venerdì 29 novembre 2013

Per chi scrivo? Per me? Per gli altri?

Umberto Eco, nelle Sei passeggiate nei boschi narrativi, attribuisce l’epiteto di “narcisisti disonesti e mendaci” a tutti coloro che sostengono di scrivere per se stessi. Io mi limito a sostenere che essi sono solo degli ipocriti, in quanto sono convinto che se si prende una penna in mano è per incidere dei segni confidando che prima o poi vengano decifrati da qualcun altro.


Secondo Eco si scrive per se stessi solo la lista della spesa, ma anche quella in genere si compila per il coniuge che per farti un dispetto tende troppo spesso a dimenticarsi quelle spinaci che proprio non riesce a strozzare.
E anche Roberto Cotroneo, nel suo Manuale di scrittura creativa per principianti, sostiene che “si scrive per gli altri, mai solo per se stessi”, e che anche quelli che tengono un diario non lo distruggono perché “in fondo al loro cuore sperano comunque di farlo leggere a qualcuno un giorno, un eletto, l’unico magari degno, ma quel qualcuno potrebbe un giorno condividere con loro il piacere della scrittura”.
Ritengo che il sostenere di scrivere per se stessi sia sterile, che sia un masturbarsi intellettivo che può dare una soddisfazione momentanea ma non porta a nulla se non ad un rinchiudersi ancora di più in se stessi. E che chi insista nella convinzione in realtà menta sempre a se stesso. Se si scrive lo si fa sempre per qualcun altro, anche se questo qualcun altro è per il momento soltanto nascosto nelle pieghe della coscienza. E’ un dialogo che si instaura con un lettore ipotetico.
E la conseguenza è che ciò ti costringe tutte le volte al dover scrivere in ogni caso al meglio che puoi, perché è invece un diritto di quel lettore ipotetico il potersi confrontare con una prosa pulita, senza errori, sbavature o sgrammaticature o concetti confusi, indipendentemente dallo stile e dai contenuti, per poterne assimilare il messaggio nel modo più rispondente possibile a quelli che sono stati gli intendimenti dell’autore. Un assioma che ne deriva è che quando consegni un tuo scritto ad un qualsiasi  lettore, quello scritto non è più tuo, è diventato un’opera che appartiene a tutti e tutti ne possono trarre qualsiasi significato vogliano, che siano o no in accordo con quello che tu hai voluto trasmettere. E a quel punto dovresti anche saper ricevere, non dico accettare, gli eventuali commenti che ti potrebbero arrivare addosso, positivi o negativi che siano.
Non ci si deve domandare se si scrive per se o per gli altri, ma bisogna in ogni caso scrivere in modo che ciò che si rilegge sia gradito a se stessi. Nonostante si scriva sempre per qualcun altro, il proprio Io deve essere considerato il Lettore più importante, bisogna soddisfarlo scrivendo in modo che esso provi un senso di appagamento ad ogni rilettura. Scrivere quindi su argomenti che Gli interessino con uno stile tale da darGli piacere; scrivere in modo che l’Io Lettore possa stimare l’Io Autore. E questo non significa scrivere per se stessi, ma operare in modo che ciò che piace a se stessi possa poi piacere anche a quegli altri che potrebbero essere i veri destinatari.
Penso che nel momento in cui una persona si accinge a scrivere i suoi pensieri debba sempre tenere a mente questi concetti, insieme a qualche centinaio di altre regole di alcune delle quali magari si parlerà in seguito.
Lo Scrittore
PS: Un grazie al “maestro” per l’immagine… 

mercoledì 27 novembre 2013

La grande fuga dell’Ottobre Rosso

Il primo ottobre passato è morto, all’età di 66 anni, lo scrittore Thomas Leo Clancy Junior: un autore che ha portato ben 17 libri fino in vetta alle classifiche di vendita. Come piccolo omaggio vorrei recensire (ma è solo una scusa) il suo primo romanzo, dopo 27 anni dalla sua pubblicazione, quello che lo ha portato al successo e da cui è stato tratto il film Caccia a Ottobre Rosso con protagonista Sean Connery.


In realtà, voci di corridoio affermano che La grande fuga dell’Ottobre Rosso, uscito in Italia nel 1986, non sia stato il primo romanzo che Clancy ha scritto, essendo stato preceduto nella stesura da Uragano Rosso, pubblicato l’anno successivo in seguito al successo del romanzo d’esordio (se ci si fa caso, infatti, lo stile di Uragano Rosso è più “grezzo”, meno maturo). Si dice anche che la vicenda dell’Ottobre Rosso gli sia stata suggerita dalla notizia di una fregata che aveva tentato la diserzione dalle fila della marina sovietica. Fatto sta che anche lui, come Frederick Forsyth, ha centrato il bersaglio al primo tentativo e ha continuato poi ad inanellare centri su centri: oltre alla serie su Jack Ryan che conta sedici volumi, Clancy ha creato le altre nutrite serie Op-center, Power Plays, Net Force Explorers e Splinter Cell, oltre a numerosi saggi su tematiche militari, sceneggiature per videogiochi e altri romanzi extraserie.
Dalla sua Clancy aveva un’ottima conoscenza della macchina amministrativa statunitense oltre che degli ultimi ritrovati in fatto di armamenti e delle tattiche militari sia americane che sovietiche, e questa conoscenza l’ha riversata a piene mani nei suoi romanzi passando con disinvoltura dagli scontri nascosti della guerra fredda alle lotte contro il narcotraffico e quindi  al terrorismo. Per l’esercito e le armi aveva una vera e propria passione: oltre a possedere un poligono sotterraneo privato nel quale allenarsi con la sua Beretta 92FS, con i proventi dei suoi primi libri si era comperato un Hummer H1 e nientepopodimeno che un carro armato M4 Sheridan del 1943, ed era un socio emerito della famigerata National Rifle Association, la potente lobby dell’industria delle armi. Ovviamente era un repubblicano convinto.
Ma a parte le criticabili passioni, Tom Clancy scriveva veramente bene. Perlomeno finché i suoi libri li scriveva lui. Lo stile era pulito, lineare, molto facile da seguire e mirato dritto al punto. Considerate che uno dei suoi libri, Clear and present danger (in italiano Pericolo imminente), sono riuscito facilmente a leggerlo per intero anche in lingua originale.
La serie su Jack Ryan, della quale La grande fuga dell’Ottobre Rosso è il primo episodio, vede questo anonimo insegnante di storia, ex sottotenente del corpo dei Marines, passare dall’essere un consulente esterno della CIA al diventare il Presidente degli Stati Uniti, in fondo coronando quello che è il più comune sogno americano, attraverso una serie di romanzi che si leggono tutti d’un fiato e che nonostante la mole sono densi di tensione narrativa, supportata da inneschi ripetuti della curiosità e dalle scene d’azione che si succedono frequentemente. Nella Grande Fuga, per esempio, la spinta a continuare a leggere è innescata fin da subito dalla diserzione del sottomarino con tutto il suo equipaggio: ce la farà a scappare? Lo riprenderanno? E in seguito è nutrita dall’inserimento di elementi destabilizzanti (i classici “intoppi” narrativi), da trovate tecniche e scene d’azione che la mantengono desta capitolo dopo capitolo fino alla risoluzione. Un gran libro. E una volta tanto anche il film che ne hanno tratto è stato all’altezza dello scritto.
Quando Clancy, ormai ricco, ha cominciato a pubblicare in collaborazione (con Steve Pieczenick, David Michaels, Peter Telep e altri, nel senso che lui forniva le idee, forse, o solamente il nome, e gli altri scrivevano), la scrittura ha cominciato a decadere e ho smesso di leggerlo. Ma i suoi primi romanzi sono ancora in bella mostra su uno dei principali scaffali della mia libreria.
Il Lettore

lunedì 25 novembre 2013

Steve Jobs

Tra indisposizioni di Telecom, malori del Wi-Fi casalingo, acciacchi senili, obblighi genitoriali, doveri lavorativi, vincoli sociali, giri di qua e giri di là, questa settimana sono stato costretto a tralasciare l’appuntamento con lo Squizzalibro. E non sono nemmeno riuscito a terminare la lettura di qualcosa di nuovo, per cui oggi mi limiterò a fornire la recensione di un libro che ho letto da qualche tempo.

Due volte.


È ovvio che se ti metti a scrivere la biografia di un personaggio al quale in tutta la sua vita non è successo nulla di eclatante potresti correre il rischio di redigere un testo mortalmente noioso (ma anche no, vedi lo Stoner di Williams). D’altra parte, se il personaggio da trattare è interessante, e tu scrivi come un politico chiamato a fare qualcosa di sensato, il risultato sarà lo stesso.
Ma se metti insieme un uomo la cui vita è stata molto interessante, e la fai raccontare da uno scrittore molto bravo, non può uscirne fuori altro che un capolavoro.
Ho letto due volte questo libro di ben 625 pagine, e in ognuna mi sono lasciato prendere da una tensione narrativa maggiore di quella che si può riscontrare in molti romanzi. Un po’ quello che mi è successo anche leggendo Open, la biografia di Andrè Agassi.
Le ragioni sono quelle che ho accennato: prima di tutto uno Steve Jobs che è stato una delle icone del Novecento, con tutti i suoi pregi e tutti i suoi difetti che Walter Isaacson non cerca affatto di nascondere. È estremamente interessante conoscere come è cresciuta e i risvolti nascosti di una personalità originale sia in positivo che in negativo, una personalità che ha saputo spiccare in un mondo in formazione come quello dell’informatica, che ha creato uno dei marchi più famosi al mondo, che è crollata e ha saputo risollevarsi fino ai vertici, che era dotata di un intuito fenomenale, ma anche di una boria e di un’antipatia da guinness dei primati.
E poi l’autore, già personalità influente nel campo dei media statunitensi, giornalista e scrittore, già premio Pulitzer, ha saputo articolare la vita dell’imprenditore (impiegandoci più di due anni) dipanandola in senso strettamente cronologico ma facendo in modo di non incorrere in cali di tensione (aiutato anche dalle vicende personali di Jobs), con uno stile fluente che non ha nulla da invidiare ai più rinomati romanzieri. Come dice lo stesso Isaacson: “Jobs non è stato né un capo né un uomo modello; non è stato la persona ideale da emulare (…) ha fatto infuriare e disperare chi gli stava vicino (…) la sua storia ha un valore sia istruttivo sia ammonitorio”. Evidentemente i due si sono aiutati a vicenda nel dare vita a un libro che ripercorrendo la storia di Jobs fornisce uno spaccato affascinante degli ultimi vent’anni dello scorso secolo.
Di sicuro è uno dei libri più belli che ho letto negli ultimi due anni. Mi ha fatto venire voglia di leggere anche la biografia di Albert Einstein scritta dallo stesso Isaacson.
Il Lettore

venerdì 22 novembre 2013

La principessa di ghiaccio

Scusatemi se in questi giorni ci saranno dei ritardi nelle pubblicazioni, ma Telecom sta facendo i capricci (non se ne può più!), e mi ritrovo senza connessione.
Hanno definito Camilla Läckberg come l’Agatha Christie venuta dalla Svezia. Più che altro io la definirei come il baccalà, venuto dalla Svezia.

Ma che dico? Il baccalà a me piace (soprattutto impastellato e fritto); questo volume tutt’al più si potrebbe utilizzare come sottopentola. Per inciso, notare la copertina orrenda:


Forse un parallelo con la Christie si potrebbe anche fare: pure l’inglese ha infarcito molti dei suoi romanzi di brani noiosi, ma l’essere un genio porta con sé il non sottovalutabile risvolto di saper trovare quell’originale colpo di scena finale che le ha permesso di creare non pochi capolavori. Invece, quanto a brani noiosi, la Läckberg è riuscita a superare la Christie, e di molto. Tanto che non sono nemmeno riuscito a finire il libro e l’ho abbandonato a metà.
Avete presente quando in un libro non succede assolutamente nulla? Ecco. Non basta mettere un cadavere nel primo capitolo per costruire un giallo, quando poi non fai succedere il minimo fatto interessante almeno fino a metà libro: almeno duecento pagine di colloqui insulsi, di spostamenti inutili di qua e di là, di descrizioni di come sono vestiti tutti i personaggi (ma chissenefrega!), di dubbi cretini della protagonista (ma con questo ci andrò a letto? Forse sì, ma forse anche no. E nel caso, cosa potrà mai pensare? E so poi rovino un’amicizia? E poi cosa potrà mai succedere? Ma dagliela e falla finita!), di stupide angosce irritanti (e adesso questo come lo scrivo? E se mi viene male? Ma sarò capace? Non sarà meglio che scrivo quest’altro? E se vendessero la casa dei miei genitori, che fine faranno i miei ricordi? Si perderanno nell’oblìo o saprò conservarli? Ma lì, ci vado o non ci vado? E se ci vado, cosa ci vado a fare? Aiutooo!!!).
Arrivato a metà non ce l’ho fatta più: la stucchevolezza dell’autrice ha surclassato alla grande anche quel briciolo di curiosità su chi potesse essere l’assassino (ricordate il cadavere del primo capitolo? Ecco, non lo so ancora chi l’ha ammazzato, e non me ne può fregare di meno. Anzi, se l’omicida avesse accoltellato anche l’autrice non avrebbe fatto niente di male. E poi è possibile anche che il personaggio si sia suicidato dalla noia: come è stato creato ha guardato negli occhi la propria artefice, ha capito la situazione… e i polsi se li è tagliati da solo).
Tanto per restare in Svezia, avete presente la trilogia di Stieg Larsson? Tutta un’altra cosa.
Il Lettore

mercoledì 20 novembre 2013

La lista nera

Uno dei più grandi piaceri per un lettore è quello di capitare “per caso” in libreria e trovarci l’ultimo uscito di uno dei tuoi autori preferiti, del quale non sapevi che fosse imminente la pubblicazione. È quello che mi è successo venerdì pomeriggio, quando mi sono imbattuto in questa novità di Frederick Forsyth.

La mezzanotte di domenica era già finito.


Adoro Forsyth, fin dal primo suo romanzo che ho letto, quel Il giorno dello sciacallo che costituisce anche il suo romanzo d’esordio. Quando uno debutta con un capolavoro che cosa gli vuoi dire? Bravo, continua così. Ed è quello che l’autore inglese ha fatto, alternando opere splendide ad altre un po’ meno, ma mantenendosi sempre su livelli eccellenti sia nel romanzo che nel racconto: Nessuna conseguenza rimane sempre uno dei più bei libri di racconti che io abbia mai letto.
Nei suoi romanzi Forsyth ha sempre trattato di spionaggio e guerre palesi o nascoste tra Stati (se fosse nato prima avrebbe indagato anche su Inghilterra-Germania ai tempi della seconda guerra mondiale), partendo da Francia-Algeria per continuare con USA-URSS, USA-Vietnam e Coalizione-Iraq, per finire con Stati Occidentali vs Terrorismo Islamico, tematica che costituisce l’ossatura di tutte le sue ultime opere. Dopo il resoconto dell’attentato a Charles De Gaulle, Forsyth ha di nuovo raggiunto la vetta dell’eccellenza con parecchi altri romanzi, da I mastini della guerra a Il pugno di Dio, per nominarne solo due, fino a quel Il Vendicatore che ho letto almeno 4 o 5 volte, tanto per studiare come si scrivono le scene di azione. Dopo l’11 settembre 2001 Forsyth ha eletto i fanatici musulmani a nemico preferito dei suoi eroi, non mancando mai però di rimarcare gli aspetti positivi dell’Islam moderato.
Al di là delle considerazioni politiche e della tematica ultranazionalista ed epica (nei suoi romanzi il “buono” è quasi sempre un ufficiale inglese o americano iperspecializzato che combatte contro il cattivo di turno adoperando tutti gli ultimi ritrovati della scienza militare), sulle quali si può essere d’accordo o meno, l’aspetto che più mi preme sottolineare in Forsyth è quello della scrittura: se ti piacciono i libri d’azione su uno sfondo di politica internazionale, allora Forsyth rimane sempre il top.
Anche se…
Su quest’ultima prova, per esempio, non posso fare a meno di separare il mio io in una scissione dualistica: il me stesso che ha divorato il romanzo con grande piacere, e l’altro me stesso che ha trovato in esso un mucchio di difetti.
Perché da un lato La lista nera è una scopiazzatura degli ultimi romanzi dello stesso Forsyth: stessa tematica de L’Afgano e Cobra, stessi stereotipi, stessi nemici, stessi personaggi di supporto, stesse procedure operative, stesse tecniche d’indagine, stessi combattimenti, stessi SAS, stessi lanci HALO, simili risoluzioni e finale quasi scontato, tanto che leggendo viene da pensare a quanto è brutta l’abbinata fama-vecchiaia, che porta un autore a ripetersi nonostante non credo abbia bisogno di soldi (chissà perché ora mi è venuto in mente Camilleri?). Senza contare il pressappochismo della traduzione e quei quattro o cinque refusi (perfino un Golda Meyer (!!!) al posto di Golda Meir) che in un Omnibus Mondadori uno non si aspetta proprio di trovare e quando invece ti spiccano davanti agli occhi ti incazzi proprio.
Ma d’altra parte c’è uno stile di scrittura superbo, portato avanti in un modo tale che anche se ti accorgi che si sta ripetendo non puoi fare a meno di smettere di leggere. Le descrizioni sono sempre calzanti e interessanti, l’azione è azione pura, senza distrazioni, la profonda conoscenza dei particolari viene trasmessa in modo impeccabile e interessante, la tensione narrativa è innescata fin dall’inizio e non gli è mai consentito di calare, la sospensione dell’incredulità non ha tentennamenti.
Sarà l’affezione che provo per questo autore, ma nonostante sia consapevole dei difetti che vi ho trovato, per me rimane una buona lettura, che mi ha divertito ed è riuscita a sottrarre qualche ora al sonno (cosa sempre più difficile…).
Il Lettore

lunedì 18 novembre 2013

Lettera sulla felicità

Che cosa si può dire di una lettera che ci arriva dopo 2300 anni che è stata spedita? Come minimo che i ritardi delle Poste si fanno sempre più esagerati. Ha ha ha. Sì, lo so da solo, grazie: battuta di bassa lega.

Ma non dobbiamo rimanerne amareggiati, anzi, dobbiamo essere contenti che perlomeno ci sia arrivata, questa lettera, insieme agli altri scritti di questo pensatore che nel corso dei secoli è stato ingiustamente perseguitato, frainteso, discreditato, calunniato, sottovalutato, equivocato, condannato fin da quando era ancora in vita.


In questa lettera che Epicuro ha inviato a Meneceo sono riassunte le basi della dottrina del filosofo greco, in seguito distorte dai suoi numerosi detrattori che ne hanno evidenziato l’aspetto superficiale ed edonistico  senza voler indagare a fondo sui contenuti.
Contenuti che inneggiano al piacere, sì, ma soprattutto al piacere derivante da una semplicità di vita da seguire in ogni manifestazione, rifuggendo esagerazioni, lussi ed eccessi. Epicuro trova che la felicità sia nella semplicità, nell’amicizia, nelle piccole cose, nei desideri “naturali” e nella consapevolezza della conoscenza personale di quali siano questi desideri.
Epicuro sottolinea che ogni piacere è un bene, ma che vi sono piaceri e piaceri, e che tutto va preso con discrezione e cognizione di causa: “l’abbondanza si gode con più dolcezza se meno da essa dipendiamo. (…) Quando dunque diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il semplice piacere dei goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma quando aiuta il corpo a non soffrire e l’animo a essere sereno.
Come dargli torto?
È leggendo questa lettera che inoltre si capisce in pieno il concetto di come sia insensato temere la morte: “La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non sono più. (…) Il vero saggio, come non gli dispiace vivere, così non teme di non vivere più. La vita per lui non è un male, né è un male il non vivere.
Mi ripeto: come dargli torto?
Il Lettore

domenica 17 novembre 2013

Lo Squizzalibro di domenica 17 novembre

Bene, rientriamo in carreggiata e bando alle domandine facili facili. Oggi dovrete indovinare il titolo di un’opera scritta da…
1 - … un filosofo.
2 - L’autore è molto conosciuto, ma le sue idee sono state spesso equivocate.
3 -  Il filosofo in questione è morto da diversi anni, e per i suoi concetti è stato perseguitato anche in vita.
4 – Il testo in questione non è “un’opera filosofica” vera e propria, ma una lettera che l’autore ha scritto ad un amico (e che poi è stata pubblicata in tempi moderni).

5 – Nella missiva, il filosofo fornisce all’amico dei consigli per quella che secondo l’autore potrebbe essere una vita migliore.


Rileggendo mi accorgo che sono stato condiscendente anche questa volta… va be’, la prossima settimana mi ingegnerò di farlo più difficile.
Freereader

venerdì 15 novembre 2013

Pagina nuova, vita nuova

Io non so resistere ai suggerimenti. Quando mi consigliano di leggere un libro o un autore che non conosco è più forte di me, devo cedere al più presto alla tentazione (a questo riguardo leggete anche il post di qualche tempo fa sul Contrappunto del tabacco e dello zucchero di Fernando Ortiz).

E allora,visto che sono cominciate a pervenirmi richieste di mie opinioni personali su alcuni titoli di libri, non ultimo l’Achille pié veloce che ho recensito qualche giorno fa, e che la cosa mi ha fatto anche piacere, ho pensato di inserire nel blog una nuova pagina dal titolo “Consigli per la lettura”, alla quale potrete accedere cliccando sul titolo che troverete proprio qui a destra sotto la scritta “Pagine a lato”.


A destra, proprio dove guarda il signor Rossi… un po’ più giù… proprio qui a fianco... ecco, ci sei!
Inserendo un vostro commento nella sezione dedicata di questa pagina (in fondo alla pagina troverete “posta commento”), potrete consigliarmi di leggere qualsiasi cosa vi interessi, e io aggiornerò i titoli consigliati nel testo della pagina man mano che mi perverranno.
E’ ovvio, non è che posso promettere che appena mi arriverà un consiglio schizzerò subito in libreria, ma compatibilmente con i tanti altri miei impegni ;-) mi darò da fare  per trovare quel libro, leggerlo e recensirlo in un tempo spero ragionevole.
È altrettanto ovvio che più persone mi consiglieranno lo stesso titolo e più mi darò da fare, ma certo che se il titolo o l’autore consigliati fossero già inseriti nella mia personale lista nera…  allora be’, forse il mio impegno non sarà profuso del tutto al cento per cento. Ma non mancherò comunque di avvertire il consigliante.
Freereader

martedì 12 novembre 2013

La banda Sacco

Sorpresa! Non vi faccio aspettare domani per la soluzione, dando fondo all'ultimo rimasuglio di buonaggine che mi è rimasta ve la do subito.
Un “western alla siciliana”, l’hanno definito.
Capacità da grandi scrittori”, hanno inneggiato al suo autore.
Ma per carità! Ma mi faccia il piacere! Ma quale western! Ma quale capacità!
Parole ad effetto, mirate solo a far vendere qualche copia in più. Pura pubblicità. Ci hanno scomodato anche Leonardo Sciascia e Alessandro Manzoni, per poter far raggiungere a questo libretto le vette delle classifiche di vendita nel più breve tempo possibile.

Ce ne fosse stato bisogno.


Per inciso: il libro è già stato scalzato dalla vetta della classifica dall’ultima porcata di Fabio Volo. Se fossi Andrea Camilleri un pochino mi incazzerei pure.
Intendiamoci, non che l’ultima fatica di Andrea Camilleri faccia schifo, ma quello che irrita la mia vena polemica è che, come è successo per Il Tuttomio e Dentro il labirinto, se questi libri li avesse firmati un Signor Nessuno,  nessuno se li sarebbe filati di striscio, tantomeno gli editori. Altro che arrivare in testa alle classifiche.
Del parallelo con un western alla siciliana (citazione presa da Sciascia) ne sono venuto a sapere solo dopo aver terminato il libro: questo paragone, mentre lo stavo leggendo, non mi è mai passato nemmeno per l’anticamera del cervello. Anche negli western all’italiana di quarta categoria c’è una manciata della tensione narrativa che manca in quest’opera. E la capacità dei grandi scrittori di sicuro non si vede: chiunque dotato di un briciolo di talento sarebbe riuscito a compendiare un riassunto dei fatti emersi dal carteggio fatto pervenire all’autore da un discendente della famiglia Sacco. Al di là del consistente uso del dialetto siciliano e delle lucide analisi politiche, il libro potrebbe essere stato scritto da un qualsiasi oscuro storico di provincia. E se non fosse firmato Andrea Camilleri, invece che al primo posto in classifica starebbe ora raccogliendo polvere sugli scaffali di una qualche libreria isolana alla voce “storia locale”. Sempre che qualche editore avesse accettato di pubblicarlo.
Perché innanzitutto non è un romanzo, ma la storia della famiglia Sacco, e neanche tanto romanzata ma raccontata: una famiglia di contadini onesti ed agiati venuti su dal nulla grazie all’impegno e al lavoro. Ma la famiglia si ribella alle prepotenze della mafia, e finisce per essere perseguitata da essa, e quindi dallo Stato fascista, per questa legittima ribellione. E per questo anche il paragone con la Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni mi pare leggermente tirato per i capelli: se non ricordo male il punto focale di questa era l’ingiustizia operata dai singoli giudici, nel caso della banda Sacco è stata un’operazione congiunta stato-mafia.
Quando a Camilleri hanno donato il dossier di questa tribolazione, ci avrà messo tutt’al più due minuti a decidere di pubblicarlo e un paio di mesi al massimo per trarne questa cronaca, sicuro che qualsiasi cosa avesse scritto avrebbe venduto.
Non è un romanzo e narrativamente appare fiacco, confuso, freddo, sterile, fa leva su scialbi trucchi d’autore (come le lacrime agli occhi dell’innamorata che vede l’amato tradotto in carcere) per suscitare pathos, ma resta un glaciale resoconto giornalistico frettolosamente messo insieme spulciando antichi atti processuali che riportano le testimonianze dell’epoca. Lo stile di Camilleri si intravede solo nell’uso del dialetto siciliano, e la slegatura tra alcuni capitoli, oltre all’estraneità di alcuni commenti, fanno anche dubitare che sia tutta fatica del suo sacco. Come si è detto già altre volte, Camilleri ci aveva abituato meglio. E gli riescono meglio i romanzi, anche quelli storici come ad esempio La rivoluzione della luna, che questi excursus saggistico-storico-giornalistici.
Però non posso dire che non si faccia leggere: dal libro emerge una vera e propria denuncia sociale di uno stato marcio e corrotto, che può benissimo leggersi anche trasportato al presente, oltre all’ennesima denuncia contro la mafia e contro la connivenza con questa dello stato italiano (allora come oggi, oggi come allora) che sfrutta l’organizzazione criminale quando gli fa comodo per fingere di combatterla quando gli fa comodo. Ti fa indignare per l’impotenza del cittadino onesto nei confronti delle due organizzazioni criminali, statale e mafiosa, e la persecuzione ingiusta e intollerabile operata nei confronti della famiglia Sacco ti fa vivere un senso di ineluttabilità, di sconforto, di inutilità.
Ma per quanto giustamente indignati, sono tutte cose che già sapevamo.
Il Lettore

lunedì 11 novembre 2013

Lo Squizzalibro di lunedì 11 novembre

Per dare spazio all’edizione straordinaria su I gatti di Monte Malbe ho dovuto rimandare ad oggi il quesito settimanale, ma per controbilanciare lo Squizzalibro difficilissimo della scorsa settimana, che peraltro contro ogni mia aspettativa è stato indovinato subito (bravo colui che ci ha preso!), questa settimana vi propongo un quizzettino facile facile, anche perché mi sarebbe troppo ostico trovare indizi abbastanza evanescenti da portarvi fuori strada pur essendo fondati. E poi non sarebbe onesto da parte mia. 


Vedrete, lo indovinerete alla prima:
1 – Il libro di oggi è uscito ieri. O tutt’al più l’altro ieri. Va be’, qualche giorno fa.
O alla seconda:
2 – Non è un romanzo.
O al massimo alla terza:
3 – Pur non essendo un romanzo, qualcuno lo ha definito un “western”.
Ancora niente? Non ci posso credere…
4 – L’ambientazione è storica.
Ok, diamo una svolta:
5 – È scritto in dialetto.

Adesso qualcuno vorrà anche che gli dica che pur essendo uscito l’altro ieri il libro è già in testa alle classifiche di vendita, o che le iniziali dell’autore sono A. C. (no… non Avanti Cristo).
Oggi sono stato di una buonaggine disgustosa (della quale vedrete che mercoledì non sarà rimasta traccia…), quindi potrà sentirsi gratificato solo chi avrà indovinato basandosi esclusivamente sui primi tre indizi.
Freereader

domenica 10 novembre 2013

Edizione straordinaria!

Una novità in rete merita un’edizione straordinaria: al posto dello Squizzalibro, che rimanderemo a domani, oggi vorrei segnalare un esempio di come si deve scrivere sugli animali:

Non come Licia Colò, per intenderci.


“Sono TAZZA, un magnifico gatto rosso, Capocolonia della Colonia felina di Monte Malbe. A me è stato demandato il compito di narrare le vicende giornaliere, e pure quelle passate, delle due comunità.”
Le due comunità sono la “Comunità felina protetta di Monte Malbe”, che ospita gatti randagi abbandonati, e “I Borghesi che abitano nella Reggia”, un gruppo di gatti più fortunati (ma vedrete che non lo sono poi così tanto) che abitano a casa del “Capo”, colui che si è assunto il ruolo di intermediario tra Tazza e la comunità umana alla quale il capo colonia racconta le vicende passate e presenti delle due colonie.
Il Capo ha cominciato a riportare i racconti di Tazza su Faccialibro, e quando qualcuno gli ha fatto notare che il numero dei contatti sui suoi interventi stava salendo in maniera spropositata, ha raccolto il suggerimento, si è consultato con Pallucchino, Pericle e Serpotto, gli esperti delle due comunità, e ha intrapreso l’ennesima fatica per fornire a Tazza un mezzo di comunicazione di massa più consono alla miriade di racconti che le due colonie forniscono inconsapevolmente: un blog tutto per loro.
Già, perché le comunità feline sono una fonte inesauribile di fatti tristi e allegri: dal rito del pranzo quotidiano allo scaricamento in colonia di bestiole diventate inutili agli occhi di un padrone stronzo, dai giochi dei cuccioli alle morti dei vecchi e dei malati alle morti di giovani gattini investiti dalle auto, dalle invidie tra i componenti delle due colonie alle persecuzioni perpetrate ad opera di “umani” cui non piacciono i gatti,  da episodi a dir poco esilaranti alle stragi compiute da cani che tanto randagi non sono. Un’infinità di episodi.
Tutto sta a saperli raccontare.
Colui che si nasconde sotto le spoglie del “Capo” non è nuovo agli esercizi di scrittura: ha già pubblicato un libro (con deprimenti risultati di vendite, tanto per corroborare il concetto sottolineato da Massimo B., che so che prima o poi leggerà questa pagina: coraggio Max! vedi che non sei da solo! - infatti è un dato certo che il vero nome del Capo non è Fabio Volo, ma in compenso scrive molto meglio), e so che ne ha altri tre o quattro nel cassetto. Lo so perché ho avuto la fortuna di leggerli, e per questo posso affermare che Tazza non poteva riporre i suoi ricordi in una penna migliore. Forse il Capo non diventerà mai famoso come il citato pseudoscrittore, ma quando le sue pagine sui gatti pubblicate su Faccialibro collezionano centinaia di visualizzazioni (che invidia!), questo vuol dire che non sono il solo a pensarlo.
Ma perché tanto interesse? Be’, di certo è perché i gatti tirano, e di amanti dei gatti ce ne sono tanti (compreso io). Perché sui gatti si possono imbastire infinite storie come se di quelle reali non ce ne fossero abbastanza, e la maggior parte di queste, sia quelle tristi che quelle comiche, fanno leva su sentimenti profondi come è profondo il legame che instauriamo con questi ammassi di pelo (come la bastarda che in questo momento sta supplicandomi insistentemente di riempirle la ciotola calpestando la tastiera del portatile e strofinando il muso contro il mio mento).
E poi perché il Capo scrive bene: ha uno stile di scrittura molto asciutto, pragmatico, che bada al sodo. Fatti e non parole, poche descrizioni e nessun inutile arzigogolamento. Senza inutili orpelli o logorroici abbellimenti punta dritto al nocciolo della questione, con quel marcato accento umoristico che non guasta mai e che spesso ha la bravura di inserire anche quando sta raccontando di fatti tragici. Se seguirete i suoi post sul blog, ve ne renderete conto da soli.

Man mano il Capo raccoglierà i racconti di Tazza, anche quelli pubblicati in passato su Faccialibro, fino a delineare la storia delle tre colonie, la Vecchia, la Nuova e la Reggia, e dipingere la situazione attuale di una comunità felina che ne ha viste delle belle.
Meglio di un romanzo a puntate.
Se Tazza avesse affidato le sue memorie a Licia Colò, a quest’ora staremmo tutti dormendo.
Il Lettore

venerdì 8 novembre 2013

Una bistecca

Certo che il titolo è proprio brutto, uno dei più brutti titoli che mi sia mai capitato di incontrare. Anche se il significato è identico, molto meglio l’originale inglese: A Piece of Steak. Eppure questo breve racconto, nonostante il titolo e seppur tristissimo, è un gioiellino, una perla in vendita alla modica cifra di 3.90 €.

Non sarebbe potuto essere altrimenti, visto chi ne è l’autore.


Nella sua breve vita Jack London ha scritto capolavori come Il richiamo della foresta, Zanna Bianca o Martin Eden, e con questo breve racconto esplora il mondo della boxe entrandovi con sicurezza, con una conoscenza della psicologia e delle tecniche come se fosse egli stesso un professionista anche in quest’altra arte.
Oltre ad essere una denuncia della povertà, la storia narra dell’ultimo incontro dell’anziano pugile Tom King, un poveraccio campato sempre di pugilato ed espedienti, e ne analizza approfonditamente l’aspetto psicologico in una neanche tanto celata allegoria del tempo che passa, di quelli che sono vantaggi e svantaggi della gioventù e della vecchiaia. London lo fa con un’acutezza rimarcabile, con una crudezza che rievoca il destino ineluttabile di ciascuno di noi.
Il racconto è triste, e non potrebbe essere altrimenti, ma anche delicato e pieno di umanità senza essere compassionevole. Pur nella sua brevità, è uno di quegli scritti che restano impressi in maniera indelebile, dopo aver letto i quali si guarda la vita, e la boxe in particolare, con altri occhi.
Tra l'altro è piaciuto anche a mio figlio: lettura obbligata, dal momento che ha cominciato a praticare il pugilato.
Il Lettore

mercoledì 6 novembre 2013

L’altro giorno hanno pubblicato un libro…

…e lo presenteranno in pompa magna in uno dei prossimi fine settimana in una biblioteca della mia città. L’autrice è del posto, e anche la piccola casa editrice che lo ha pubblicato. Già su Faccialibro fioccano gli inviti, un mucchio di persone hanno messo il proprio mi piace e un altro mucchio dicono che parteciperanno con entusiasmo. Fervono i commenti: bello! Da non lasciarsi sfuggire! Pieno di poesia! Ci saranno personaggi noti oltre all’autrice, un’occasione da non perdere.


Ma io me la perderò.
Io non andrò di certo.
Non perché io snobbi questi eventi cultural-mondani - anche se non mi piacciono molto gli assembramenti non mi pare una ragione sufficiente - quanto perché so già di che si tratta, perché quel libro, io, l’ho già letto.
E a suo tempo l’avevo bocciato.
Eh sì, perché il libro che hanno pubblicato e che presenteranno in pompa magna mi era capitato sotto gli occhi più di un anno fa sotto forma di manoscritto da leggere e valutare, e io l’avevo letto e valutato. E bocciato.
A parte l’impaginazione da tela di Pollock in Times New Roman corpo 12 interlinea singola, con 630 parole a pagina, quello che segue è un estratto del commento che inviai all’Editore Sommo una volta esaminato il manoscritto, in questa sede leggermente modificato per non far riconoscere libro e autore:
Autrice - Titolo
Si sente dalle prime righe che l’Autrice ha già scritto qualcosa, descrive abbastanza bene, inserisce metafore e similitudini appropriate, ma nel complesso lo scritto è una sfilza di episodi slegati pieni di luoghi comuni in situazioni ed espressioni, e di noiose riflessioni sul senso della vita indotte dall’avanzare dell’età. Che è l’unico filo che lega gli episodi. Anche in questo caso, nello spiegare i suoi stati d’animo e la sua concezione della vita, l’Autrice “tell”, non “show”, e te li lascia cadere come dogmi.
Nel capitolo “XXX” si pone in cattedra a lanciare anatemi sui maschi da vecchia femminista in menopausa attribuendo loro la colpa di tutte le cose storte del mondo. Non voglio dire che abbia torto, ma lo dice con un astio che è fastidioso e che affiora spesso in tutto il resto del testo.
Da uomo, questo libro non lo comprerei mai. E anche ad una donna “normale” penso che non interesserebbe. Tecnicamente c’è da fare parecchio lavoro di editing, dai refusi alle parole storpiate ai disallineamenti. E ci sono troppe citazioni gratuite.
Oltretutto non c’è nemmeno una parvenza di fine o di conclusione: a metà l’elaborato cambia registro di colpo, senza avvertire, di punto in bianco cominciano dei racconti del tutto avulsi dal contesto precedente.

E anche in seguito al mio commento, all’epoca l’Editore non ne fece nulla.
Ora invece lo presenteranno pubblicato da un’altra Casa Editrice, e io auguro di tutto cuore all’autrice di avere tutto il successo che si merita.
Se i commenti che appaiono adesso su Faccialibro ne parlano come di un capolavoro, e tenendo presente che io deficiente non mi reputo, di sicuro autrice ed editors avranno operato una revisione sostanziale del testo fino a renderlo degno di merito, fino a farlo diventare veramente un buon prodotto. Certamente i contenuti saranno stati resi meno scontati; forse quell’acredine nei confronti dell’universo maschile sarà stata ridimensionata fino a riportarla ad un livello perlomeno giustificabile agli occhi di un qualsiasi lettore; forse, anzi di sicuro, avranno reso l’impaginazione un pochino più leggibile; è possibile anche, anzi è auspicabile, che abbiano eliminato del tutto errori e sgrammaticature.
Lo avranno fatto senza ombra di dubbio.
Ma io non sono per nulla curioso di andare a controllare.
Il Valutatore

lunedì 4 novembre 2013

Il Dossier

Oggi voglio rispolverare un romanzo d’azione che ho letto per la prima volta quasi vent’anni fa, e poi ho riletto un’altra volta e ancora un’altra da poco, sia per una specie di omaggio all’autore che per ripassare una lezione di buona scrittura.

Lawrence Sanders, autore statunitense morto nel 1998 a 78 anni, ha cominciato a scrivere a 50 anni suonati, dopo aver fatto il commesso da Macy’s, il marine durante la seconda guerra mondiale e il redattore di riviste. Nei 28 anni prima di morire ha scritto una quantità impressionante di romanzi per lo più polizieschi: cinque della serie dei Peccati Mortali, due con protagonista Peter Tangent, quattro della serie dei Comandamenti, due con protagonista Timothy Cone, sette con protagonista Archy McNally, una miscellanea di diciassette storie singole, più altri sette su McNally terminati dopo la sua morte da Vincent Lardo, e di questa mole quasi tutti sono notevoli.


Anche Sanders l’ho scoperto nel negozietto di libri usati, e mi ha subito conquistato per il suo stile asciutto e incisivo, che bada al sodo, tanto che della sua produzione a tutt’oggi mi sono procurato e letto… fatemi contare sullo scaffale… ben 17 volumi, ritrovando in quasi tutti quel pragmatismo di scrittura che ti fa arrivare fino in fondo con interesse. Sanders, Lansdale, McCarthy, si sente che hanno una scuola comune. Qui da noi Sanders non è molto noto, e i suoi volumi sono praticamente introvabili nelle librerie normali. Eppure negli USA ha avuto molto successo e alcune sue storie sono state tramutate in film e sceneggiati. In un’anticipazione di quello che dopo sarebbe stato CSI, è stato lui il primo ad impostare un thriller solo sulla base dell’esame di reperti.
Il Dossier, il primo gruppo di racconti con protagonista Timothy Cone, è uscito nel 1987 negli Stati Uniti ed è stato subito seguito nel 1988 da La posta in gioco, con gli stessi personaggi principali. A differenza che da noi, negli USA vanno molto le raccolte di racconti lunghi (ci si è cimentato anche Joe Lansdale) che di solito escono a tre per volta  per far raggiungere al volume la giusta lunghezza.
Al di là della semplicità della trama dei singoli racconti, ciò che emerge dal libro è la caratterizzazione dei protagonisti e dei rapporti tra di loro, dipinta con un’acutezza la cui incisività è resa ancora più dinamica dallo svolgimento al tempo presente dell’azione. Timothy Cone è un cinico menefreghista, ma ciononostante riesce simpatico al lettore così come la sua principale nell’agenzia di investigazioni in cui lavora e con la quale fanno fuoco e fiamme in uno scontro di ossa sul materasso gettato per terra nella mansarda dove abita. Sanders riesce a rendere simpatico al lettore anche Cleo, quel bastardo di gattaccio antipaticissimo di Cone, che riesce a mangiare di tutto, dalle cotolette di maiale congelate a qualsiasi altra cosa composta di materiale organico.
Una lettura leggera, che analizzata con spirito critico insegna come scrivere, a condizione che riusciate a trovarla. Fatevi un giro nei negozietti di libri usati.
Il Lettore

domenica 3 novembre 2013

Lo Squizzalibro di domenica 3 novembre

Oggi è difficilissimo. Non provateci neanche, perché non ci riuscirete. Quasi quasi non vi do nemmeno gli indizi, tanto sono sicuro che nessuno riuscirà nemmeno ad avvicinarsi al titolo oggetto di questo Squizzalibro.
Eppure…
1 – Il romanzo di oggi non è un romanzo ma un volume con una terna di racconti lunghi.
2 – Ed è stato pubblicato in  Italia 25 anni fa riscuotendo anche un buon successo.
3 – Eppure… l’autore è molto famoso, a dire la verità più negli USA che in Italia. Anzi lo è stato, perché è deceduto da qualche anno.
4 – Il genere è poliziesco.

5 – Il protagonista è il classico antieroe.

Ma di contro c’è che:
6 – Dopo una fugace apparizione nella notorietà, libro e autore sono caduti nell’oblìo.
7 - Il volume è praticamente introvabile nelle librerie normali.
Ve l’ho detto, non provateci nemmeno.
Freereader

venerdì 1 novembre 2013

I bastardi di Pizzofalcone

Questo è il quarto romanzo che recensisco di Maurizio De Giovanni, e se qualcuno comincia a pensare: uffa… ma non leggi altro? be’, lo capirei anche. Ma non è che voglio pubblicizzarlo o ci guadagno qualcosa, è solo che finora i suoi romanzi mi sono piaciuti e di conseguenza continuo a leggerli.

Va be’, dai, commentiamo questo e poi basta. Almeno per un po’ di tempo.


I bastardi di Pizzofalcone è l’ultima fatica dell’autore napoletano e appartiene alla serie “nuova” dei suoi polizieschi, quella ambientata ai giorni nostri. Quando mi sono apprestato a leggerlo ero curioso di vedere come De Giovanni avrebbe trasferito nella modernità le indagini che prima aveva ambientato negli anni ’30.
Avete presente Quella sporca dozzina, lo splendido e famosissimo film di Robert Aldrich nel quale dodici pendagli da forca sono chiamati a svolgere una missione suicida in cambio della libertà, sempre che non ci lascino la pelle prima? Ecco, il romanzo richiama un po’ quel film: un gruppo di poliziotti, ognuno dei quali ha qualche magagna nascosta, vengono assegnati all’organico di un commissariato con una brutta nomèa. Riusciranno i nostri eroi a risollevarne la reputazione?
Ci riescono, ci riescono…
Scusate l’anticipazione, ma anche senza voler togliere nulla al merito e alla piacevolezza di lettura, la conclusione del libro è scontata fin dall’inizio: non sarebbe potuto essere altrimenti. Anche perché lo stile usato da De Giovanni, diverso da quello al quale ci aveva abituato, più “leggero”, più moderno, sembra elaborato tenendo sottomano un manuale di sceneggiatura cinematografica. Viene il sospetto che ci sia in aria di progetto una qualche serie televisiva e che De Giovanni abbia scritto con un occhio puntato in quella direzione, per agevolare fin da subito la strada agli sceneggiatori. Come minimo ci si aspetta un seguito librario, quindi doveva andare a finire bene per forza.
 Lo stile del “vecchio” Maurizio De Giovanni, quello del Commissario Ricciardi per intenderci, si rivela nei pezzi in corsivo, nei pensieri di personaggi dapprima oscuri che vengono rivelati nello svolgersi della trama, ma nel corpo del romanzo De Giovanni ha profuso uno stile nuovo, più fresco e dinamico, più immediato e veloce e per questo più adatto ai nostri tempi che sono quelli nei quali si svolge l’azione. Ma il vecchio stile si rivela anche in alcuni capitoli inseriti per approfondire la psicologia di alcuni dei protagonisti, allo scopo di spiegare meglio il loro comportamento. In una sorta di autocitazione, l’autore fa anche un richiamo, uno solo, a pag. 150, al “Dono”, cioè la maledizione del commissario Ricciardi di vedere i morti nel loro ultimo pensiero.
Nel romanzo si dipanano diverse linee investigative e i personaggi sono caratterizzati a sufficienza pur non appesantendo la narrazione. È forse più “leggero” rispetto ai precedenti, meno articolato in profondità, e non vorrei peccare di presunzione affermando di aver individuato da subito quella frase di troppo che si lascia scappare l’assassino nella linea d’indagine principale, permettendomi così di individuarlo immediatamente.
Penso che molti continueranno a preferire il “vecchio” De Giovanni, ma anche questa nuova prova in definitiva si rivela piacevole e interessante.
Ora basta, però. Sullo scaffale dei libri in attesa di essere letti c’è anche Il posto di ognuno – L’estate del commissario Ricciardi, ma vi prometto che almeno per qualche mese non ve ne parlerò.
Il Lettore