martedì 30 settembre 2014

Uomini che odiano le donne

Se a questo punto la domanda che vi frulla per la mente è: ma come, è mai possibile che un lettore come Freereader non abbia ancora letto questo libro? allora chiarisco subito qual è stato il mio rapporto con il romanzo di Stieg Larsson: l’ho letto appena pubblicato, nella primissima edizione di Marsilio del 2007, prima ancora che diventasse famoso. Un ennesimo colpaccio del mio sesto senso letterario.
Girellavo in libreria quando l’occhio mi è caduto su questo bellissimo titolo esposto sullo scaffale delle novità. L’ho preso in mano, l’ho sfogliato leggendo qualche pagina sparsa e l’ho subito condotto con me alla cassa. Ma… delusione! Una volta partito dall’inizio ho scoperto con mio rammarico che le prime pagine erano talmente noiose da farmi dubitare della preveggenza del mio sesto senso, tanto che stavo quasi per abbandonarlo. Per fortuna ho proseguito nella lettura e, una volta superato quel preambolo peraltro necessario, Uomini che odiano le donne mi ha preso e ho finito col divorarlo, così come i successivi due della trilogia Millennium.

Poi il romanzo è diventato famoso ed è esploso il caso letterario che tutti conoscete. Milioni di copie vendute in una caterva di traduzioni diverse, ben due film, e nel 2013 l’attesa trasposizione nella versione fumettistica della quale parleremo in questa sede.


Dirò subito che nella riduzione dell’imponente romanzo di Stieg Larsson gli autori del fumetto, lo sceneggiatore francese Sylvain Runberg e il disegnatore spagnolo José Homs, a parer mio hanno fatto un lavoro veramente ottimo: il fumetto nel complesso è suggestivo e affascinante, una splendida sintesi delle oltre 670 pagine del romanzo originale.
Non è facile condensare una storia complessa nell’ambito di un volume a fumetti, ma Sylvain Runberg ha ridotto mirabilmente le complesse vicende ideate da Larsson in modo fedele senza lasciar fuori nessuno degli aspetti più importanti e chiarendo man mano gli enigmi che si presentano, sfrondandole del superfluo in modo da mostrare solo l’essenziale. È ovvio che tale sintesi va a scapito di una completa caratterizzazione psicologica di alcuni dei personaggi, ma questo è uno scotto da pagare in qualsiasi adattamento.
Per quanto riguarda il disegno lo stile è realistico con solo un leggero tocco di caricaturale quando José Homs ha ritenuto di dover “enfatizzare” un personaggio per renderne meglio il carattere. Il disegnatore insiste parecchio sui primi piani e sui dettagli, su inquadrature inusuali e con una  costruzione della gabbia molto articolata, con forma e dimensioni delle singole vignette variata di continuo. È apprezzabile l’uso del colore di fondo delle scene per sottolineare le varie ambientazioni: le analessi delle tragiche violenze perpetrate dal serial killer in rosso cupo, i ricordi in giallo, il mondo di Lisbeth in marrone scuro, il tutto in atmosfere cupe, talvolta opprimenti, con disegni che trasmettono forza e dinamismo.


I personaggi sono credibilissimi, molto di più di quelli del film che ne è stato tratto a suo tempo. Nel film, per il personaggio di Lisbeth Salander è stata selezionata un’attrice che secondo me per quel ruolo risultava troppo matura come età, troppo alta e troppo poco trasgressiva, mentre nel fumetto sono stati azzeccati perfettamente sia l’aspetto fisico che quello caratteriale.
Guardate quant’è bella questa immagine:


Questa trasposizione risulta buona sia per quelli che hanno già letto il romanzo, che apprezzeranno il modo in cui Runberg & Homs hanno reso il tutto, sia per chi invece non lo ha letto che si divertirà a scorrere la complessa storia senza pregiudizi di sorta.
L’unica cosa che mi ha lasciato perplesso è stata la scelta operata dallo sceneggiatore di modificare un aspetto del finale del romanzo. Nella versione originale Blomqvist ritrova Harriet in una località sperduta dell’Australia, intenta a dirigere un grande allevamento di ovini, mentre nel fumetto arriva a rintracciarla mentre coordina un’agenzia di viaggi a Tokio. Mah! Una variazione che non pregiudica nulla ai fini della storia, ma sarei veramente curioso di conoscerne il motivo.
Il Lettore

domenica 28 settembre 2014

Lo Squizzalibro di domenica 28 settembre

Questa settimana vi propongo uno Squizzalibro con il trucco. Non cominciare a barare! Esclamerete. No, lungi da me. Ma vedrete che ciò che sembra facile, a volte, può rivelarsi diverso da quello a cui portano le evidenze.


1 – Il titolo del romanzo da indovinare è famosissimo, uno dei maggiori successi editoriali degli ultimi anni. Ah, allora questa la so di sicuro…
2 – Il genere è il thriller, con accenni sociologici, economici e politici, nonché sessuali. In pratica c’è tutto (e qui già potreste essere sulla strada buona per indovinare).
3 – Il romanzo fa parte di una trilogia (ecco che state confermando la vostra prima ipotesi).
4 – L’autore del romanzo è svedese (ulteriore basilare conferma).
5 – Lo scrittore ha avuto purtroppo la sfiga di morire appena terminato di scrivere questa trilogia, senza potersi pertanto crogiolare sull’onda del successo planetario. Occavolo! Stavolta ci ho proprio indovinato!
Ma ne siete proprio sicuri? Vi fornirò un altro punto sul quale riflettere:
6 – Chi ha scritto il romanzo è uno, ma in realtà gli autori del volume oggetto dello Squizzalibro sono tre.
Ed ora?
Freereader

venerdì 26 settembre 2014

Il lupo

Di questo Joseph Smith ne hanno parlato come la scoperta di un nuovo talento, come un emulo del Sam Savage di Firmino (che peraltro non è che mi sia piaciuto un gran ché), e di questo libro come l’evento letterario dell’anno (2008), alla stessa stregua di Memorie di un ratto (che invece mi è piaciuto molto – vedi).

Tutte balle.


A cominciare dal titolo, pessimo ad onta della traduzione letterale dall’inglese, questo romanzetto non è riuscito a prendermi sebbene io abbia sempre avuto una vera passione per i lupi. È proprio per quest’ultimo motivo che l’avevo comperato, nonostante il mio sesto senso letterario mi stesse ordinando lascia stare! posalo! rimettilo a posto! non ti piacerà!
Quella volta non gli diedi retta, ma dentro di me sapevo che doveva esserci qualcosa di strano e così parcheggiai il volumetto sul mio scaffale libri da leggere – a proposito, ve lo avevo mai confessato che tale scaffale è situato nella libreria del mio bagno? – e lasciai passare mesi prima di riprenderlo in mano. Ogni tanto ne guardavo la costa, allungavo il braccio e… il mio sesto senso letterario mi imponeva di prendere in mano un altro titolo. Sono passati anni, fino a che mi sono deciso ­– no! devo assolutamente leggerlo! … va be’, fa un po’ come ti pare, ma non dire poi che non ti avevo avvisato… – l’ho tirato via a forza dalla mensola e ho cominciato la lettura.
Fin dalle prime battute ho pensato che se quel giorno avessi dato retta a me stesso non avrei fatto nulla di male. Continuando a darmi del cretino sono andato avanti soffrendo per qualche decina di pagine, fino a ché non gliel’ho fatta proprio più – te l’avevo detto! – e ritenendo che al punto in cui ero ormai non potesse più avere alcuna possibilità di riscatto l’ho chiuso definitivamente trasferendolo dallo scaffale del bagno allo scaffale dei libri letti da catalogare (che più regolarmente si trova nella libreria della sala e si distingue dagli altri scaffali perché i libri non catalogati vi sono riposti in orizzontale).
Il romanzo è narrato in prima persona dall’animale stesso che tenta, ma non ci riesce, di farti vedere le cose come le vede lui. Il topaccio di Memorie di un ratto riusciva a farti calare all’interno del suo personaggio, in tutta la sua crudezza, ma questo lupo non riesce affatto a farti immedesimare in lui e ne resti sempre distaccato, anzi, dirò di più,  non ti riesce proprio di provare alcun sentimento nei confronti di un protagonista troppo antropomorfizzato. Se leggendo Memorie di un ratto provi del ribrezzo, leggendo Zanna bianca provi apprensione, e leggendo Il richiamo della foresta provi solidarietà, leggendo Il lupo provi solo una noia fastidiosa che ti spinge di continuo a buttarlo dalla finestra.
I critici, come al solito, sono andati a ricercarvi dentro un “lucido e impietoso ritratto del genere umano”, ma a me sembra un concetto tirato proprio per i capelli che sa tanto di frase fatta tirata fuori per la pubblicità.
Va be’, è andata, mea culpa.
e dammi retta, la prossima volta!
Il Lettore deluso

mercoledì 24 settembre 2014

In viaggio con la zia

Come diceva qualcun altro, leggere Graham Greene è sempre un bel leggere. Mi è capitato tra le mani per caso questo In viaggio con la zia, e quando il mio sesto senso letterario mi ha suggerito di iniziarlo non mi sono fatto pregare: una volta girata l’ultima pagina, appena il giorno dopo, ho ringraziato me stesso per essermi dato ascolto.


Pochi giorni fa riportavo il verso della poesia di Browning (vedi) dal quale  Gianrico Carofiglio ha tratto il titolo del suo romanzo Il bordo vertiginoso delle cose. Questo verso era molto caro a Graham Greene perché rispecchiava buona parte della tematica esplorata nei suoi romanzi: lo considerava una metafora del sottile crinale che separa il bene dal male, la legalità dall’anarchia, la vita dalla morte, un’esistenza grigia da un’esistenza movimentata; e nessuno è al sicuro nelle proprie scelte, perché può sempre intervenire qualcosa di inaspettato a modificare in maniera sostanziale una realtà consolidata. In meglio? In peggio? Definitivamente? Non lo potremo mai dire.
È ciò che succede al protagonista Henry Pulling in questo romanzo dal quale il regista George Cukor ha tratto un film di successo con Alec McCowen nel ruolo di Pulling e Maggie Smith in quello di zia Augusta, interpretazione che le è valsa l’Oscar come miglior attrice protagonista.
Henry Pulling è un bancario in pensione che conduce una vita piatta e monotona. Il funerale della madre, mai amata davvero, è l’occasione in cui incontra la sorella di lei, quella settantacinquenne zia Augusta mai conosciuta in precedenza per ragioni che si scopriranno andando avanti nel racconto. Per Pulling l’incontro è scioccante, perché la zia e il suo modo di vivere rappresentano esattamente l’opposto di quella routine monocorde alla quale lui si è abituato nel corso di un’intera esistenza, tanto che sarà ben presto costretto a riconsiderare tutte le convinzioni sulle quali aveva basato l’intero suo modo di vivere.
L’arzilla zietta conduce l’attempato “nipote” in una girandola di avventure non propriamente di specchiata legalità trascinandolo da un capo all’altro del pianeta, e bisogna togliersi il cappello di fronte a un Graham Greene che fa raccontare il tutto a Pulling in modo perfetto, con uno stile e un’ironia britannica densi di un understatement del quale P. G. Wodehouse sarebbe stato pienamente soddisfatto. Nella prima parte del libro la figura di Henry Pulling ricorda molto quella dello Stevens di Quel che resta del giorno (vedi): una figura talmente convinta dei concetti in cui crede da respingere in blocco qualsiasi evidenza contraria ai suoi principi, o perlomeno da fare finta di non accorgersene. Ma andando avanti accadono fatti che incrinano quelle certezze tanto da portarlo sul bordo vertiginoso delle cose, fino a riconsiderare tutto ciò su cui aveva impostato il suo futuro.
Veramente un bel libro: piacevole, ironico, scorrevole, pieno di significati più o meno nascosti e concetti lasciati scoprire al lettore piano piano, senza che l’autore li dica, con un mirabile ricorso all’ellisse. Tanto tempo fa di Graham Greene avevo letto Il nostro agente all’Avana e quindi, direttamente in inglese per merito dello stile semplice e lineare, i racconti di Twenty-One Stories, ma questo mi è piaciuto molto di più.
Forse vi sarete domandati perché due paragrafi fa ho messo la parola nipote tra virgolette. La risposta è: per rimarcare una delle ellissi adoperate da Greene. Che significa? Leggete il libro e lo scoprirete.
Il Lettore

lunedì 22 settembre 2014

Il tesoro greco

Una mia giovanissima amica, che ringrazio di cuore e alla quale avevano imposto di leggerlo come parte dei compiti di quarta ginnasio per le vacanze estive,  mi ha gentilmente prestato questo Il tesoro greco, di Irving Stone, dall’esplicativo sottotitolo: Il romanzo di Schliemann.

Essendo appena tornato dalla vacanza in Grecia, non ho potuto fare a meno di leggerlo immediatamente.


Irving Stone è diventato famoso come scrittore di biografie fin dalla sua prima opera: Brama di vivere, scritta a soli 31 anni e nella quale racconta la vita di Vincent Van Gogh; il suo capolavoro rimane comunque Il tormento e l’estasi, del 1961, imperniato su Michelangelo Buonarroti (e che da quanto ho sentito merita di essere letto…). Da entrambi i libri sono stati tratti dei film di successo interpretati rispettivamente da Kirk Douglas e Charlton Heston.
Il tesoro greco risale al 1976 e racconta, più che l’intera biografia di Heinrich Schliemann, il periodo nel quale l’imprenditore tedesco, archeologo per passione, si dedicò insieme alla moglie, la giovanissima Sophia Engastromenou, bella ma dal nome del tutto impronunciabile, agli scavi sulla collina di Hasserlik, in Anatolia, alla ricerca della leggendaria città di Troia in merito alla quale la maggior parte degli studiosi dell’epoca riteneva fosse solamente un invenzione della fantasia di Omero.
Lui no, per lui trovare Troia era una fissa vera e propria.
Gira che ti rigira quindi, tra mille difficoltà, nonostante lo scetticismo della scienza, i problemi pratici degli scavi e gli ostacoli politici e burocratici, lo Schliemann Troia l’ha trovata davvero insieme all’anch’esso leggendario tesoro di Priamo, come tutti noi abbiamo avuto modo di imparare a scuola (ora non ricordo se alle elementari, alle medie o al liceo).
(Avete notato nel periodo precedente la tripletta “all’anch’esso”? Mi pare di non averla mai vista scritta così prima d’ora, ma mi è sembrato tanto naturale scriverla che nonostante i dubbi sulla correttezza grammaticale ho deciso di lasciarla).
Basandosi unicamente sulle testimonianze raccolte nei testi omerici, non creduto e deriso da tutti, Schliemann ha scoperto otto città diverse disposte su nove strati una sopra l’altra, a partire dal 3000 a.C. al IV secolo d.C., delle quali la Troia omerica si suppone che corrisponda al VII strato, riconducibile al 1250-1200 a.C.
Irving Stone racconta che, dando sfogo a quella fissazione che lo affliggeva e nella quale possono ravvisarsi tutti i sintomi di una sindrome maniacale, Heinrich Schliemann ha commesso negli scavi un’infinità di errori, di quelli che hanno fatto inorridire gli archeologi veri, ma forse sono stati proprio questi errori che hanno permesso di raggiungere la Troia leggendaria: un archeologo vero, seguendo criteri scientifici, non avrebbe mai distrutto, come ha fatto il tedesco, i ritrovamenti risalenti alle epoche successive che ricoprivano i resti più antichi, e per questa ragione probabilmente non sarebbe mai arrivato alla Troia omerica. Criticabile ma affascinante. Così come resta un senso di rimpianto per il fatto che all’epoca non avessero ancora inventato le reflex, che avrebbero permesso di documentare passo dopo passo il ritrovamento dei resti di Agamennone a Micene, con la stupenda maschera funeraria indosso e l’ulteriore ragguardevole tesoro di cui la salma era adornata.
Ma veniamo al libro, che come dicevo non è una biografia vera e propria ma assomiglia più ad un romanzo, come del resto è anticipato dal sottotitolo. In effetti Irving Stone, non tralasciando qua e là nel libro le notizie sulla vita di Schliemann relative al suo passato, dall’adolescenza in povertà alle reiterate fortune accumulate negli anni e così via, ha voluto imperniare la vicenda sul periodo per il quale l’archeologo dilettante è diventato famoso, e ha arricchito la vicenda approfondendo con una miriade di particolari il rapporto del protagonista con la moglie Sophia, tanto da far capire al lettore come il vero tesoro greco da lui trovato, in realtà, sia stata la ragazza stessa che gli era a fianco e lo ha aiutato e sostenuto nelle sue ricerche.
In pratica il romanzo è basato sul rapporto tra lo studioso dilettante che ha finito per impostare il futuro dell’archeologia moderna e la ragazza di trent’anni più giovane che ha preso in moglie. Rapporto descritto in ogni minimo dettaglio, salvo quelli più intimi.
I particolari sono talmente tanti, dalle usanze greche ai cibi caratteristici, dal vestiario alla mobilia, dai rapporti affettuosi tra i coniugi ai loro litigi ai problemi politici tra stati, alla descrizione minuziosa di ogni singolo oggetto trovato negli scavi eccetera eccetera (ci mancava solo che avesse raccontato quante volte i protagonisti andavano al bagno ogni giorno, anche se i paragrafi sulla costruzione delle latrine improvvisate ci sono…), che se da un punto di vista culturale il venirne a conoscenza può rivelarsi interessante, da un altro punto di vista essi rendono la narrazione sovraccarica di orpelli che distraggono dalla linea principale e allungano terribilmente la lettura. Penso che il libro sarebbe stato ugualmente piacevole anche con un paio di centinaia di pagine in meno.
Ma si riesce ugualmente ad apprezzare il fascino della vicenda nonostante la prolissità, e si prova un senso di soddisfazione quando tutti gli infiniti sforzi dei coniugi vengono premiati.
Penso proprio che dovrò consigliarlo a mia moglie, che ha una vera passione per tutto ciò che è greco.
Il Lettore

sabato 20 settembre 2014

Lezioni (semiserie) di Scrittura Creativa: Settima Puntata


7 – L’INTERESSE
No, non voglio parlare di quell’arcana entità che in un tempo remoto ti davano in banca, ma dell’accezione del lemma che il dizionario Treccani riporta come “essere in mezzo; partecipare; «importare»”.
Per consentire a qualsiasi persona legga il tuo libro di arrivare fino in fondo è assolutamente necessario suscitare in essa quell’interesse che la stimoli di continuo a proseguire fino alla fine.
Il “partecipare” a ciò che leggi è quello che ti consente di continuare a leggere. Se la cosa che stai leggendo ti interessa, allora proseguirai nella lettura, altrimenti… (nel mio caso, la directory “testi valutati” del mio disco rigido è piena di romanzi abbandonati prima di essere giunto alla quarta pagina).
Piccola parentesi: un concetto del quale anche uno scrittore dovrebbe tenere conto è quello che in cinematografia è definito il ciclo dell’attenzione. Guardando un film (ma anche leggendo un libro), è stato appurato che la curva dell’attenzione di uno spettatore cinematografico medio possiede un andamento sinusoidale: essa cresce velocemente nei primi dieci minuti di visione, quindi comincia a decrescere fino al venticinquesimo minuto circa per poi risalire (sempre che ce ne sia motivo…) e replicarsi. Di conseguenza un autore dovrà rendersi conto che l’attenzione del suo pubblico sarà fluttuante e dipenderà strettamente da ciò che la lettura gli comunica. L’autore dovrà capire quando il suo testo rallenta e dovrà fare in modo di ravvivare l’attenzione del lettore al momento giusto inserendo scosse, svolte narrative o colpi di scena che permettano alla curva di risalire. Inserendo motivi di interesse.
Possibilmente l’interesse deve essere suscitato fin dall’inizio, fin dall’incipit (una delle prossime lezioni semiserie sarà dedicata a quest’argomento). Per fare un esempio vi riporto di nuovo l’incipit de Il mambo degli orsi, il romanzo di Joe Lansdale:
Quando arrivai da Leonard, la sera della vigilia di Natale, sullo stereo di casa sua c’erano i Kentucky Headhunters a tutto volume che cantavano The Ballad of Davy Crockett, e Leonard, come per una sorta di celebrazione natalizia, stava appiccando il fuoco ancora una volta alla casa accanto.”
Il  lettore ignaro non può assolutamente fare a meno di chiedersi: perché questo Leonard sta appiccando il fuoco “alla casa accanto”? E soprattutto, perché “ancora una volta”? E quelli invece che per aver letto i romanzi precedenti conoscono già le risposte ai due perché, non possono fare a meno di mettersi subito a ridere già da queste primissime battute. Ecco suscitato l’interesse fin dalle prime quattro righe, e ora la strada è in discesa.
Non è necessario che per suscitare l’interesse si debba per forza scrivere di argomenti profondi o eclatanti, non è indispensabile il minacciare olocausti nucleari  o insinuare il dubbio che Kate metta le corna a William. Anche l’argomento più banale può essere reso interessante e presentato in modo che susciti curiosità.
Prendiamo il semplice incipit di Sostiene Pereira, di Antonio Tabucchi:
Sostiene Pereira di averlo conosciuto in un giorno d’estate.
Fin dalla prima riga scatta subito la domanda: chi è che Pereira ha conosciuto in un giorno d’estate? Naturalmente Tabucchi questo ce lo fa sapere solo dopo qualche pagina, quando già sono subentrati altri motivi d’interesse che consentono di proseguire. Se Tabucchi avesse iniziato il romanzo con:
Sostiene Pereira di aver conosciuto Pinco Pallino in un giorno d’estate.
come inizio non sarebbe stato altrettanto potente, non ci sarebbe stato nulla da scoprire, se non che il fatto fosse successo il 14 luglio o il 29 agosto.
Ma non è che sia imprescindibilmente necessario partire con un buon incipit, le ragioni per innescare curiosità possono anche essere diluite nel testo delle prime pagine e moltissimi grandi scrittori hanno operato in questo modo con successo: il capitoletto che costituisce il proemio a Il nome della rosa parla del ritrovamento di un manoscritto neanche tanto misterioso, ma quale lettore non resta incuriosito da un’antica pergamena? Nel corso delle prime pagine di Galàpagos, il romanzo di Kurt Vonnegut, si viene a sapere che un non specificato io narrante sta raccontando fatti successi un milione di anni prima, nel 1986… E come fai a non proseguire la lettura? Come può passarti la curiosità di sapere chi è questo enigmatico narratore che parla da un lontanissimo futuro? 
Una volta lasciato l’incipit alle spalle, si potrà fare ricorso a varie tecniche per inserire spunti di interesse qua e là nell’elaborato per risollevare l’attenzione indebolita del lettore. Queste tecniche, delle quali magari parlerò in modo più approfondito in lezioni semiserie ad esse dedicate, potranno essere:
coerenza e precisione – dove ciò significa la completa assenza di inesattezze e contraddizioni, che nauseano il lettore attento qualora se ne accorga;
inserimento di metonimìe – come anticipazioni velate di eventi che accadranno nel prosieguo;
ricorso alle ellissi – come ho già sostenuto nell’ultima lezione, lasciate che il lettore fatichi per scoprire le cose da solo;
show, don’t tell  il lettore che ama essere coinvolto gradirà che gli si mostri un personaggio che soffre, mentre non proverà alcun interesse per il personaggio del quale l’autore dice solamente che sta soffrendo.
Ma quali sono le cose che interessano? Praticamente tutte: anche una persona che dorme può essere presentata in modo che sia interessante, ma preferibilmente l’interesse si rivolge verso argomenti o tematiche che siano di carattere sufficientemente universale. Resta inteso che il rimanere incuriosito da uno scritto dipende anche dai gusti personali e dai propri interessi: il mio percorso di studi è stato prevalentemente scientifico, di conseguenza spesso amo leggere saggi su svariati argomenti a carattere scientifico che tedierebbero coloro che amano solo i romanzi, e viceversa.
Il problema è che arrivano in redazione molti scritti inerenti le proprie riflessioni personali sui problemi della vita: ecco, quelle non interessano proprio nessuno, salvo forse la madre dell’autore.

Lo Scrittore Insegnante

giovedì 18 settembre 2014

Il bordo vertiginoso delle cose

L’ultimo romanzo che ho letto in vacanza, anche questo trovato nella memoria dell’e-reader della moglie, è stato questo Il bordo vertiginoso delle cose di Gianrico Carofiglio, con il bel titolo tratto pari pari da quel verso di Richard Browning (Our interest's on the dangerous edge of things./ The honest thief,/ the tender murderer,/ the superstitious atheist – da Bishop Blougrams Apology, nella raccolta Men and Women), che tanto caro fu anche a Graham Greene. E se vi domandaste come io abbia potuto fare questo parallelo, e il perché mi sia venuto in mente lo scrittore inglese, lo scoprirete tra qualche giorno, non appena avrò terminato di scrivere la recensione dell’ultimissimo romanzo letto.


Restando in equilibrio sul bordo vertiginoso delle cose,  Gianrico Carofiglio torna a parlare ancora della sua Bari, questa volta in forma di romanzo mentre in Né qui né altrove – Una notte a Bari (vedi), lo aveva fatto prendendo a pretesto una notte passata con due amici a parlare a ruota libera dando sfogo alle loro rimembranze.
Il plot: uno scrittore in crisi creativa viene a sapere della morte violenta di un suo conoscente di gioventù e decide di tornare nella città natale dove riallaccerà vecchie amicizie e si lascerà trasportare dalla nostalgia. Trama semplice per un romanzo semplice come lo stile di Carofiglio; da sottolineare la dicotomia tra il protagonista al presente e lo stesso protagonista giovane, che è ben segnata nella narrazione dall’uso della seconda persona singolare che scinde le due situazioni. Lo scrittore anche questa volta è riuscito a confezionare un elaborato piacevole da leggere, scorrevole e interessante: la tematica è il momento del cambiamento alla fine dell’adolescenza; un romanzo di formazione, se si vuole, con forse un po’ troppi punti di contatto con l’altro precedente Il passato è una terra straniera. La formazione di un adolescente, l’oscillare tra il bene e il male tipico del passaggio tra l’adolescenza e l’età adulta e il rischio sempre concreto di cadere dalla parte del “male”; dopodiché, qualsiasi scelta si attui, arrivano i ricordi, i rimpianti, i rimorsi.
Lettura piacevole, dicevo, ma non per questo priva di difetti: innanzitutto il “divagare” con dissertazioni di filosofia spicciola, tipico di Carofiglio anche nei romanzi dell’avvocato Gurrieri (forse con lo scopo di allungare di qualche pagina un’opera troppo breve?), e un finale un po’ sbrigativo che non fornisce molte concessioni ad una adeguata introspezione psicologica.
Comunque leggibilissimo.
Il Lettore

martedì 16 settembre 2014

Il metodo del coccodrillo

E torniamo a parlare per l’ennesima volta di Maurizio De Giovanni, stavolta dopo aver letto Il metodo del coccodrillo,  il romanzo che ha dato l’avvio alla serie con protagonista l’ispettore Giuseppe Lojacono, la quale a differenza di quella con il commissario Ricciardi è ambientata nella Napoli dei giorni nostri.

Ma giuro che non la farò tanto lunga.


Avevo già recensito il secondo volume della serie, I bastardi di Pizzofalcone (vedi), e anche in questo caso De Giovanni non mi ha deluso: il romanzo è plausibile, lo stile ineccepibile, i personaggi credibili e la vicenda scorre fluidamente verso una conclusione che appare congrua con le premesse. Un ispettore di polizia con difficili problemi personali è impegnato nelle indagini per individuare un serial killer del quale il lettore conosce da subito pensieri, tecniche e parte delle motivazioni che lo spingono ad uccidere, e per questo la tensione narrativa è innescata solo dalla curiosità di sapere come il poliziotto riuscirà ad individuarlo.
Così come De Giovanni si è trovato a suo agio nella Napoli degli anni trenta, così sembra muoversi agevolmente nella città odierna alla quale infonde un’atmosfera da metropoli impersonale, che permette ad individui senza scrupoli di spostarsi senza essere notati per portare a conclusione intendimenti criminali. Una Napoli di cui ho notato con piacere come l’autore l’abbia dipinta diversa dagli stereotipi classici: con poco sole, quasi fredda, con personaggi che per l’efficienza e il modo di interagire non avrebbero sfigurato a Milano.
Il protagonista Lojacono appare solido, sensibilmente diverso da Ricciardi ma come lui intriso di problemi personali (nel suo caso molto più terreni…) che lo rendono interessante e, come succedeva al commissario nella serie precedente, gli fanno contorno alcuni personaggi femminili ben tratteggiati che contribuiscono a dargli spessore.
Il tentativo di De Giovanni di staccarsi dai personaggi che lo hanno reso famoso è riuscito bene: i primi due libri della nuova serie sono entrambi godibili e contraddistinti da uno stile preciso e interessante. L’autore conferma ancora una volta di essere uno degli scrittori più rimarchevoli del panorama nazionale.
E la pianto qui.
Il Lettore

domenica 14 settembre 2014

Lo Squizzalibro di domenica 14 settembre

Buona domenica a tutti. L’estate sta finendo… e sulla melodia dei Righeira diamo spazio all’ultimo Squizzalibro di questa estate 2014 che per svariati motivi non si può dire sia stata delle migliori. Speriamo nella prossima.

L’oggetto di questa puntata è il quinto libro che ho letto in vacanza, ma non credo che questo possa aiutarvi molto per trovare la soluzione…


1 – Oggi dovrete indovinare un romanzo, di discreto successo, nel cui titolo compare un animale.
2 – L’autore è un prolifico scrittore italiano, in piena attività.
3 – La vicenda è un giallo, con omicida e poliziotti che gli danno la caccia.
4 – Il libro è il primo di una serie con protagonisti seriali, ma attenzione: non è la serie per la quale l’autore è diventato famoso.
5 – Di questo scrittore ho già parlato molto su questo blog (anche se non percepisco assolutamente nulla per la pubblicità), e chiedo fin d’ora perdono a tutti quei lettori che non ne possono proprio più...
Oggi ve l’ho fatta proprio facile, le vacanze mi avranno reso un po’ più buono?
Freereader

venerdì 12 settembre 2014

Avete il gabbiano Jonathan Listerine?

Il tedio di un pomeriggio passato su una spiaggia con un sole che ti arrostisce, la scomodità della sabbia e/o dei ciottoli, il fastidio del vento, l’angoscia del non avere nulla da fare se non aspettare che arrivi l’ora di cena ti spingono a leggere cose che in condizioni normali non prenderesti mai in considerazione: so per esperienza quanto siano noiosi i commentari, ma cosa vuoi, quando la tua mente obnubilata dall’uggia rifugge cose più impegnative ti attaccheresti anche alle scritte sulla carta igienica.


Avete il gabbiano Jonathan Listerine? è uno stupidario, un florilegio di situazioni occorse nella libreria dell’autore e riportate dapprima nel blog dello stesso e quindi raccolte in un volumetto di poche decine di pagine insieme a diagrammi a torta e grafici in coordinate cartesiane nei quali Stefano Amato, spesso anche con ironia, suddivide le categorie di lettori e di utenti del suo negozio di Siracusa in base a criteri che vorrebbero essere umoristici e sarcastici. A volte ci riesce anche.
Come tutti gli stupidari (quelli realizzati dai farmacisti, dai medici, dai gestori dei negozi di informatica, dai centralinisti, dai benzinai, dagli operatori di call-center eccetera eccetera), questo libro raccoglie gli sfondoni e le situazioni paradossali in cui vengono a trovarsi gli addetti alle più svariate occupazioni quando trattano con persone ignoranti, nel senso più esteso del termine. La storpiatura dei titoli dei libri sembra essere una cosa normale, ma di personaggi strambi al mondo ce ne sono tanti, e come si fa a dare credito al cliente che ti chiede insistentemente di ricercare il libro del quale non ricorda né titolo, né autore, né casa editrice né tantomeno la trama?
E come si riesce a trattenersi dal prendere a sberle il cliente che ti accusa di violazione della privacy quando gli chiedi la carta d’identità insieme alla carta di credito? O quello che pretende di farsi sostituire il libro acquistato dieci anni prima?
Per non parlare del comportamento insopportabile di alcuni clienti di tutti i giorni, dalla nonna che deve comprare un regalo per il nipote agli impiccioni che si intromettono a forza nelle scelte degli altri clienti, e chissà perché quelle poche ragazze carine che hanno voglia di parlare con il libraio càpitano invariabilmente nei momenti di maggiore affollamento…
A corredo delle battute Stefano Amato inserisce anche una serie di rassegne nelle quali descrive e analizza di volta in volta alcune categorie di cose o personaggi che hanno a che fare con i libri, ad esempio le peggiori tipologìe di fotografie che gli autori riescono a inserire nelle quarte di copertina (autore sorridente, autore serio, autore con sigaretta, autore con gatto, autore in posa plastica ecc.), oppure la classifica dei clienti con cui i librai non vorrebbero mai avere a che fare, e una quantità di diagrammi che illustrano, per esempio, le corrispondenze tra le scarpe Hogan e i libri di Fabio Volo o il rapporto esistente tra il valore intrinseco di un libro e il grado di amicizia con il libraio di chi lo acquista (più l'amicizia è profonda, più il libro è insulso).
Come tutte le raccolte del genere, a partire da quella più famosa che con tutta probabilità è Anche le formiche nel loro piccolo si incazzano, il libro si lascia leggere e riesce a strapparti anche un sorriso ogni tanto, ma più che altro è noioso (ti accorgi di procedere per inerzia, una battuta dopo l’altra come i popcorn al cinema) e sterile per le battute stringate per lo più fini a se stesse e delle quali manca la contestualizzazione e una sia pur minima descrizione dei personaggi.
Non mi sarebbe mai venuto in mente di comperare un libro del genere, e l’ho aperto solo perché l’ho trovato nell’e-reader della moglie. Dietro mia richiesta, nemmeno la proprietaria del lettore ha saputo spiegarmi come ci fosse finito dentro.
Il Lettore

mercoledì 10 settembre 2014

Quantum

Era diverso tempo che non leggevo un romanzo di quella fantascienza che ha avuto un ruolo importante negli anni della mia giovinezza, sarà perché il tempo dei razzetti è finito da un pezzo, perché molti degli avvenimenti preconizzati dai vari autori si sono avverati realmente e perché, anche in questo campo, di trovate realmente originali ce ne sono rimaste poche da inventare.


Anche in questo caso, infatti, il plot di base di Quantum, seppur interessante, non è affatto originale: nel Darfur viene rinvenuto un oggetto alieno incastonato in una roccia la cui genesi risale a 250 milioni di anni fa. Ben presto un gruppo di scienziati scopre che il manufatto potrebbe creare sconvolgimenti inimmaginabili nelle concezioni religiose di qualsiasi credente e di conseguenza nell’equilibrio politico delle maggiori religioni del pianeta, e sono proprio i rappresentanti di queste ultime che decidono di strappare l’oggetto dalle mani degli scienziati che andranno tacitati definitivamente. Alla faccia di qualsiasi Dio buono e pietoso.
In pratica, al di fuori dell’idea fantascientifica di partenza, il romanzo è più che altro un thriller imperniato sulla caccia che gli agenti segreti di CIA, Mossad, Vaticano e Islam (più qualche indipendente…) danno a questi poveri ricercatori interessati al manufatto solo per il suo valore scientifico.
I presupposti di partenza del romanzo sono buoni e affascinanti (a chi non piacerebbe incappare in un oggetto che provi l’esistenza di esseri extraterrestri?), ma l’aspetto fantascientifico mostra molti buchi poco plausibili (a partire dal fatto che l’oggetto, da appena ritrovato, si esprime in un inglese perfetto e conosce già tutta la terminologia scientifica corrente, per finire con l’assenza di qualsiasi spiegazione sui creatori dello stesso) e ben presto si tramuta in un semplice gioco di guardie e ladri, o di gatti e topi, o di leoni e gazzelle, o… ci siamo capiti, basta.
Ma non per questo dirò che il romanzo fa schifo, anzi. Io l’ho letto con piacere, perché Dean De Servienti è riuscito a costruire un romanzetto leggero ma piacevole, dal ritmo narrativo veloce e scorrevole dominato dalla curiosità di sapere se gli scienziati riusciranno a farla franca e con colpi di scena a volte un po’ scontati ma altre volte interessanti. E non mancano nemmeno le storie d’amore. Sì, va be’, alcune situazioni sono poco credibili e la traduzione non è che sia un gran ché, a partire da quell’usare spesso il verbo “panicàre”, per il provare paura, che non ho trovato in nessun dizionario, ma in definitiva il racconto è godibile.
Per far passare qualche ora di una notte insonne su un odioso traghetto nel bel mezzo dell’Adriatico ha svolto il suo sporco lavoro.
Il Lettore

lunedì 8 settembre 2014

Ingredienti per una vita di formidabili passioni

Ho letto diversi libri di Luis Sepulveda, a partire da quel Il vecchio che leggeva romanzi d’amore con il quale lo scrittore cileno è diventato famoso, e devo dire che nella maggior parte dei casi i suoi scritti mi sono piaciuti, forse perché ho trovato nel loro stile un allontanamento da quella matrice sudamericana che in diversi altri autori mi annoia verso una tecnica più marcatamente europea, e questo probabilmente a causa dell’esilio al quale Sepulveda è stato costretto e che gli ha fatto passare una buona parte della sua vita al di fuori della sua patria.


Diciamo subito che questo Ingredienti per una vita di formidabili passioni non è un romanzo, ma una serie di considerazioni dell’autore sulla propria vita e su fatti che gli sono successi. Una specie di biografia in 27 capitoli, dalla passione adolescenziale per il calcio e i primi innamoramenti, attraverso l’impegno politico e l’amicizia con poeti e scrittori, alle lotte dalla parte dei lavoratori contro il capitalismo e i distruttori dell’ambiente, per finire con il ritorno in famiglia a gioire di figli e nipoti.
Be’, certo, quando uno conosce Salvador Allende, cresce con Pablo Neruda, dialoga con Josè Saramago, è amico di Gabriel Garcia Màrquez, riceve lezioni di sceneggiatura da Tonino Guerra e conduce una vita impegnata in viaggio per mezzo mondo, è facile che di fatti che interessano i lettori ne abbia diversi da raccontare, ma in ogni caso bisogna sempre saperlo fare, e si deve ammettere che Sepulveda lo sa fare talmente bene che molto spesso durante la lettura ci si sente indignati, oserei dire incazzati neri, per come l’autore dipinge le situazioni politiche, a partire da quella cilena fino a quella spagnola (sembra di essere in Italia, ma lasciamo perdere la politica che il lettore eccetera eccetera). Sepulveda attacca senza pietà i regimi totalitari, i politicanti corrotti, le multinazionali che rigirano i governi come pare a loro (vedi il termine “politicanti corrotti”), i criminali distruttori dell’ambiente e tutti coloro che sfruttano il lavoro altrui, e proprio a riguardo di quest’ultimo punto l’autore insiste sul significato del proprio lavoro, svolto in nome del lavoratore umile e sconosciuto, quel “fare letteratura” che dovrebbe significare il dare voce a chi non ha voce.
Le riflessioni sulla crisi economica e sulle sue cause sono istruttive e i ricordi della dittatura subìta dai suoi compatrioti angoscianti, ma nel resoconto c’è posto anche per le gioie che si possono trovare in seno alla famiglia, o per le bellezze struggenti del deserto di Atacama, o per la dolcezza del ricordo di un amico a quattro zampe o dei primi amori.
Insomma, con questo libro di ricordi si ride (poco), ci si commuove (un po’ di più), ci si incazza (spesso), e si impara qualcosa. Molto meglio di una gabbianella e di un gatto qualsiasi.
Il Lettore

sabato 6 settembre 2014

L’ultimo re

Ben ritrovati a tutti! In questi cinque giorni di vacanza (più due di viaggio di cui ben 28 ore complessive di traghetto…) ho letto quattro romanzi, un libro di memorie e una raccolta di situazioni che avrebbero voluto essere umoristiche e in qualche caso sono anche riuscite a strapparmi un sorrisetto. Sei libri in sette giorni, bella media. Cosa c’è di meglio di un buon libro per farti passare in modo più sopportabile il tedio del traghetto e la noia della spiaggia? Nei prossimi giorni vi darò resoconto di tutto.

Cominciamo con questo L’ultimo re, di Bernard Cornwell, un romanzo storico ambientato nel nono secolo dopo Cristo in un Inghilterra che ancora non aveva questo nome, fatta oggetto di conquista dai temuti e leggendari vichinghi.


Non conoscevo Bernard Cornwell, e quando me ne hanno parlato bene mi si è innescata subito la curiosità di approfondire: ho scoperto così che è un prolifico e apprezzato autore di romanzi storici, dei quali in giro per la rete si trovano recensioni unanimemente entusiastiche. In effetti questo L’ultimo re, che è il primo volume della serie che racconta la cronaca dei re sassoni, è un romanzo scritto bene e piacevole da leggere, il cui maggior pregio secondo me è la coerenza: Cornwell ti conduce in un mondo di 1200 anni fa con competenza e rigore storico, senza mai incorrere in castronerie che manderebbero all’aria il patto di sospensione dell’incredulità. Per fare un paragone azzardato, non vi sono orologi al polso della comparsa nella parte del centurione in un film su Giulio Cesare.
Adottando il pretesto di raccontare il tramutarsi in uomo di un nobile adolescente, Cornwell descrive nel dettaglio la situazione storica di una terra senza ancora quell’unità che la contraddistinguerà in futuro, e nella quale si succedono invasori che ne vorrebbero fare la propria residenza permanente. Dal panorama storico ai particolari delle armi, del cibo, del vestiario e delle abitudini, l’autore dipinge un mondo in un momento di cambiamenti epocali, un mondo fatto di piccole enclavi separate all’indomani dell’abbandono di quelle terre da parte dei romani che vi avevano imperato per secoli, di piccoli staterelli separati il cui suolo fertile faceva gola a popoli senza una terra produttiva né un clima adeguato a poterla coltivare.  Oggi sappiamo già che i danesi, i cosiddetti “vichinghi”, non riuscirono a conquistare la Gran Bretagna, e questa serie di libri ci aiuta a capirne il perché.
Il libro è scritto con brio e con mestiere: attraverso le avventure del protagonista, molto spesso condite di sangue, lotte, battaglie, tradimenti, riscatti e apoteosi finale, Cornwell riesce benissimo ad affrescare un momento storico fornendo diverse ore di piacevole ed istruttiva lettura, seguendo la scia di altri autori che si sono cimentati con successo nello stesso genere: al momento mi vengono in mente il Ken Follett de I pilastri della terra, o per restare in casa nostra il Valerio Massimo Manfredi de L’ultima legione.
L’unica cosa che non ho capito è la seguente: perché intitolarlo L’ultimo re quando il romanzo tratteggia le gesta del primo re riconosciuto della futura Inghilterra? La risposta è insita nell’ignoranza dei responsabili delle case editrici (in questo caso Longanesi per la prima edizione italiana e TEA per le successive): il titolo originale del romanzo è The last Kingdom, che tradotto letteralmente sarebbe L’ultimo regno. In questa veste un senso si potrebbe anche trovare, individuando quell’ultimo regno nella forma di governo di uno degli staterelli inglesi più potenti al tempo dell’invasione danese, ma chi ha deciso il titolo dell’edizione italiana ha dimostrato così di non aver nemmeno letto il romanzo.
In che mani…
Il Lettore