusterai senza sorprese ma anzi, con la certezza immarcescibile che vi ritroverai intatte le sensazioni già provate, quelle di cui hai bisogno in un’epoca il cui unico punto fermo è la transitorietà.
Lo Scrittore

giovedì 17 novembre 2016

Come assassinare un romanzo

Sottotitolo: pur presentandolo bene.
Per fortuna in questi ultimi tempi nella redazione della casa editrice con cui collaboro arriva pochissima roba(ccia) da valutare. Sarà merito dell’invito in grassetto a non spedire nulla perché non è il momento? Di sicuro da molti è stato recepito, ma c’è sempre qualcuno che degli inviti non tiene conto quasi fossero fatti solo per tutti gli altri ad eccezione del sottoscritto. Ma come? Ho scritto un capolavoro e tu non vuoi nemmeno leggerlo? Ma che modo di fare è? Non si fa così, io te lo mando lo stesso, poi vedrai se non avevo ragione.
E dal momento che l’esimio editore sa perfettamente che la percentuale di materiale decente che arriva rimane sempre la stessa (lo 0.5%, malgrado le convinzioni personali degli autori ― vale a dire uno su duecento), l’altro giorno mi ha sbolognato l’ultimo romanzo arrivatogli. Della serie: meglio che le porcate le leggi tu, almeno io non inquino la mia mente preziosa.




In effetti era sì una schifezza, ma perlomeno era presentato benissimo! Il pacco (metaforico) era costituito da tre files: romanzo, sinossi e note biobibliografiche dell’autore.
Cominciamo a leggere le note. Scopro così che lo scrittore è un professore di letteratura alle superiori. Almeno non ci saranno errori d’ortografia, penso, facendomi forte dell’esperienza pregressa: i professori di letteratura non sanno scrivere, ma perlomeno di errori non ne fanno… qualche volta. Ha già pubblicato tre o quattro sillogi di poesia, un paio di romanzi e un paio di saggi. Male, malissimo, penso, non promette per niente bene. Poi penso anche che in effetti un professore di letteratura che scrive poesie decenti lo conosco anche personalmente, e allora decido di non lasciarmi influenzare. Almeno per il momento.
Apro il file della sinossi. E mi cascano le palle (per l’ennesima volta). Santiddio, ma per quale funambolico motivo devi ambientare il tuo romanzo a New York se sei di… non ve lo posso dire ma fidatevi, è italianissimo. Magari nella Grande Mela ci sarai anche stato, ma visto che la trama che proponi è trita e ritrita perché non l’hai ambientata a Roma? O a Perugia? E con personaggi italiani e non americani? Trama? Solamente mezza, perché nella sinossi ne è riportato il riassunto solo fino a metà romanzo, dopodiché consiglia al sottoscritto di leggere il romanzo per sapere come va a finire. Doppio giramento di palle; scrivendo così ha raggiunto esattamente lo scopo contrario a quello che si era prefisso, cioè di incuriosire il Valutatore. Con me questi trucchetti di bassa lega non funzionano, anzi, mi indispongono proprio.
E così mi sono accinto alla lettura del romanzo da indisposto, la condizione d’animo peggiore per poter confidare nella benevolenza di chi sta per giudicare la tua opera.
Apro il file del romanzo e scopro un’impaginazione perfetta, da libro stampato, leggibilissimo senza alcuna difficoltà: il carattere è un semplice Times New Roman in corpo 14, con la giusta  spaziatura tra le righe e i giusti margini. Vedi che l’aver già pubblicato gli è servito, penso. Le pagine sono numerate e già dalle prime righe mi accorgo che mancano del tutto errori e refusi. L’ha anche riletto, sempre merito dell’aver già pubblicato. E non scordiamoci che è un professore di letteratura… Forse l’unico appunto potrebbe essere la presenza di un po’ troppi punti esclamativi ― almeno 12 nelle prime due pagine ― ma riserviamoci di giudicare. Per ora.
Come si diceva: perfetto.
Ma.
Ho retto poche pagine: una trattazione senza errori ma noiosissima, ma di più, con un narratore onnisciente che già nel primo capitolo ti sviscera vita, morte, miracoli, pensieri, turbamenti, speranze, emozioni, passato, presente e futuro e aspirazioni di un tizio del quale ti scordi ben presto anche il nome (tanto è americano), e poi continua nei successivi fornendoti informazioni su amici e parenti del tizio, e su come l’ha cresciuto la madre e su cosa pensano di lui le ragazze eccetera senza che succeda assolutamente nulla. Una mole infinita di informazioni del tutto inutile per inquadrare una persona, che non ti fa venire nemmeno un briciolo di curiosità per il proseguire e ti induce solo a chiudere il computer e andare a passeggiare per boschi. Ma subito, perché adesso fa buio presto.
Un’ennesima conferma: i professori di lettere non necessariamente sanno anche scrivere.
Il Valutatore

mercoledì 9 novembre 2016

Requiescat in pace


Stasera andrà in onda uno sceneggiato tratto da una serie di libri meno che mediocre.
Stanno pubblicizzando film tratti da romanzi meno che mediocri.
La massa sguazza nella mediocrità.
In Italia stanno tentando di legalizzare la dittatura in atto.
Trump alla Casa Bianca.
L’intelligenza è morta.
Sono definitivamente morti il buon senso e il buon gusto.
Ma di che cosa vogliamo ancora parlare?
Lo Scrittore

giovedì 3 novembre 2016

Io sono leggenda

Dopo la valanga di romanzi e film sui vampiri che ha ammorbato il pubblico in questi ultimi decenni, peraltro per la maggior parte di pessima qualità, può sembrare anacronistico riproporvi un romanzo sullo stesso tema pubblicato più di sessant’anni fa, del quale si è parlato a lungo e che ha dato lo spunto per la realizzazione di almeno tre film l’ultimo dei quali (quello con Will Smith; in cui, incidentalmente, il senso finale del romanzo viene del tutto ribaltato) è stato un record di incassi al botteghino.
Il fatto è che, pur conoscendo già Richard Matheson soprattutto per i suoi racconti, Io sono leggenda non l’avevo ancora letto anche se si trovava già in casa, e questo perché in genere io rifuggo le tematiche angoscianti e orrorifiche.
Come le montagne russe: non mi riesce di capire perché  per stare male ci paghi pure sopra.




Ma conoscendo già l’autore ho voluto finalmente togliermi questo sfizio andando contro i miei princìpi di salvaguardia mentale. Richard Matheson è stato un grandissimo scrittore e sceneggiatore, difficile da collocare come genere, autore di racconti fenomenali, di capolavori come questo romanzo o di film eccezionali come Duel, che ha fatto conoscere al mondo un giovane regista venticinquenne di nome Steven Spielberg. Così come in quest’ultimo film praticamente non ci sono dialoghi (e dell’antagonista si vedono di sfuggita solo gli stivali), Matheson può essere considerato un maestro nell’uso soprattutto dell’elisione ancora più che dell’ellissi: si dice addirittura che quando gli fu proposto di stendere la sceneggiatura del celeberrimo Gli uccelli (incarico poi affidato a Evan Hunter, alias Ed McBain), lui avesse proposto ad Alfred Hitchcock di non far apparire nel film nessun uccello.
Dopo un’epidemia causata da un tipo di germe che ha contagiato tutto il genere umano trasformando ciascuno in un vampiro, Robert Neville è rimasto l’unico uomo “sano” al mondo. Ha visto morire moglie e figlia e passa il suo tempo cercando di difendersi dal resto della ”vampiritudine” che lo circonda e che ogni notte tenta di bere il suo sangue, cercando nel contempo di capire le spiegazioni scientifiche del fenomeno e di trovare un’eventuale soluzione ad esso. I suoi rivali sono rappresentati secondo l’iconografia classica del vampiro: rifuggono specchi, aglio e luce del sole, e l’unico modo per ucciderli è piantare loro un paletto di legno nel cuore o dintorni.
Ma è solo contro tutti, e tutte le sue speranze vengono sistematicamente distrutte fino a che non gli resta altro che arrendersi al destino: lui non fa più parte della “normalità”, è lui l’elemento aberrante in un mondo diverso, ormai lui non è altro che una leggenda in un mondo che è mutato irreversibilmente.
Il tempo aveva perso la sua qualità pluridimensionale. Per Robert Neville esisteva soltanto il presente; un presente basato sulla sopravvivenza quotidiana, scandito dall'assenza di picchi di gioia o abissi di disperazione. Sono a un passo dallo stato vegetale, pensava spesso.
Ed è questo che permea tutto il libro di un’angoscia continua: la battaglia persa in partenza ma protratta ad oltranza, l’ineluttabilità del destino nonostante gli sforzi fatti dal singolo, la rassegnazione finale impossibile da accettare.
Leggi, e stai in un continuo stato di tensione per la tragedia sempre in procinto di accadere; sai che deve rientrare nella casa protetta prima che faccia notte per non essere sorpreso fuori dal buio e l’angoscia raggiunge un picco quando l’autore ti dice che il suo orologio si è fermato; vivi con lui l’ansia dell’ignorare se gli altri esseri che incontra man mano siano o no contagiati dalla malattia; cadi con lui nella disperazione nell’accettare la rassegnazione della fine.
Il tutto narrato con quello stile che è stato preso a esempio da molti altri scrittori, a partire da Stephen King, uno stile pragmatico, scarno, senza nessun volo pindarico autoriale, quasi senza alcun abbellimento, con cambiamenti improvvisi della situazione e risoluzioni inaspettate. Da studiare in ogni passaggio per imparare qualcosa in più sul come si deve scrivere.
Un vero e proprio capolavoro. Nonostante il tema vampiresco e le contrazioni allo stomaco sono contento di averlo finalmente letto.
Il Lettore 

lunedì 31 ottobre 2016

Bianco

Avevo preso in prestito questo Bianco insieme ad Atti osceni in luogo privato e, visto che avevo apprezzato il secondo, ho cominciato subito a leggere quest’altro romanzo di Marco Missiroli nonostante di solito abbia un po’ di remore nel farmi di fila due romanzi dello stesso autore.
E nel caso di questo libro già dalle prime pagine un certo sentore aveva cominciato a invadere le mie cellule olfattive, come dire, una sensazione strana, più che un dubbio, un vero e proprio sospetto, qualcosa come… puzza di bruciato, ecco.
Allora, prima ancora di finirlo, sono subito andato a vedere in rete che cosa gli altri avessero pensato di questo romanzo, e ho scoperto che la maggior parte di coloro che lo avevano letto ne erano rimasti come minimo affascinati: meraviglioso, sensazionale, fenomenale, magnifico sono solo alcuni degli aggettivi che gli altri hanno usato per giudicarlo.
Lì per lì ho abbozzato (ma come, la puzza la sento solo io?) e ho continuato a leggere fino a terminarlo, e alla fine… ma andiamo con ordine.




Si vede proprio che alla Holden piace andare contro i dettami classici delle scuole di scrittura creativa: tu insegni a un principiante il concetto di contestualizzazione e di quanto questa sia importante, poi alla lezione successiva il principiante ti porta questo libro insieme a La sposa giovane di Baricco, te li tira in faccia e ti apostrofa: “Ma tu che cazzo dici?”.
E tu dagli a spiegare che delle regole per scrivere bene è vero tutto e il contrario di tutto, e che anche il non contestualizzare può funzionare benissimo, a patto però che tu sia già bravo del tuo. E come minimo devi aver fatto un corso di livello superiore. Possibilmente alla Holden.
Come nel romanzo di Baricco, anche in questo non si sa dove si svolge l’azione né la collocazione temporale, il che all’inizio ti lascia un po’ spaesato, ma ti ci abitui presto e lo apprezzi anche, solo che poi cominci a notare la presenza anche di altri concetti venuti fuori pari pari dai corsi di una scuola di scrittura creativa, e quando questi cominciano a essere parecchi ti domandi se all’autore sia venuto spontaneo applicarli o se abbia solo voluto prenderti per il culo.
Moses Carpenter è un anziano vedovo che vive da solo alla periferia di una città del Sud degli Stati Uniti. Un bel giorno nella villa sfitta accanto alla sua arrivano i nuovi occupanti: una famiglia mista con lei bianca e lui nero (negro), figlioletto nero e madre del marito pure. Il problema è che il vecchio (bianco), e tutta la sua comunità di conoscenti sono dei razzisti convinti e attivisti da sempre, fanno parte di un qualcosa di simile al Ku Klux Klan e i negri vicino a casa loro non ce li vogliono proprio e anzi, di solito fanno di tutto per ammazzarli.
E già qui… una tematica basata sul razzismo e sul KKK scritta da un italiano non ce la vedo proprio. Se Missiroli avesse cambiato sesso e si fosse chiamato Harper Lee sarei stato zitto, ma un tema del genere non fa parte della nostra tradizione e mi è sembrato tanto strano che uno scrittore italiano e giovane se ne sia occupato, a meno che…
A meno che non sia una buona occasione per mostrare uno sfoggio di bravura
Ma sì, dai, facciamo vedere che i concetti studiati alla Holden sono stati recepiti!
Decontestualizziamo, non diciamo dove e quando si svolge l’azione, tanto chissenefrega, la storia si capisce lo stesso e fa tanto fico. E già che ci siamo schiaffiamoci dentro un altro po’ di trucchi letterari che qualcuno lo infinocchio di sicuro!
Un animale, ci vuole un animale a fianco del protagonista, ma un cane o un gatto sono troppo ingombranti per un vecchio: un canarino! Ma sì, il canarino William che svolazza libero per casa e becca le briciole dai piatti. È tanto dolce!
E il bambino rompicoglioni ma che fa (dovrebbe fare) tanta tenerezza lo vogliamo escludere?
E la vecchia negra malata terminale che rinfocola i ricordi della moglie morta anch’essa di cancro? Smuove tanto le budella…
Mettiamoci anche i tormenti del protagonista perché in vita sua è sempre stato angosciato dal suo dover essere per forza razzista (retaggio del padre in realtà mai assimilato, così facciamo vedere anche il pentimento) ed esprimiamo il tutto attraverso una serie di flashback per spezzare la continuità monotona del racconto.
Infiliamoci anche un po’ di stereotipi come personaggi accessori, gli amici del vecchio vanno benissimo, e in quanto a stile? Ma sì, enfatizziamo, enfatizziamo, e tanto per scopiazzare Baricco ogni tanto cambiamo l’io narrante anche all’interno dello stesso periodo. È tutto? Ah, già, la donna bianca deve essere bella, che smuove pulsioni ormai sepolte, così fa più ribrezzo vederla manipolata dalle mani schifose del negro.
E la tragedia finale la vogliamo far mancare? Fa tanta commozione…
Basta, non scendo nei trucchi più piccoli adoperati nella costruzione delle frasi e nella ricerca della terminologia.
Fatto sta che dopo aver notato i primi di questi trucchi il patto di sospensione dell’incredulità che avevo intenzione di stipulare con l’autore è andato subito a farsi benedire, e pur riconoscendo la professionalità di quest’ultimo e la bravura con cui ha confezionato il pacco, dalla ricerca delle parole al loro metterle insieme, il romanzo non mi ha preso per niente e l’ho terminato a fatica pure con un senso di fastidio.
In un romanzo l’autore non deve farsi notare. Non lo devi sentire, non devi pensare a lui, non ti deve venire mai nemmeno in mente. Quando invece vuole per forza farti vedere quant’è bravo allora sì, che decade nella tua considerazione, per quanto sia in gamba. E farlo risalire la vedo molto dura.
Qualche volta vorrei davvero avere un animo candido, incapace di notare molte cose. Mi divertirei molto di più.
Il Lettore 

venerdì 28 ottobre 2016

Azione e reazione

Ho ritrovato questo racconto pubblicato in formato epub tra i files archiviati nel mio telefono e devo ammettere che mi ero del tutto scordato della sua esistenza. Tant’è vero che sono rimasto deluso nello scoprire che era solo un racconto, pensavo fosse qualcosa di più sostanzioso, ed ero anche stupito perché mi era sfuggita la notizia della pubblicazione di un altro romanzo di Marco Malvaldi.
Poi, cercandone in rete la copertina da mostrarvi in formato elettronico, ho scoperto che Azione e reazione era stato pubblicato insieme ad altre storie nel 2013 all’interno della raccolta Ferragosto in giallo.
Ciò non è che fosse una garanzia, ma già che c’ero l’ho letto lo stesso.




Ci si accorge subito infatti che è un racconto datato, in quanto i personaggi seriali sono i soliti vecchietti del Bar Lume ma il commissario di polizia è quello apparso nei primi romanzi di Malvaldi e non la donna che in seguito gli subentra e che finirà con l’intrecciare un rapporto con il barrista Massimo.
Un racconto di una settantina di pagine elettroniche, come al solito colmo della simpatia con la quale Malvaldi ama rivestire i suoi personaggi ma in definitiva con la stessa qualità intrinseca delle raccolte estive (e invernali) di Sellerio: robbetta.
Nonostante il nome altisonante degli autori.
Per quanto riguarda il plot del racconto infatti, nei trafiletti pubblicitari si può leggere: “una soluzione inaspettata e particolarmente originale”, se non fosse che la stessa “soluzione inaspettata e originale” è stata utilizzata minimo 27.459 volte in altri romanzi gialli. Una più una meno. E dicono anche che solo Malvaldi la poteva ideare, visto che è un chimico. Allora mi viene in mente che gli altri scrittori che hanno utilizzato la stessa soluzione prima di lui, a partire da John Dickson Carr per finire con Ian Fleming, non essendo loro chimici di formazione sono stati ancora più bravi.
Un ricco turista russo, antipatico e prepotente, viene assassinato per avvelenamento in un albergo di Pineta. Nello suo stomaco però non vengono trovate tracce di prodotti tossici. Come avranno fatto ad avvelenarlo? Chi sarà l’assassino?
Alla prima domanda non è necessario prendere una laurea in chimica per essere in grado di rispondere, e anche per la seconda, visto che tra i personaggi non c’è un maggiordomo ma una moglie sì, non è che si debba proprio essere delle aquile.
Di piacevole lettura, ma sempre robetta resta. Da spiaggia, appunto.
Il Lettore 

martedì 25 ottobre 2016

Atti osceni in luogo privato

Con questo post mi auguro di dare un po’ di soddisfazione a coloro che mi criticano di non dare abbastanza risalto a libri dal contenuto erotico.
In realtà, pur avendolo sentito nominare e proprio pensando, come molti, che Atti osceni in luogo privato appartenesse alla schiera di romanzi erotici, non mi era venuta alcuna voglia particolare di documentarmi fino a quando un’amica, una delle poche il cui giudizio è da tenere in considerazione, mi ha chiesto di leggerlo per sapere cosa ne pensassi io.




In effetti nel romanzo di Marco Missiroli, che ha vinto il Premio Mondello 2015 e ha ottenuto anche altri riconoscimenti, c’è anche parecchio sesso, attraverso il quale l’autore racconta in prima persona il processo di formazione del protagonista Libero Mansell dall’inizio della sua adolescenza fino a quando diventerà padre.
Un sesso fatto dapprima di onanismo forsennato a partire dall’episodio scioccante in cui al dodicenne Libero capita di vedere la propria madre intenta nell’elargire un servizietto orale a colui che all’epoca era solo un amante e che poi diventerà un personaggio importante del romanzo, e in seguito costituito dai primi timidi tentativi di approccio con l’altra metà del cielo attraverso i quali passano tutti gli adolescenti per poi passare ai rapporti veri e propri con sconfinamenti nelle perversioni. Ma parlando del suo modo di approcciarsi al sesso Missiroli racconta il diventare adulto del giovane Libero insieme ai suoi rapporti con tutte le persone che gli stanno intorno, dai genitori alle donne agli amici ai mentori, e ognuno di essi è tratteggiato dall’autore con precisione e consistenza.
Oltre che dal protagonista il romanzo è costituito anche da molti gregari dallo spessore ben definito, a partire dalla madre stessa che nonostante il tradimento iniziale finisce con il mostrare una dignità sopra le righe e un animo pieno di amore; dal padre che acquista sempre più rilevanza con il procedere del romanzo nonostante muoia presto e via via anche da molti altri descritti con cura.
Un romanzo che è riuscito anche a commuovermi nelle scene della morte e del ricordo del padre stesso o quando la folla di persone si raduna al Café Deux Magots dopo aver saputo della morte di Jean-Paul Sartre, il personaggio forse più importante che a Libero capita di conoscere nel bar che il padre era solito frequentare.
Perché al romanzo fanno da corollario una schiera di autori e di romanzi che accompagnano l’adolescente nel suo trasferimento verso l’età adulta: da Lo Straniero di Albert Camus a Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati; William Faulkner, Raymond Carver, tutti scrittori che Missiroli ti fa venire voglia di leggere se non l’hai già fatto, e ogni opera viene allacciata a un momento e a uno stato d’animo particolari del viaggio del ragazzo.
Dicevo quindi che nel libro il sesso c’è, ma non è questo la cosa importante: si capisce ben presto che l’atmosfera non è quella di un romanzo erotico; leggendo sei preso subito dai “normali” accadimenti di una vita in evoluzione e, anche se proseguendo non ci sono colpi di scena sensazionali, sia lo stile che la ricercatezza con cui Missiroli ha costruito parole e periodi ― si sente, che ha bazzicato la Holden… ― ti fanno apprezzare il romanzo fino in fondo.
Lasciandoti con la voglia di leggere quelli tra i romanzi citati che ancora non ti sono passati per le mani.
Il Lettore 

domenica 23 ottobre 2016

Lo Squizzalibro di domenica 23 ottobre 2016

Allora, chi di voi farà parte dell’orda di fessacchiotti che calerà qui in città a comprare un pezzo di cioccolata al triplo del prezzo del negozio sotto casa vostra? Oggi ci sarà il clou di Eurochocolate, volete perdervelo? Spero per voi di sì, ma se invece non state nella pelle nell’attesa di sciropparvi qualche ora di auto, treno o pullman per poi ficcarvi in mezzo a un marasma di gente e fare code su code per aggiudicarvi un cioccolatino che neanche fosse oro per il guadagno di una sola persona, fate pure: non mi ci troverete.
Ho partecipato a una sola sessione di Eurochocolate, una delle prime, molti anni fa, giusto per vedere com’era e perché essendo la manifestazione all’inizio c’era un po’ di curiosità e ancora non ci si era resi conto bene della realtà delle cose.
Mai più.
I miei occhi hanno visto cose inenarrabili.
Fiumane di gente infinitamente meno civile dei tori alla fiera di Pamplona; orde di mamme impazzite per tenere a bada figli famelici più del lupo di Cappuccetto Rosso; bambini sanguinanti strattonati, urtati, allontanati dai genitori, spinti, calpestati da distinti signori in giacca e cravatta con lo scopo di rubare loro il pezzetto polveroso di cioccolato che avevano appena raccolto in terra; mature signore dallo sguardo spiritato e i foulard distesi a sacco,  retti a due mani davanti al seno e colmi di un’accozzaglia di roba marrone; vecchietti con la bava alla bocca e gli ombrelli aperti, sottosopra, agitati di qua e di là per catturare al volo le schegge schizzate via dagli scalpelli degli scultori all’opera su immensi blocchi marrone scuro ― cioccolata, forse… ― con le stecche degli ombrelli infilate negli occhi o fra le trecce di bambine singhiozzanti. Non una folla di umani ma una torma di bestie, nella peggior accezione di questo termine.
Non crediate che io abbia esagerato, tutto visto con i miei occhi, per un pezzo di simil-cioccolata gratis molti dei presenti avrebbero ucciso la propria madre.
Mai più.
Che poi tra Eurochocolate, i Baracconi, le partite del Perugia e della SIR, il mercatino del sabato, la Fiera dei Morti, le buche per le strade e le gallerie chiuse (prendesse un colpo secco a tutti i dirigenti dell’ANAS dal primo all’ultimo, nessuno escluso), questa città che amo tanto è diventata invivibile. Da addormentarsi per San Francesco e risvegliarsi come minimo a metà novembre. Prendesse un colpo anche ai dirigenti e ai politici del Comune va, già che ci siamo.
Va be’, perdonatemi lo sfogo asociale e passiamo all’appuntamento domenicale. Il libro che vi propongo di indovinare oggi…




1 – È un romanzo, pubblicato l’anno scorso e subito vincitore di un premio letterario. Ovvio che non vi dico quale altrimenti sarebbe troppo facile.
2 – L’autore, uomo, è italiano e giovane, visto che ha solo una trentacinquina d’anni
3 – La cosa rimarchevole è che tutti i cinque romanzi che ha pubblicato finora hanno vinto dei premi letterari.
4 – Dopo lungo ponderarci sopra ho stabilito che il tema del romanzo in ballo secondo me appartiene al genere dei romanzi di formazione, anche se…
5 – …dal titolo potrebbe sembrare che il contenuto sia molto più stuzzicante
Buona domenica! Non mangiate troppo, mi raccomando, e senza che veniate a Perugia se proprio volete un pezzo di cioccolata buona prendetevi una tavoletta di vera Luisa al negozio sotto casa.
Freereader

giovedì 20 ottobre 2016

Non è stagione

Tornando da un pranzo a casa del mio editore preferito mi sono portato via tre volumi della sua libreria che mi avevano incuriosito e ho cominciato a leggere questo Non è stagione pur non essendo il primo della saga del Vicequestore Rocco Schiavone. Ma di questo personaggio di Antonio Manzini ne avevo sentito parlare non fosse altro perché tra breve dovrebbero mandare in onda lo sceneggiato televisivo che ne hanno tratto e che con tutta probabilità non guarderò, ma uno deve tenersi aggiornato, no? Che cosa potrei rispondere altrimenti a chi mi domandasse che cosa ne penso?
Adesso potrei dire loro che appena iniziato il romanzo avrei già voluto scaraventarlo dalla finestra, e non l’ho fatto solo perché primo il libro non è mio, e secondo perché abitando a piano terra non si sarebbe fatto abbastanza male.




Non si può mettere una castroneria già alla seconda pagina e pretendere che passi inosservata, vi pare? “Il motore sbiellato e la marmitta bucata suonavano come ferraglie lasciate cadere da una rampa di scale.” I due personaggi con cui inizia il romanzo stanno viaggiando su un furgone che a quanto pare ha dei problemi meccanici, e passi la marmitta bucata, ma se un motore è sbiellato la macchina non cammina proprio; lo dice la parola stessa: sbiellato = con le bielle rotte, e in queste condizioni un motore non gira, fine dei giochi, kaputt, non è che si limita a sferragliare continuando ad andare avanti. A me questa leggerezza nell’usare la terminologia fa talmente girare le palle che ci potrei far decollare un elicottero, ma quando l’ho fatto notare alla mia adorabile mogliettina lei mi ha subito tacciato di eccessiva pignoleria, e ti pareva, così ho proseguito nella lettura per soffocare l’istinto di lanciare lei, dalla finestra, che tanto anche lei non si sarebbe fatta molto male.
Che poi alla fine il romanzo è anche leggibile, a non voler essere pignoli, ma pure nel seguito è colmo di imprecisioni di questo genere e di tratti che, se a definirli confusi poi divento pedante, non sono raccontati con sufficiente chiarezza.
A partire dal protagonista, stereotipo assoluto, poliziotto bravo (ovviamente) ma (ovviamente) con grossi problemi personali e passato misterioso, che l’autore fa di tutto per far vedere quant’è antipatico e scostante con lo scopo in realtà di rendertelo simpatico, e alla fine è riuscito benissimo a farmelo diventare antipatico e scostante. E pure deficiente. Come lo definireste voi uno che continua a indossare esclusivamente scarpe Clarks e ogni volta che piovono due gocce le deve buttare via perché si infradiciano? Questa non è una gag ricorrente, è una dimostrazione di idiozia pura. Sei ad Aosta, cazzo, non nel deserto di Atacama, un paio di scarponcini da montagna no? E lasciamo perdere le scopiazzature caratteriali prese direttamente da Salvo Montalbano, perché allora saremmo costretti a parlare anche di ulteriori scopiazzature, cominciando dagli altri poliziotti cretini in pieno stile Catarella per finire con le visioni di persone morte in pieno stile Ricciardi. E poi a me quelli che scroccano le sigarette a getto continuo stanno sui coglioni per definizione.
Ma la vicenda può anche incuriosire, e dal momento che volevo vedere che fine facesse la ragazza rapita sulla quale Schiavone è chiamato a investigare ho proseguito nella lettura, aggirando i luoghi comuni, scansando le incongruenze e fischiettando facendo finta di non vedere sui passaggi non tanto plausibili pur di arrivare alla fine.
Conclusione? Il romanzo si lascia anche leggere, ma lo stile di Antonio Manzini non mi è piaciuto proprio: la superficialità e l’imprecisione la fanno da padrone, e visto il numero di persone che parlano straordinariamente bene di questo libro questa è un’ennesima conferma alla constatazione che il 90% delle persone si lascia abbindolare con poco e quindi per avere successo bisogna scrivere stronzate. Non mi è piaciuto come si è risolta la faccenda, non mi è piaciuto l’inserimento della tragica vicenda finale e non mi è piaciuto il fatto che dopo aver tartassato in continuazione il lettore con stralci del rapimento visto dagli occhi della ragazza sequestrata quest’ultima scompare dalla scena e non se ne sa più nulla.
Non credo che leggerò altre avventure del Dott. Schiavone, né tantomeno guarderò la serie televisiva: Clarks? Mai messe, io sono uno di quelli che portano gli scarponcini da ottobre a maggio.
E tanto per continuare a essere pignolo, a pagina 162 c’è un altro furgone in viaggio (che quello dell’inizio ormai è dal rottamatore) nel quale il passeggero “…sentì il furgone acquistare velocità. Sempre di più, sempre di più. Scalava di marcia e correva sempre di più." Avete notato? È diventato un difetto cronico.
Nel dizionario della lingua italiana il verbo “scalare” ha tanti significati, tra i quali un’accezione per “diminuire, ridurre”. Soprattutto poi nel gergo automobilistico lo “scalare” è il decrementare le marce per consentire di alzare il numero di giri o per attivare il freno motore. Non si “scala” di marcia quando già stai aumentando la velocità, casomai innesti la marcia superiore. Tanto per continuare a essere pignoli.
O Manzini oltre all’ignorare cosa sia un vocabolario non saprà nemmeno guidare l’automobile?
Il Lettore