giovedì 30 novembre 2017

Libri da ardere

Un’altra delusione: doppia, perché avevo sentito dire dal mio editor che questo romanzo le era piaciuto molto (testuale: “ma come le verranno in mente queste idee?”), e già nello scoprire che in realtà non è un romanzo c’ero rimasto male, e poi perché sono restato con l’interrogativo di come, conoscendo i suoi gusti, sia potuto piacere a lei. Per me, ha letto qualcos’altro e ha confuso i titoli, ma sshhhh!, che resti tra noi…
Il fatto è che non è nemmeno un romanzo, ma è scritto con il taglio della pièce teatrale, e può anche darsi che sia stato rappresentato su qualche palcoscenico, ma non ho trovato notizie in merito.




Fatto sta che a me non è piaciuto e l’ho trovato alquanto inconsistente e noioso. Più che altro un esercizio (masturbazione) intellettuale nel quale Amélie Nothomb si è potuta sfogare in colti dialoghi incentrati sul valore della letteratura e sui sentimenti. Dalla Nothomb non me lo sarei aspettato. E qui concordo con lo stupore della mia editor.
I protagonisti sono tre umani e una stufa.
Nel corso di una guerra non ben specificata (forse l’ultima guerra mondiale?), un Professore di letteratura, uno Studente e la sua Ragazza si trovano a soffrire il freddo nell’appartamento del Professore. Avendo esaurito tutti i tipi di combustibile a loro disposizione sono costretti a bruciare i libri per scaldarsi, mentre al di fuori i cecchini non aspettano altro che qualcuno esca a fare una passeggiatina per poter fare un po’ di tiro al bersaglio.
L’opera è costituita essenzialmente dai dialoghi fra le tre persone. Dapprima incentrati sui rapporti interpersonali, con il Professore che seduce la Ragazza e quindi le conseguenti, infinite recriminazioni della stessa e dello Studente cornificato, senza tralasciare gli approfondimenti psicologici di tutti i vari aspetti della questione, poi si passa al soggetto: quali libri bruciare?, e da qui diventa preponderante il tema del perché un autore sia più meritevole di un altro.
Fatto sta che (ovviamente) i tre non giungono ad alcuna soluzione soddisfacente e alla fine decidono che non ne vale proprio la pena di continuare a vivere e si danno in pasto ai cecchini.
Bene. Era ora. Con le loro chiacchiere sterili mi avevano veramente rotto le palle.
Il Lettore perplesso

lunedì 27 novembre 2017

Drive-in — La trilogia

Trilogia significa tre romanzi: questo per dire che per leggerli tutti e tre ci ho impiegato un po’ più di una settimana. Ed è stata una vera faticaccia, ma non perché non l’abbia apprezzata.
Joe Lansdale ha scritto il primo romanzo nel 1988 e gli ha fatto seguire subito dopo la continuazione, poi ha aspettato quasi vent’anni e nel 2005 ha fatto uscire il terzo volume della serie. Forse doveva disintossicarsi da se stesso dopo aver ideato una roba del genere.
O almeno penso, perché di sicuro questi tre romanzi sono tra i più ributtanti che io abbia mai letto. Deboli di cuore e di stomaco: astenetevi dal prenderli in mano!
Ma il fatto che nel loro complesso siano diventati un cult book, un’icona della cultura pop, avrà pure una ragion d’essere, no?




John Steinbeck diceva: “Il Texas è uno stato mentale”, e questo concetto è stato talmente amato da Lansdale da scandagliarlo fino a fargli raggiungere proprio il fondo dell’abisso.
Ma lasciamo parlare i fatti: tre amici decidono di passare una serata all’Orbit, un Drive-in del Texas, per farsi una scorpacciata di film horror e popcorn. A un certo momento una cometa rossastra sorvola le arene dove si proiettano i films e… bum! Da qui in avanti fino al termine dei tre romanzi è un incubo continuo, il peggiore che potreste immaginare.
L’intero Drive-in viene incapsulato in una bolla di buio dalla quale non si può uscire: chi prova a toccarne la parete si scioglie letteralmente, e ben presto l’intera comunità intrappolata diviene preda dei più prepotenti alla ricerca forsennata di cibo, di bevande e di qualcuno (o qualcosa) con cui fare sesso. La gente impazzisce del tutto e Lansdale dà libero sfogo alla fantasia nel descrivere omicidi che più allucinanti non si può, stupri fantasiosi, mutazioni repellenti, mutilazioni agghiaccianti, episodi di cannibalismo particolareggiati e immaginosi, geniali tentativi per cercare di cavarsela, entità aliene, tirannosauri, pesci giganteschi, mari di merda e nastri di pellicole cinematografiche antropofaghe.
Tutti diventano folli, impazziti del tutto nel cercare di capacitarsi dell’accaduto e di trovarne una qualsiasi ragione logica. Tatuaggi che prendono vita e si trasformano in mostri, novelli dittatori, ammazzamenti continui in una rivisitazione tragicomica del classico: che cosa succederebbe se chiudessi un gruppo di persone in una stanza e non le facessi più uscire?
Il tutto in una alquanto schifosetta metafora (quanto azzeccata non so) dell’attuale società statunitense, frutto di una fantasia smisurata e al di là del reale. Metafore sono sicuramente alcuni dei personaggi secondari, come il Re del Popcorn, due uomini fusi insieme in un’unica entità che distribuiscono robaccia da mangiare (metafora del consumismo); Popalong Cassidy, un ragazzo che al posto della testa ha un televisore che irradia programmi (metafora della dipendenza televisiva) e il gigantesco Pesce Gatto che vuole mangiare balene (metafora della corsa alla sopraffazione).
Lo stile è costituito dalla scrittura sopraffina (in questo caso cruda che più cruda non si può) di Joe R. Lansdale e dalla sua ironia: uno stile diretto ed esplicito oltre che estremamente violento, e anche le scene più vomitevoli sono descritte nei più minimi particolari (confesso che anch’io ho avuto qualche problemino nel leggere di un personaggio che pensa al modo migliore di squartare il cadavere di una bella ragazza per poi mangiarselo. Dopo averla violentata. Stando nudo mentre si trastulla con la propria proboscide). Ma fa anche sorridere per le situazioni paradossali.
Ribadisco il concetto: non mi piace affatto il genere horror, né da leggere né da guardare al cinema, ma non ho potuto fare a meno di terminare questi tre libri perché sono scritti davvero bene. Lansdale è veramente un maestro, un asso nel capire e nel mostrare tutto ciò che di peggio possa offrire l’essere umano.
Il Lettore (leggermente schifato)

giovedì 23 novembre 2017

Negli occhi di chi guarda

L’ultimo del nostro Marco Malvaldi è un altro “libero”, cioè un romanzo non legato ai suoi protagonisti seriali che sarebbero i vecchietti del Bar Lume. Un po’ come aveva fatto in Odore di chiuso e Argento vivo.
Non del tutto “libero”, comunque, perché in realtà l’autore vi riprende due dei personaggi che aveva già utilizzato per le parti principali in Milioni di milioni, cioè il genetista Piergiorgio Pazzi, attraverso cui Malvaldi può sfogarsi a inserire le sue nozioni di chimica, e Margherita Castelli, sagace archivista nonché splendida donna— della serie una bella gnocca non guasta mai — che assumono ancora una volta un ruolo fondamentale nella risoluzione della vicenda.
Nonché per aggiungere un tocco sentimentale al tutto.




Stavolta i protagonisti sono i gemelli Cavalcanti, Zeno e Alfredo, i proprietari di una tenuta nobiliare sulla costa toscana, contorniati da una schiera di comprimari che si trova invischiata in una torbida vicenda con tanto di problematiche compravendite, opere d’arte scomparse e tragiche ammazzatine, per dirla alla Camilleri. Piergiorgio e Margherita chiariranno il tutto prima di una romantica gitarella all’isola d’Elba.
Un giallo leggero e piacevole, condito dal solito umorismo schietto di Malvaldi e dalle sue conoscenze scientifiche, con una trama intelligente anche se non originalissima e la sua scrittura pulita e arguta che fa sempre piacere leggere.
Una cosa che ho apprezzato di meno è l’insistere in maniera marcata con la tecnica del ricominciare un paragrafo o un capitolo con la parola con cui termina il precedente, inserendola in un contesto diverso. Avevo già spiegato questa tecnica nella recensione al romanzo Argento vivo (la potete trovare qui), e quindi non ci insisterò sopra. È sì una cosa simpatica, ma andrebbe usata con moderazione e non inserita in quasi tutte le ripartenze come invece fa Malvaldi soprattutto nella prima parte del libro.
Il toscano ne approfitta anche per magnificare le bellezze costiere della sua regione e riportarne alla luce i segreti nascosti: trovare una tomba etrusca è sempre affascinante, anche se lo leggi in un romanzo. Piacerebbe anche a me scoprire una tomba etrusca all’interno della mia proprietà, anche se poi non sarebbe così facile guadagnarci sopra qualcosina. Ma in compenso saresti subissato dalle rotture di coglioni da parte dello Stato.
No, meglio divertirsi con un buon romanzo e lasciare le tombe dove stanno. In pace, sottoterra.
Il Lettore

lunedì 20 novembre 2017

I migliori di noi

Stavolta Andrea Scanzi non mi è piaciuto.
E ne sono rimasto deluso, perché Scanzi è un giornalista che apprezzo molto sia per l’humour che per lo stile, ma questo romanzo se lo poteva anche risparmiare.




Soprattutto per il fatto che la trama è assolutamente inconsistente, e per di più con un finale aperto che più aperto non si può. Sì, l’ho capito che erano proprio queste le intenzioni dell’autore, ma pur avendolo capito non ne sono rimasto per nulla soddisfatto.
In pratica è un libro che si regge solo sulle battute di un pur talentuoso “cazzaro” quale è l’autore. Scritto molto bene sia come ritmo che come scelta della terminologia, è costituito di una battuta dietro l’altra, di situazioni paradossali che fanno ridere ma non bastano a dare corpo a un romanzo vero e proprio. Alcune scene veramente esilaranti, ma basta, finisce qui e al termine ti lascia poco più di nulla.
Per dire, il personaggio che mi è piaciuto di più è un cane, Bergie, la femmina leonberger di uno dei protagonisti.
Oltretutto sembra che il libro glielo abbia sponsorizzato la pro-loco di Arezzo, da come l’autore inneggia in modo sfacciato alla sua toponomastica e ai vari locali che i personaggi hanno modo di frequentare in continuazione. Un po’ troppo.
Di sicuro Andrea Scanzi riesce molto meglio come giornalista e come opinionista che come autore di romanzi.
Il Lettore

venerdì 17 novembre 2017

L’ultimo passo di tango

E torniamo a Napoli. Purtroppo. E ai libri di racconti. Sigh.
È scontato che prima o poi ogni autore di successo se ne esca con un libro di racconti. I racconti vendono solo se hai già raggiunto la fama, ma tutti gli autori prima o poi ne scrivono. Perché è più divertente e meno impegnativo che scrivere un romanzo. Anche se scrivere un buon racconto è molto ma molto più difficile che scrivere un romanzo, ma gli ingenui di questo non se ne rendono conto.
E i racconti scritti da sconosciuti non li compra nessuno.
Comunque, gli autori famosi i racconti prima li tengono dentro al cassetto, e forse li pubblicano singolarmente in riviste o antologie, poi, quando hanno già raggiunto la gloria, si possono permettere di far uscire una raccolta sicuri che andrà a ruba. Quando la raccolta non gliela commissiona direttamente l’editore per incrementare gli introiti.
Ho il sospetto che in questo caso sia andata così. Adesso vi spiego perché.




Questo L’ultimo passo di tango — Tutti i racconti è una corposa raccolta dell’intera produzione di racconti di Maurizio De Giovanni.
Tutti scritti dopo il 2007, però, se è vera l’informazione che ci ha fornito di persona lo stesso autore nel corso di una conferenza in cui lui stesso ci ha informato che prima de Il senso del dolore non aveva scritto altro e non aveva nulla di nulla nel cassetto (vedi qui).

Quindi le cose sono due: o questi racconti li ha scritti nel corso di dieci anni dopo il primo successo prevedendo che prima o poi avrebbe dovuto pubblicare una raccolta di racconti, o li ha scritti in fretta e furia pressato da un editore avido quanto basta.
La seconda ipotesi mi pare più verosimile, un po’ perché nella raccolta compaiono pezzi già pubblicati anche singolarmente, come L’omicidio Carosino, vedi qui, il racconto da cui è nata la figura del Commissario Ricciardi, un po’ perché tono e argomento di molti racconti sono ispirati o alla cronaca nera recente o alla storia (tira in ballo persino Hitler), quasi come se l’autore avesse cercato disperatamente dappertutto dei buoni spunti per le trame.
Bene, il mio cinismo è soddisfatto, ora posso parlare degli aspetti positivi.
Non c’è dubbio che sono scritti bene, benissimo, oserei dire, con lo stile preciso al quale De Giovanni ha abituato i suoi lettori, saturo di sentimentalismo e profondità di introspezione.
I contenuti vanno a scavare all’interno dei recessi più nascosti dell’animo umano, e se c’è un aspetto che gli si può appuntare è quello che la maggior parte dei racconti sono tristissimi, angoscianti: genitori che uccidono i figli, figli che ammazzano i genitori, amanti che massacrano amanti, sembra che non vi sia fine all’abiezione più truculenta, tanto che viene da pensare che cosa ci sia nella mente di un autore che scrive in continuazione di queste tragedie.
Se non l’avessimo ascoltato di persona nel corso di quella conferenza, nella quale si è mostrato davvero allegro e simpatico (nonostante sia napoletano, NdF), per ciò che scrive verrebbe da dargli forma come uno dei componenti della famiglia Addams.
Intervallati da pochissimi pezzi il cui finale è di poco meno truce degli altri, si susseguono racconti uno più angosciante dell’altro, fino a portarti sull’orlo della depressione. Poi ti dici che va be’, dai, sono solo racconti e scritti bene, peraltro, ma quando l’hai finito tiri un sospiro di sollievo.
Come lettura ne sei soddisfatto, ma per la successiva vai alla ricerca di qualcosa decisamente di più allegro.
Il Lettore

mercoledì 15 novembre 2017

Bello, elegante e con la fede al dito

Questo è un perfetto esempio di come una sola parola (per essere pignoli due) può rovinare un romanzo.
Mi è bastato leggere un’espressione, una sola, per chiudere il volume, spedirlo nel dimenticatoio e cominciare a leggere qualcos’altro, senza alcun tipo di rimpianto. Oltretutto non ero arrivato nemmeno a pagina dieci.
E non è che non mi piaccia Andrea Vitali, anzi, alcuni suoi libri li ho apprezzati (anche se non tutti e qualche difettuccio ce l’ha anche lui), ma in questo caso ha inserito nel romanzo una scempiaggine che non sopporto proprio, e questo è bastato per dargli l’addio.
Sì, sono permalosetto, nevrotico e pignolo, e allora?




Anzi, mi ero anche apprestato a cominciare questo Bello, elegante e con la fede al dito con molto tempo a disposizione e stato d’animo adeguatamente tranquillo (ero in treno e del tutto in orario, figuratevi) e avevo appena cominciato a delineare il protagonista quando Vitali se ne esce con questo periodo:
Durante la notte un vento forte e gelido, una sfacciata diagonale d’aria, aveva scavalcato le Prealpi e scalciato via nuvole, foschia, umidità e quant’altro.”
Quant’altro? Quant’altro???!!!
Ma siamo pazzi?
“Quant’altro” è un’espressione che odio anche in un discorso parlato, figuriamoci in una frase scritta. In un romanzo, poi, secondo me è del tutto inammissibile, oltre che inconcepibile.
Un’espressione tipica del politichese sinistrorso di scarsa fantasia e dialettica carente, adatta a quei politicanti che cercano di sbrigarsela lasciando che a faticare siano le meningi dell’uditore, o ancora peggio del lettore. Se vi capiterà sentir dire “quant’altro” da qualcuno, perlomeno avrete inquadrato subito il soggetto. E non vi sbaglierete.
Uno scrittore ha l’obbligo di descrivere al meglio le situazioni, di creare emozioni, non cercare di cavarsela alla meno peggio con “quant’altro”. Mi ripugna anche scriverla io stesso, questa scempiaggine.
Che poi, dopo nuvole, foschia e umidità, cosa cazzo vuoi che ci sia ancora da scalciare via dall’aria ad opera del vento? Polvere? Acquerugiola? Nevischio? Uccelli defunti? Smog? Nebbia? Cartacce? Foglie morte? Palloncini sfuggiti di mano ai bambini? Bastava scriverlo.
Basta, ad Andrea Vitali ho inflitto la morte letteraria. Sarà dura che lo rivedrete su queste pagine.
Il Lettore incazzereccio

lunedì 13 novembre 2017

Passeggeri notturni

Un altro libro di racconti di Gianrico Carofiglio, che oltre ai romanzi non è nuovo nemmeno a questa corrente letteraria.
Poi, sul connubio scrittore/libro di racconti parlerò più diffusamente nel post relativo alla prossima raccolta di racconti che recensirò, che ho già letto e sulla quale sto già scrivendo. Abbiate pazienza.




In questo caso Carofiglio ha sfornato una trentina di raccontini di due o tre pagine ciascuno.
Brani molto sintetici, aneddoti, racconti veri e propri intervallati da situazioni reali di vita vissuta, da molti dei quali si raccoglie una sorta di “messaggio” dal significato profondo.
Alcuni sanno tanto di “racconto zen”: minimalisti e criptici, come appunto i racconti zen dei quali ho già letto parecchie raccolte e sui quali bisogna riflettere con una sorta di pensiero laterale. Quanto a tirarci fuori i piedi è un altro discorso. Qual è il suono di una mano sola?
Altri sono tratti da incontri con gente reale. Ma attenzione, l’attributo “reale” ha un connotato un po’ particolare, perché Carofiglio non è che incontra gente comune come me e voi o come la signora che va a fare la spesa e trascina la sporta alla fermata dell’autobus, no, lui incontra solo gente famosa — della quale si guarda bene dal fare i nomi — a ricevimenti più o meno “in”: giornalisti di testate celebri, politici sulla cresta delle aule di giustiz dell’onda, gente insomma che noi incontreremmo solo se frequentassimo abitualmente Via Veneto o Montecitorio.
Da questi incontri trae perle di saggezza (o di infamità, a seconda dei punti di vista) e ce le trasmette in questo libro che odora un po’ (ma solo un poco) di operazione commerciale (e dagli!) in quanto i racconti, singolarmente, erano già stati pubblicati in precedenza su una rivista. Rivista sulla quale probabilmente avevano un senso maggiore, e una maggiore attualità, che non raccolti tutti insieme a posteriori.
Sono pezzi comunque soddisfacenti, redatti con una piacevolissima scrittura dallo stile semplice e chiaro, e stringati quanto basta da lasciare un buon sapore in bocca senza appesantire.
Il Lettore 

venerdì 10 novembre 2017

L’uomo della tundra

Alla Biblioteca delle Nuvole insieme a Gourmet avevo preso anche un altro volume di fumetti: L’uomo della tundra, dello stesso autore Jiro Taniguchi, stavolta in versione solitaria.
Come solitari sono i suoi protagonisti.




L’uomo della tundra è una raccolta di sei racconti a fumetti incentrati sul rapporto tra l'uomo e una natura per lo più selvaggia. Tutti meno uno, che è prevalentemente autobiografico e narra di un giovane fumettista agli esordi della sua carriera alle prese con le difficoltà dell’andare a vivere da soli.
Nel rapporto con la natura Jiro Taniguchi sembra riesca a dare il meglio di sé, dipingendo personaggi che restano a lungo nella coscienza. Tratteggiandoli con la stessa delicatezza di cui ha dato prova Akira Kurosawa nel dirigere lo splendido Dersu Uzala, film a cui sicuramente Taniguchi si è ispirato per sceneggiare i suoi fumetti.
Dal ricercatore subacqueo che prova a scoprire e a raggiungere il mitico cimitero delle balene, al vecchio cacciatore che intende vendicarsi del gigantesco orso che ha ucciso suo figlio, all’esploratore nel quale si può riconoscere un giovane Jack London nel suo peregrinare in Alaska, la natura rimane sempre la vera protagonista di questo albo. Incontaminata, spietata, misteriosa, comandata da rigide regole crudeli.
Sul tratto e la sceneggiatura non mi dilungherò, visto che ne avevo già parlato in Gourmet e non c’è nulla di diverso. Fatto sta che Taniguchi è piacevole da leggere sia nelle rappresentazioni delle distese di una Tokio sterminata brulicante di grattacieli che nei panorami naturali. La successione delle scene è sempre pacata in una sceneggiatura ordinata e regolare e le storie sono profonde e interessanti, che vuoi di più?
Il Lettore 

martedì 7 novembre 2017

Perché non sono cristiano

Fermi! Rilassatevi e prendetevi un attimo di pausa in modo di leggere questo post in tutta tranquillità, perché oggi parliamo di un libro assolutamente fondamentale, un libro basilare nella letteratura e nella filosofia del ventesimo secolo e che tutti dovrebbero leggere, un libro di quelli che ti invitano a riflettere a fondo su ogni affermazione che l’autore ha scritto (ed è per questo che ci ho messo molto tempo a leggerlo).
Ognuno di noi prima o poi si sarà chiesto che cosa succederà quando moriremo. La risposta di Bertrand Russell è estremamente semplice: “Quando morirò, sarò niente di niente e nulla di me sopravviverà. Non sono più giovane e amo la vita. Ma mi rifiuto di vivere tremando di terrore al pensiero del nulla, la felicità non è meno vera perché deve finire, né il pensiero e l'amore perdono il loro valore perché non sono immortali.
Un modo di pensare ragionato e nello stesso tempo estremamente positivo e umano.




Russell parte da queste parole per dare vita a una profonda disamina di come influisce qualsiasi religione, quella cristiana in particolar modo, nella vita di tutti gli uomini. Una persona grezza come me la direbbe alla perugina: le religioni hon fatto sempre più danni de la grandine, ma un Premio Nobel, eccheccazzo, è molto più forbito e diplomatico: “[...] non sono cristiano: in primo luogo, perché non credo in Dio e nell'immortalità; e in secondo luogo, perché Cristo, per me, non è stato altro che un uomo eccezionale”, precisando, poi, che il suo insegnamento (quello di Gesù Cristo, capiamoci), pur eccellente sotto molti aspetti, appare difettoso sotto molti altri e dal punto di vista morale non regge il confronto né con Buddha né con Socrate.
Ma non si limita solo al ridimensionare qualsiasi professione di fede: “È indesiderabile credere vera una proposizione quando non c'è alcun fondamento per supporre che sia realmente vera” allargandosi sul pensare in modo razionale; inoltre insiste particolarmente sui danni collaterali che le religioni possono provocare con i loro insegnamenti distorti. Si prenda il caso della religione cattolica nei confronti del sesso: "Il sesso come l'alimentazione va vissuto in modo semplice e naturale: ogni eccesso è negativo e come nel caso del cibo ogni proibizione ne accresce il desiderio eccessivo. L'insegnamento della Chiesa, com'è dimostrato negli Stati Uniti, con il suo rigido moralismo ha stimolato in modo malato l'interesse per il sesso. L'impulso naturale represso non produce uomini sani e aperti."
In questa raccolta di saggi scritti da Russell tra il 1899 e il 1954 e in seguito pubblicati in volume, il filosofo premio Nobel per la Letteratura nel 1950 tira le somme dei motivi del suo ateismo, ma con questo non intende invitare tutti a seguire il suo esempio: incita solamente qualsiasi persona alla libertà di pensiero: ragionare con la propria testa, non spinti da dogmi o sotto l’influenza di qualsiasi tipo di insegnamento interessato. Per la sua abiura di un qualsiasi credo religioso Russell è stato oggetto, da parte di alcuni vescovi, di ostracismo e di una martellante campagna denigratoria dopo che gli era stata assegnata una cattedra al City College di New York. Gli è andata anche bene: a Roma forse sarebbe stato scomunicato (per quanto poco gliene sarebbe potuto interessare), in Islam direttamente giustiziato. Sono i più fanatici quelli a cui fa più paura una persona che pensa con la propria testa.
Dan Brown nel suo ultimo libro ha romanzato lo stesso tema, Bertrand Russell invece lo spiega in modo ragionato: non esiste nessun Dio, siamo solo frutto di un’evoluzione durata miliardi di anni e ancora in proseguire. Facciamocene una ragione e piantiamola perlomeno con le guerre religiose che non hanno nessun senso ma provocano ancora oggi migliaia di morti in ogni parte del globo.
Ragioniamo liberi da qualsiasi costrizione o insegnamento coatto, cioè in modo contrario a ciò che vogliono invece coloro ai quali fa comodo tenerci soggiogati. Sia in campo religioso che in campo politico. Grande.
Per la sua umanità e il suo pacifismo se fosse ancora vivo si meriterebbe di prendere il Nobel per la seconda volta. Uno dei pochi Nobel per la Letteratura che non hanno ammazzato nessuno dei propri personaggi.
Il Lettore 

domenica 5 novembre 2017

Lo Squizzalibro di domenica 5 novembre 2017

Fatemi fare in fretta che sono in partenza.
Il mio editor, in vena di magnanimità, mi ha regalato una vacanza di qualche giorno in una città che amo molto. Va a sapere cosa deve farsi perdonare… Ho già preparato la valigia e sto solo aspettando che lei finisca di prepararsi. Tamburellare di dita sul tappetino del topo: sì, ti ci vedo proprio.




Per cui andiamo subito con gli indizi:
1 – Il libro da indovinare oggi è un saggio. Uffa, un altro saggio… basta, non se ne può più!
2 – Ma è famosissimo, scritto a più riprese nel corso dei primi anni del secolo scorso e poi pubblicato tutto insieme per la prima volta intorno agli anni ’20. Vecchio, quindi. E poi ripubblicato in continuazione in nuove edizioni man mano che l’autore ci aggiungeva materiale. Sarà vecchio, ma è assolutamente fondamentale — se lo dici tu… — e tratta di aspetti basilari della nostra esistenza.
3 – L’autore è inglese: uno dei pensatori più importanti del ventesimo secolo. Ellapeppa, ti sei messo a leggere robe serie? Gli hanno anche assegnato un Premio Nobel per la Letteratura. Tanto di cappello…
4 – Non solo, si racconta che durante un suo soggiorno nelle galere di Sua Maestà abbia fatt0 infuriare il direttore del carcere perché questi era costretto a leggere tutto ciò che lui scriveva durante la prigionia per il suo dovere di applicare la censura sugli scritti dei detenuti prima che uscissero dal carcere. E al nostro non sono mai mancate le cose da dire. È stato anche in galera? Personcina per bene… Lo puoi dire forte: proprio in quel periodo in carcere ha scritto uno dei suoi trattati più famosi. Sicuramente un buon modo di passare il tempo in gattabuia!
5 – I concetti del libro di oggi sono stati ripresi e tradotti in modo più leggero nell’ultimo romanzo di uno degli scrittori che oggi come oggi vendono di più in tutto il mondo. Come a dire… nulla di nuovo sotto il sole.
Basta così, ho detto anche troppo e come Squizzalibro è diventato facilissimo. Non è da me. Ma stai zitto e vedi di non tardare troppo con la soluzione. E salutami Venezia.
Ma… come…?
Freereader

venerdì 3 novembre 2017

Peter Gabriel – Not one of us

La volta che mi sono recato dal mio pusher musicale per rendergli il libro di Rutherford ho trovato ad attendermi un’altra bella sorpresa: come gli ho dato il volume mi sono trovato tra le mani questo Peter Gabriel – Not one of us sentendomi dire: “Cose che più o meno già conosciamo, ma è interessante lo stesso.
Come resistere? E poi, perché avrei dovuto farlo? Se al tuo gatto dai per la centesima volta un bocconcino di petto di pollo mica lo rifiuta, no? E neanche alla millesima. Non credo che abbiano scritto mille biografie di Peter Gabriel, ma anche fosse, se continuassero a propinarmele continuerei a leggerle senza rifiutarle pur conoscendo già tutti i fatti salienti della sua vita.
Ognuno ha le sue fisime.




E poi, di questa conosco anche personalmente l’autore, quel Mario Giammetti famoso soprattutto per aver dato vita e aver diretto da sempre un magazine, Dusk (qui il link), che dal 1991 è dedicato interamente al mondo del progressive e in particolare ai Genesis trattandone tutti gli aspetti. Qualche anno fa ha anche pubblicato un mio pezzo su questo gruppo.
Tra il 2005 e il 2016 Giammetti ha fatto uscire una serie di volumi (la serie Genesis files) ognuno dedicato a un componente di quella band, e questa è l’ultima delle pubblicazioni. Perché lasciare tanto bene P.G. per ultimo? Come dice lo stesso autore nella prefazione: “non è mai facile avvicinare personaggi di questo livello”, ed essendo il nome di Giammetti legato a una rivista sui Genesis, e inoltre sapendo che P.G. nei confronti del suo vecchio gruppo mostra ad oggi solo una ”accondiscendente tolleranza”, si spiega come abbia lasciato per ultimo il trattare di lui.
E quindi ripercorre tutta la vita di Peter Gabriel, da quando era bambino alla vecchiaia, ri-descrivendone successi, momenti difficili, gruppi, album, concerti, innovazioni, compagni di viaggio e canzoni famose o meno. In maniera molto particolareggiata. In un libro di 350 pagine di 44 righe ciascuna dai caratteri minutissimi, condite di una miriade di fotografie interessanti.
Mi dispiace dirlo, ma questa biografia, a parte le foto, non me la sono gustata come le precedenti. Un po’ perché i fatti li conoscevo già, ma soprattutto per la serie pressoché infinita di fatterelli, situazioni, enumerazioni e spiegazioni di canzoni, concerti, rapporti umani del nostro eccetera con cui Giammetti ha infarcito la cronistoria, che se da un certo punto di vista sono curiose, dall’altro la rendono alquanto noiosetta. A meno che uno non sia proprio interessato a tutto, ma proprio tutto ciò che ha costellato la vita di P.G.
Per quest’ultimo uno quindi un’opera completa, esaustiva e appagante che se per caso lo dovesse incontrare nei dintorni della sua casa in Sardegna ne saprebbe più lui sul musicista che P.G. stesso. Si sa, con la vecchiaia una delle prime cose a sparire è la memoria.
Il Lettore 

mercoledì 1 novembre 2017

Il cinese a fumetti

Come avrete di certo cominciato a sospettare, il vostro Freereader è interessato da una molteplicità di argomenti, e quando posso cerco di approfondire.
Uno di questi argomenti sono le lingue straniere, che al giorno d’oggi sono indispensabili. Io leggo molto bene l’inglese, quasi come se fosse italiano, ma non ho mai avuto occasione di parlarlo e quindi stendiamo un velo pietoso sulla faccenda. Leggo benino anche spagnolo, francese e tedesco, ma non tanto da potermi gustare dei romanzi in lingua originale come invece faccio con l’inglese. Basta. Avrei serie difficoltà a fare il “chiappino” di straniere in Piazza Grimana, per intenderci. A parte l’età.
E a parte il fatto che di fronte all’Università per Stranieri oggi come oggi non ci sono più quelle frotte di stanghe alte e biondissime come c’erano una volta, ma ci trovi più che altro africane nere come la pece e miriadi di morette tappette con i capelli lisci e gli occhi a mandorla.
Se un tempo in tutto il mondo la lingua dominante era il greco, sostituita con l’espandersi di Roma dal latino, quindi dal tedesco e poi dall’inglese, probabilmente tra poco per avere qualsiasi tipo di rapporto internazionale sarà indispensabile conoscere il cinese.
Abituatevi all’idea.




Lingua che oltretutto non utilizza l’alfabeto al quale siamo assuefatti, ma una sorta di geroglifici strani al posto delle lettere che noi usiamo di solito, chiamati logogrammi o morfemi, che simboleggiano concetti o cose. Per fare un esempio, la parola “uomo”, come “persona” o “essere umano”, in cinese si dice nàn rén (si pronuncia con qualcosa di simile a nàiièi), e si scrive disegnando due gambe senza una testa, un qualcosa che assomiglia alla lettera greca lambda, così:



In pratica un omino molto (ma molto) stilizzato. Per quanto poco io sappia disegnare forse sarei capace di scriverlo anch’io, e che i cinesi mi perdonino se mi è scappato qualche sfondone. A parte il fatto che in cinese il significato della parola può cambiare in funzione dell’intonazione con cui questa si pronuncia.
Per cui comprenderete quanto sia rimasto incuriosito quando alla Biblioteca delle Nuvole ho visto, sullo scaffale degli ultimi arrivi, questo Il cinese a fumetti di Stefano Misesti, nel quale l’autore, che lavora a Taiwan, ha cercato di raccontare, come già aveva fatto in un blog, le difficoltà di risiedere in uno stato che non parla e tanto meno scrive la tua lingua.
Me lo sono portato a casa per dargli un’occhiata e in un paio d’ore l’ho letto. Adesso potrei anche sostenere una conversazione costruttiva con una morettina di Shangai.
Mica ci avrete creduto? No, di quello che ho letto non ho assimilato praticamente nulla, neanche come si dicono o scrivono i numeri: 1, 2, 3, 4 eccetera. Ah sì, l’1 è un trattino orizzontale: —, stop. Non basta proprio questo fumetto per imparare qualcosa di questa lingua così lontana dai nostri schemi mentali, ma ne costituisce un simpatico avvicinamento.
In ogni pagina, con una sequenza quasi random, viene illustrato un termine con la sua grafia cinese (sia tradizionale che semplificato) e la relativa pronuncia, spiegando anche i problemi relativi all’intonazione.
Il tratto del disegno è semplice e molto iconico, in modo da generalizzare il più possibile. Nella tavola seguente si può osservare come si dice in cinese la parola “albero”, e l’intuitiva transizione a “bosco” con l’onomatopèa mucchesca per illustrarne la pronuncia.



Di grammatica quasi non se ne parla: già è difficile così, non andiamo a complicare le cose, please.
Non so quanto un libretto del genere possa essere veramente utile se uno è costretto a imparare il cinese, ma perlomeno Misesti ci ha provato. Più che altro si potrebbe considerare una curiosità, un approccio laterale simpatico e intrigante per chi ha un interesse di qualche tipo nei confronti di questa lingua parlata da più o meno un miliardo e mezzo di persone.
E scusa se è poco.
Il Lettore poliglotta (o perlomeno ci prova)