lunedì 31 agosto 2015

Il fantasma di Canterville e altri racconti

Sono passati centoquindici anni dalla morte prematura di Oscar Wilde, ma leggendo questi racconti ci si stupisce di quanto la sua prosa sia fresca e attuale, arguta, ironica e densa sia di humour che di verità profonde, contenuta in uno stile squisito seppur diverso, più rapido e meno frivolo (sto parlando dello stile, non dei contenuti…) rispetto a quello del suo romanzo più famoso.
A leggere alcuni dei nostri scrittori contemporanei viene da domandarsi se lo abbiano mai sentito nominare… (Wilde chi? Ah, sì… Dorian.).




Il fantasma di Canterville, il racconto che dà il titolo alla raccolta, è una parodia dei racconti di fantasmi tanto cari al genere gotico che all’epoca andava veramente forte, e insieme una presa in giro sia della nobiltà inglese che dei loro cugini americani. Una parentela non scevra da imbarazzanti implicazioni: “… la si sarebbe potuta portare ad esempio per avvalorare la tesi che gli inglesi oggigiorno hanno veramente tutto in comune con gli americani, tranne, naturalmente, la lingua.”
Questo povero fantasma di un nobile uxoricida (secondo lui aveva avuto ottime ragioni per uccidere la moglie: cucinava malissimo e non gli stirava bene le gorgiere… grande Wilde!), che per secoli ha terrorizzato gli abitanti del castello con le sue macabre apparizioni, viene ignorato, deriso e sbeffeggiato da un’intera famiglia di pragmatici yankees fino ad essere atterrito a sua volta da un pupazzo raffigurante proprio un fantasma costruito dai figli più piccoli. Ma poi la storia si chiude in modo piacevole, sentimentale e misterioso.
Così come gli altri racconti, enigmatici, con quel pizzico di sovrannaturale che stimola la curiosità, e la classe che contraddistingueva questo grande scrittore dalla vita sfortunata. Il suo acume emerge quasi da ogni riga, andando a costituire una sequela di quelle battute che oggi riempiono tutte le raccolte di aforismi: “Gli attori sono esseri fortunati, possono scegliere tra tragedia e commedia, soffrire o gioire, ridere o piangere. Nella vita reale questo non accade: la maggior parte di noi è costretta a recitare una parte senza averne i requisiti adatti. (…) Il mondo è un palcoscenico, ma i ruoli son mal distribuiti.
Oppure, solo per citarne alcune altre:
La correttezza non è mai interessante.
Non era davvero un gran ché. In vita sua non aveva mai detto una cosa che fosse brillante o malvagia.
Rimase stupito dalla discrepanza tra il vuoto ottimismo del giorno e i fatti crudi della vita. Era ancora molto giovane.
Le donne non vanno capite, ma amate.
Questi quattro racconti sono più “adulti” rispetto alle altre raccolte dal tono più immaginario e fiabesco che Wilde ha scritto per i suoi figli ma anche per tutti i ragazzi in genere, e nell’invenzione si può anche trovare un riferimento stretto alla società dell’epoca e a tutte le magagne che lo scrittore vedeva in essa.
Un aspetto che mi ha piacevolmente colpito è il tono con cui Wilde descrive i rapporti tra uomini e donne, dal fidanzamento al matrimonio condizionati dalle regole dell’establishment britannico, nei quali ho ritrovato una straordinaria somiglianza con gli stessi rapporti vergati però parecchie decine di anni dopo dalla penna di P. G. Wodehouse: sicuramente quest’ultimo era un profondo conoscitore di Wilde e lo ammirava talmente tanto da ricalcarne lo stile.
Mi è dispiaciuto invece il fatto che ho letto i racconti in un’edizione diversa rispetto a quella della quale ho inserito la copertina di cui sopra nella quale è pubblicizzata anche la prefazione di Jorge Luis Borges: la mia copia non la conteneva, e mi avrebbe fatto piacere invece leggere anche i commenti a riguardo del grande scrittore argentino.
Il Lettore

venerdì 28 agosto 2015

Storia di un corpo

Questo Storia di un corpo ha risollevato di molto Daniel Pennac nella mia considerazione, dopo la débâcle di Ecco la storia. Naturalmente tutto ciò è soggettivo: è possibile che a qualcuno Ecco la storia sia piaciuto, e questo diario fisico invece non gli dica assolutamente nulla.
A me è piaciuto molto, a partire dall’idea, proseguendo con la tecnica di realizzazione per finire con lo stile e la prosa utilizzati.




L’idea, vincente, è quella di realizzare un diario della propria vita scrivendoci sopra esclusivamente fatti riguardanti il proprio corpo e le sensazioni che questo trasmette al cervello. Sembra una cosa da poco, ma farci un libro di 300 pagine permettendo al lettore di arrivare in fondo senza cali di interesse non lo è affatto.
Per realizzare ciò Pennac ha utilizzato la tecnica: in una ripetitiva e rischiosamente monotona enumerazione dei giorni e degli accadimenti ha inserito frequenti variazioni di ritmo, dal post (come se fosse un blog, no?) sintetico, anche di una sola riga, alle narrazioni in più pagine che assumono la forma di veri e propri racconti; ha interrotto l’andazzo con salti temporali e con interventi diretti dell’autore rivolti alla figlia che è il destinatario finale di questo diario; ha alternato momenti esilaranti con episodi dal toccante al tragico, chiudendo quasi tutti i capitoletti con una breve battuta che soddisfa il lettore e lo sprona a proseguire nel successivo.
Il tutto per narrare cosa succede al corpo del protagonista dall’età prepubere alla vecchiaia, dal sapore del primissimo sorso di caffè ai sintomi delle malattie ai dolori delle sbucciature, dal gusto dei cibi alla sensazione di un tuffo, da indefinibili polluzioni notturne a entusiasmanti eiaculazioni, dal dolore atroce di una carie agli acciacchi della vecchiaia al senso di vuoto per la perdita di una persona amata. In pratica tutto ciò attraverso cui siamo passati o saremo costretti a passare nel corso della nostra vita. È ovvio che, essendo scritto da un uomo, in questo diario si troveranno fatti legati più strettamente all’universo maschile, ma in ogni caso una carie è una carie sia per gli uomini che per le donne, così come la varicella non sta a guardare di che sesso sei, e penso che anche una donna possa trovarci molti spunti di interesse.
La tecnica di Pennac è supportata da uno stile squisito e da una prosa accattivante, semplice e forbita, valorizzata dall’ottima traduzione di Yasmina Melaouah. Raccontando del proprio corpo inoltre, Pennac fornisce, insieme alla vita del protagonista, un quadro sintetico della storia e dell’evoluzione sociale della Francia dagli anni ’30 ad oltre il 2000, insieme a tutta la sua sensibilità, dimostrata anche nel resto della sua produzione, nei confronti degli esseri umani.
E insieme all’ironia e al senso dell’umorismo che lo contraddistinguono:
 “29 anni, 2 mesi, 22 giorni                                        Giovedì 1° gennaio 1953
Ieri sera veglione a casa R. Distribuzione di sigari. Dibattito sui pregi rispettivi di Cuba, Manila e non so quali altri paesi produttori di tabacco. Mi chiedono un parere. Ma, a vedere quegli intenditori tagliare con aria compunta quei tronchi, non sono riuscito a togliermi dalla testa l’idea che l’ano, sezionando lo stronzo, svolge la funzione di un tagliasigari. E il volto, in entrambe le circostanze, mostra la medesima espressione concentrata.”
Come fai a non sorridere, dopo, quando sei al bagno, all’idea di quei sigari che stai spuntando? E per fortuna che ogni tanto fa sorridere, narrazione e metafora della vita stessa, perché avvicinandosi alla fine…
Il Lettore

martedì 25 agosto 2015

Vita di Galileo

Eccezionale. Un libro da leggere assolutamente cercando di entrare nelle molteplici chiavi di lettura che Bertolt Brecht propone in questa biografia di Galileo Galilei in chiave teatrale, scritta nel corso della seconda guerra mondiale e più volte rivisitata dallo stesso autore per adattarla al pubblico di diverse nazionalità.
Ma vi avverto, se vi capiterà di trovarci dentro i riferimenti all’epoca attuale prefigurati da Brecht, poi non demoralizzatevi troppo: “È una notte di sventura quella in cui l’uomo vede la verità; è un’ora di accecamento, quella in cui crede il genere umano capace di ragionare. (…) Credi che i potenti lascerebbero mai andar libero uno che conosce la verità, fosse pure in merito a stelle infinitamente lontane?”.
E figuriamoci per le cose a noi più vicine!




Nel raccontare alcuni fondamentali episodi della vita di Galileo Galilei, disposti in modo cronologico ma separati tra loro da intervalli temporali anche consistenti, Brecht mostra, e non dice, l’ottusità con cui i sapienti e i religiosi dell’epoca hanno osteggiato le scoperte dello scienziato rifiutandosi di accettare l’evidenza in nome della cieca aderenza a dogmi risalenti a Platone e Aristotele perché facevano loro comodo. Come non pensare che tutto ciò sta succedendo ancora oggi?
Certo, nell’epoca attuale il modo di considerare la scienza è molto diverso rispetto alla prima metà del diciassettesimo secolo, e questo grazie anche allo stesso Galileo Galilei, ma l’arroganza dei governanti e il loro voler interpretare (e far interpretare) qualsiasi fatto nel modo a loro più congeniale, si rivelano essere al di fuori del tempo: “Il vecchio e il decrepito si affacciano sulla scena e si spacciano per novità, o tali sono proclamati se vengono imposti in maniera nuova. (…) Non è forse vero che tutto fa prevedere la notte imminente, e nulla l’inizio di tempi nuovi? (…) Pensando ai nostri uomini politici borghesi, gli interessi culturali (e scientifici) di quei politici antichi sarebbero degni del più alto elogio.” Come visione è abbastanza pessimistica, ma tenendo conto dell’epoca in cui il dramma è stato scritto, lo stesso Brecht rimarrebbe sorpreso nel constatare come queste parole siano perfettamente aderenti ai giorni nostri!
In sole settanta pagine di dialoghi da recitare Brecht affronta i temi della ragione, della scienza, della religione, della libertà, della curiosità, della ricerca, della demagogia e della stupidità umana (ne sarebbe rimasto soddisfatto Carlo M. Cipolla!), oltre a descrivere le molteplici sfaccettature di un uomo bramoso di scoprire la verità dietro le cose, ma anche ossessionato dai problemi della gente comune: portare a casa la pagnotta tutti i giorni, confrontarsi quotidianamente con la stolidità delle persone, accumulare la dote per la figlia, scendere a compromessi, ingannare i burocrati per superare la loro idiozia.
E infine tradire se stesso, la scienza e tutti i suoi seguaci al solo scopo di poter sopravvivere.
Nel dramma si può apprezzare la differenza tra la cultura nascente della prima metà del diciassettesimo secolo e la cultura del potere, fondata su presupposti errati ma incancrenita sia per tradizione che per la necessità di tenere soggiogati popoli e fedeli, ed è fondamentale per capire il modo in cui i governanti mistificano le verità per adattarle a servire ai propri scopi.
Dopo averlo letto ho addirittura pensato che non solo mi piacerebbe il vederlo rappresentato, ma partecipare nel rappresentarlo.
Anche se mi dovessero assegnare la parte del Papa.
Il Lettore
Lettore, Brecht

domenica 23 agosto 2015

Lo Squizzalibro di domenica 23 agosto

Anche agosto sta finendo (oh, stamattina siamo in vena di profonde verità!). Tra un mese saremo già in autunno (e dagli con l’originalità…). Le giornate si stanno accorciando (tappete tappete tà – suono di tamburellare spazientito sul tavolo, NdF) e finalmente l’afa che ci ha angustiato nelle scorse settimane ci ha lasciato (ma oggi ci sei o ci fai?).
Ho l’impressione di sentire un fastidioso ronzio nelle orecchie, sarà entrata qualche mosca (ma che, ieri sera hai bevuto?), quindi passo subito a fornirvi gli indizi per il quiz di oggi prima di provare a scacciarla (era ora…).




1 – Il libro da indovinare oggi è assolutamente fondamentale. Se non lo avete ancora letto dovete obbligatoriamente inserirlo a far parte della vostra libreria (e che razza di indizio è? Oggi questo è proprio rincoglionito…).
1 bis – Dimenticavo di dire che è una biografia (ah be’… e di chi?).
2 – È la biografia, diciamo “quasi” esaustiva, di un personaggio storico molto famoso (e fortuna che hai ristretto il campo… come, “quasi” esaustiva?) .
3 – La “forma” in cui è stata scritta questa biografia non è quella “narrativa” canonica, anche se lo svolgimento rispetta comunque la successione cronologica della vita del personaggio investigato (forma? Narrativa canonica? Successione cronologica? Questo è impazzito del tutto…).
4 – L’autore è uno dei massimi scrittori tedeschi del Novecento (anche se non ha mai preso il Nobel), specializzato in una branca “specifica” della Letteratura (Hesse? Goethe? Mann?).
5 – Ma allora non mi stai ascoltando, ti ho detto che il Nobel non gli è mai stato assegnato… È sì una biografia, ma va assaporata studiandola su molteplici piani di lettura: pur raccontando la vita di un uomo vissuto alcune centinaia di anni fa, mostra situazioni universali e al di fuori del tempo riscontrabili, con estrema amarezza, anche ai giorni nostri (eccheccavolo, anche la morale, adesso?).
Questa mosca non si decide ad andarsene, dovrò ricorrere alla racchetta elettrica… (zzzzzz… schick!).
Così va meglio…
Freereader

venerdì 21 agosto 2015

Anime di vetro

Ed ecco il romanzo che aspettavo con ansia dopo che ero rimasto sulle spine, leggendo In fondo al tuo cuore, per la curiosità di sapere come sarebbe andata a finire la nascente relazione tra Enrica e Manfred. Continuerà Enrica a struggersi dell’amore impossibile per Luigi o si rassegnerà a una vita senza passione con questo nuovo spasimante che mostra di volerle bene?
Detta così sembra una telenovela… ma del resto gli ingredienti di una storia che ci appassiona sono sempre quelli, più o meno, e dipende da chi la scrive il combinarli in modo da stringerti alla gola e condurti dove vuole senza possibilità alcuna di liberarti fino alla risoluzione.
E in questo Maurizio De Giovanni ha dimostrato di essere un vero professionista.




Anime di vetro, dal sottotitolo Falene per il commissario Ricciardi (vedi più avanti la nota sul riferimento musicale), è proprio il romanzo che ci si sarebbe aspettati visto il trend delle ultime puntate della saga del commissario Luigi Alfredo Ricciardi: una risoluzione (ma sarà poi quella definitiva?) degli interrogativi nati e proseguiti nel corso di diversi romanzi sulle vicissitudini del gruppo di protagonisti.
E proprio su questo è incentrata la gran parte del romanzo che, anche se il filo conduttore giallo non manca, più che un poliziesco è uno sviscerare le profondità degli animi, il rivelare e il rivelarsi, il portare a compimento (forse) vicende iniziate qualche puntata prima, compreso un approfondimento della situazione politica italiana e internazionale con l’ingresso nel gioco della polizia segreta fascista e delle sue relazioni con la nobiltà dell’epoca.
Pur soccombendo alla relativa scomodità di leggerlo sul mio telefono l’ho letteralmente divorato, ritrovandoci intatti tutti gli ingredienti ai quali De Giovanni (qui vedi tutti i post su di lui) ci aveva abituato in passato e gustandone la prosecuzione. Solito stile appagante, compresi i capitoli costituiti interamente dai pensieri dei diversi personaggi che si succedono l’uno all’altro senza specificare chi è che sta provando quei pensieri ma lasciandolo solamente intuire al lettore, pensieri che spesso iniziano tutti con la stessa frase o con concetti antitetici (es. Pensava di amarlo… Pensava di odiarlo…) e che rivelano il modo di ragionare più profondo di ognuno, compreso l’assassino di turno.
Piacevole e suggestivo anche questa volta l’intercalare del riferimento musicale, dal contenuto strettamente legato al tema portante del libro, quella fragilità dell’anima così ben rappresentata nel 1906 nella canzone Palomma ‘e notte, scritta da Salvatore di Giacomo e musicata da Francesco Buongiovanni; intercalare che sottolinea l’importanza del contenuto di una storia e del comprenderlo appieno per saperla poi raccontare agli altri.
Devo dire che ho apprezzato l’onestà dell’autore, ma ho provato anche un pizzico di delusione leggendo la chiosa dei ringraziamenti, nella quale De Giovanni non è reticente nell’ammettere come questo libro, così come gli altri, sia stato frutto del lavoro combinato di un intero pool di professionisti: oltre a lui ci hanno lavorato sopra ben quattordici altre persone nel definire la struttura dei personaggi, la trama, l’ambientazione, la ricostruzione storica eccetera, e se questo non toglie nulla al valore dell’opera, d’altra parte provoca un certo disinganno, distruggendo l’aura affascinante dell’autore solitario e sostituendola con la concretezza di un professionale e asettico lavoro di squadra.
Ho letto in rete della possibilità per il prossimo anno di una fiction televisiva incentrata sulle avventure del commissario Ricciardi. Nel caso, di sicuro una puntata proverò anche a guardarla, solo per la curiosità di poterne valutare la realizzazione: la mia esperienza personale è che Zingaretti mi fa addormentare dopo una mezzora, mentre con Timi e i vecchietti del bar Lume dormo dopo nemmeno cinque minuti, quindi…
Il romanzo lascia comunque un finale aperto ad eventuali prosecuzioni, ma personalmente mi auguro che un prossimo romanzo con Ricciardi non ci sia: sospetto che il proseguimento delle vicende di Enrica e Luigi possa diventare scontato e deludente, e forse sarebbe meglio lasciar finire tutto così, nel vago, con migliaia di possibili soluzioni diverse nella fantasia di ognuno dei lettori di questa saga.
Il Lettore

martedì 18 agosto 2015

Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza

Se fossi stato un bambino di cinque anni e mi avessero letto questo libro, forse, e dico forse, può anche darsi che avrei apprezzato la storia. Anche se poi la morale avrebbero dovuto spiegarmela un po’ meglio.
Ma i miei cinque anni sono passati da un pezzo, da allora ho fatto diverse esperienze e il piacere di leggere una storia scontata in uno stile banale non riesco più a provarlo.
E la morale in questo caso è una sola: peggio per me.




Ho letto con piacere parecchi libri di Luis Sepùlveda, da quelli più seri ai romanzi più leggeri ai saggi a quelli per ragazzi, compresa la gabbianella, e quando più quando meno sono rimasto in genere sempre abbastanza soddisfatto. Ma questa volta proprio no, questo Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza Sepùlveda avrebbe dovuto proprio risparmiarselo.
Sciatto, banale, scontato, corto, trito, incoerente sono solo alcuni degli attributi che mi sono venuti in mente leggendolo, e se non fosse stato così breve, appena una sessantina di pagine molte delle quali bianche e altre riempite con i puerili (ma questa non è una critica) disegni di Simona Mulazzani, l’avrei lasciato ben prima di arrivare alla fine.
Il difetto più grande è che Sepùlveda ha copiato pari pari Il gabbiano Jonathan Livingstone, sostituendo la comunità di gabbiani con una di lumache e la ricerca della velocità con quella della lentezza, cercando di mantenere intatto lo sforzo del singolo per approdare a una nuova e più appagante dimensione del proprio essere. Ma se questo a Richard Bach è riuscito più che bene, allo scrittore cileno il tutto è venuto male in modo davvero sgradevole. Non si può inneggiare al concetto di lentezza, al fare le cose con calma per risolvere i mali della società odierna e poi, al primo ostacolo che il gruppo di lumache si trova ad affrontare, farglielo superare per mezzo di un gufo che in volo le trasporta in un battibaleno dove devono arrivare! È… imbarazzante, ecco, totalmente incoerente. Alla faccia della morale che intende trasmettere.
Per non parlare dei dialoghi, del solito vedere le cose umane dalla parte dei piccoli animali come abbiamo già visto in migliaia di cartoni animati, del solito condannare l’edilizia e la cementificazione e oh! che poveri, questi animaletti che finiscono schiacciati dalle auto! Basta, non se ne può più, e lo dice uno che quando vede una chiocciola sull’asfalto la prende e la rimette nell’erba.
Fatto sta che alla resa dei conti questo libercolo si rivela essere la solita operazione commerciale che di certo fa guadagnare molto di più alle case editrici che all’autore. Buono per un bambino, e neanche tanto. Se lo avessero messo in vendita con la scritta “pericolo di regressione: se ne sconsiglia la lettura ai maggiori di cinque anni”, non avrebbero fatto niente di male.
Il Lettore

sabato 15 agosto 2015

Il danno

Questo è un libro che mi ha lasciato molto perplesso. Non posso dire che mi è piaciuto perché non sarebbe vero, ma non posso dire nemmeno che è un romanzo totalmente brutto. Quando è uscito nel 1999 è diventato subito un caso letterario e ne hanno tratto un film con Jeremy Irons e quella pera cotta di Juliette Binoche (perdonatemi, ma per quanto possa recitare in modo magistrale questa donna mi dà sempre un’impressione melensa e stucchevole), e le recensioni lo hanno inneggiato a capolavoro lodandone la prosa superlativa e la capacità di imbrigliare da subito e condurre il lettore a uno stato profondo di turbamento.
A posteriori penso che abbiano leggermente esagerato, o forse si sono lasciati irretire da una copertina sì conturbante, ma palesemente fuori tema: il grafico ha sfruttato un aspetto del tutto secondario del rapporto fra i protagonisti per muovere nel potenziale acquirente le leve erotiche del sesso più eccitante, che nel romanzo è poco più che lasciato immaginare, e spingerlo a portarsi a casa la sua copia.




Il romanzo di Josephine Hart ricalca la solita trama del cinquantenne che si rincoglionisce per una passera trentenne che lo contraccambia con passione, ma il loro intenso rapporto è leggermente complicato dal fatto che lei è la fidanzata (anche se un po’ più grande) del figlio di lui. E scusa se è poco. Il protagonista è un uomo freddo e calcolatore, del tutto arrivato sia in campo medico che politico ma arido di sentimenti, mentre lei è una donna segnata da un passato tragico, un carattere complesso e misterioso ma libero e deciso, che nel corso del libro si rivelerà ancora più calcolatrice di lui.
Tra i due scocca fin dal primo incontro una passione incontrollabile fatta di comprensioni reciproche con un solo sguardo (che nella realtà neanche se ve lo spiegate per iscritto con tanto di piantina), di una complicità che neanche Bonnie and Clyde e di torbidi incontri sessuali, fino a che…  come al solito mi dovrete scusare perché non posso entrare in particolari che vi toglierebbero il gusto della lettura. Posso solo anticiparvi che la storia terminerà in tragedia, e la Hart è stata brava nel delineare gli antefatti, i contorni e le motivazioni del dramma costruendo pagine dense di pathos e conferendo ai protagonisti aspetti caratteriali profondi e intriganti. E di sicuro il concetto su cui si basa anche il titolo del libro, quello che la protagonista Anna Barton spiega con queste parole: “Ho subito un danno. Le persone danneggiate sono pericolose. Sanno di poter sopravvivere... È la sopravvivenza che le rende tali... perché non hanno pietà. Sanno che gli altri possono sopravvivere, come loro.” è meritevole di una riflessione.
Ciò che invece non mi è piaciuto (oltre alla scelta del nome del protagonista, Stephen, che non può non far pensare al Sir Stephen di Histoire d’O) è lo stile, soprattutto all’inizio del libro, con cui l’autrice ha alternato capitoli abbastanza appaganti a capitoli tirati via, brevi al punto da farli sembrare trasandati come se si fosse stufata e non avesse visto l’ora di mettersi a creare una scena diversa. Devo dire che andando avanti nella lettura quest’impressione si attenua e lo stile comincia a migliorare fino a essere più omogeneo consentendo all’interesse di crescere, ma le prime pagine mi hanno fatto veramente venire voglia di piantarlo lì.
Un’altra cosa a parer mio criticabile è il far parlare il protagonista maschile in prima persona. Quando un’autrice si cala in una personalità maschile (ma è vero anche il contrario) facendola narrare in prima persona, cade immancabilmente nel farle esternare affermazioni che a un uomo non sarebbero mai passate per la testa, come il descrivere i soprammobili di un salotto (nella realtà maschile: perché, c’erano dei soprammobili?), il particolareggiare qualità e colore delle stoffe dei divani (sì, era abbastanza comodo…), o criticare le scelte per il vestiario dei figli (plissé cosa? Laura Ashley chi?). Ora, è impossibile che una lettrice donna (essendo donna) si possa rendere conto di queste cose, ma un uomo se ne accorge eccome! Tant’è vero che la stragrande maggioranza delle recensioni che parlano bene di questo libro sono tutte scritte da donne… Via, gentili fanciulle, non mi assalite, ho già detto che la stessa cosa succede quando un autore maschio tenta di immedesimarsi in un io narrante femmina…
Nel complesso è uno di quei libri che non mi sono piaciuti e che ritengo nettamente sopravvalutati, ma sono comunque contento di averlo letto perché sparsi qua e là ci ho trovato diversi spunti interessanti. E guarda caso, la Hart non è più riuscita a scrivere un altro romanzo che sia riuscito ad avvicinarsi nemmeno lontanamente al successo di questo.
Ci sarà un qualche motivo particolare?
Il Lettore

martedì 11 agosto 2015

Una mutevole verità

Cominciamo con le note dolenti: come si fa a non pensare, vista la frequenza con cui pubblica Gianrico Carofiglio, questa volta da solo, vista l’esiguità di questo romanzetto di meno di 120 pagine, stampato su carta grossa con un’impaginazione da miope che non vuole usare gli occhiali per poco più di un’ora complessiva di lettura al prezzo di dodici euri, e questo ci può anche stare, ancora una volta ad una spudorata operazione commerciale?




Ultimamente sembra che si siano messi tutti a scrivere romanzi brevi. Mancanza di voglia di lavorare? Maggior facilità a terminare una trama? Miglior rapporto costi/benefici quando si va a stampare? Sicuramente, come direbbe Massimo Catalano, è più facile scrivere un romanzetto di 110 pagine che uno di 770, anche al di là dei contenuti, che per di più in questo caso, come confessa alla fine lo stesso autore, sono presi pari pari da una storia realmente accaduta e quindi Carofiglio non è che abbia dovuto fare la fatica di inventarsi un gran ché.
Oltretutto la trama di Una mutevole verità è proprio banale, già sentita, si capisce chi è l’assassino già dalle prime pagine e il personaggio del protagonista, il maresciallo dei carabinieri Pietro Fenoglio (puro, incorrotto, comprensivo, innamorato della moglie, intelligente, dalla morale adamantina e amante della musica classica), è un po’ troppo “perfettino” per essere credibile. Ma già, dimenticavo che forse non tutti leggono il colophon, nel quale è rimarcato che questo libro è stato realizzato in collaborazione con l’Ente Editoriale dell’Arma dei Carabinieri: il protagonista non sarebbe potuto essere uno stronzo di poliziotto cattivo. E così non ha dovuto faticare tanto nemmeno Einaudi.
Ok, basta, gli aspetti negativi finiscono qui, perché a parte queste considerazioni il romanzo è carino, lo stile di Carofiglio è leggibilissimo come al solito e arrivato in fondo hai la sensazione gradevole che viene dopo aver letto un libro leggero ma piacevole. A non voler essere proprio pignoli il protagonista ne esce bene così come i comprimari e perfino i “cattivi”, e chi conosce già l’autore barese è gratificato anche dal riconoscere un paio di autocitazioni e dal constatare come questi riesca anche a rendere positiva la figura del suo personaggio più famoso, un avvocato Guerrieri all’inizio della carriera, sia pure nominato solo in un piccolo cammeo.
Va be’, diciamo che stavolta Gianrico Carofiglio se l’è cavata per un pelo. Ora ci aspettiamo da lui un qualcosa di più consistente, magari tra minimo un paio d’anni, con il suo solito stile ma con una trama solida e senza i consueti trucchi che è solito adoperare per allungare di qualche pagina i suoi romanzi.
Inteso, giudice?
Il Lettore

venerdì 7 agosto 2015

Numero zero

Nell’accingermi a recensire quest’ultimo “romanzo” di un mostro sacro qual è Umberto Eco devo confessarvi che mi sento non poco imbarazzato. Un po’ per la caratura del personaggio, un po’ perché dopo aver letto il libro ed aver formulato il mio parere sono andato a spulciare in rete per erudirmi su cosa ne avessero pensato gli altri, e la scoperta è stata quella di un libro estremamente controverso e dibattuto, inneggiato da alcuni e stroncato da altri, che ha ricevuto i punteggi massimi nelle varie graduatorie così come si è beccato gli zeri, tanto per restare in tema, più denigranti.
Be’, lasciatemelo dire, coloro che hanno dato il punteggio minimo a questo libro sarebbe meglio che invece di leggere qualsiasi cosa si sedessero davanti al televisore e continuassero a guardare le partite di calcio, perché significa che ci hanno capito meno di un cazzo.




Ha ragione invece chi lo ha definito una presa per i fondelli, ma non nei confronti del lettore come si è lamentato qualcuno dando prova di una conoscenza “per sentito dire” di altre satire di Eco come Il pendolo di Focault, ma più che una presa in giro la definirei una denuncia nei confronti della società dal dopoguerra ad oggi che manovra la massa dei singoli conducendoli a pensare come decidono in pochi e servendosi di qualsiasi arma.
Nel raccontare l’esperimento di costruzione di un giornale destinato a non essere mai stampato, Umberto Eco mostra le strategie e i trucchi del giornalismo per indurre lo sprovveduto lettore a pensare una cosa al posto di un’altra, per far sì che la massa resti nell’ignoranza più assoluta di quali siano le vere verità e venga invece plasmata come ritengono più opportuno coloro che governano realmente. Eco prende ad esempio i fatti salienti della storia italiana dalla morte di Mussolini a Mani Pulite e ne dà un’interpretazione fantasiosa ma plausibile preconizzando, e lui si trova già all’interno di questo futuro, quello che è lo sfacelo della società odierna.
In pratica leggere questo libro è stata una conferma di ciò che predicavo qualche settimana fa: non bisogna credere a ciò che dicono i giornali, bisogna fare la tara su qualsiasi notizia e sul modo in cui viene presentata, perché qualsiasi giornalista è al soldo di chi gli elargisce lo stipendio e scrive ciò che gli viene ordinato di scrivere, e piano piano, insieme alla tv spazzatura, stanno guidando la massa verso una condizione di rimbecillimento totale. Tant’è vero che qualche giornalista, in preda ad un raptus di coda di paglia, si è lasciato prendere la mano nello stroncarlo.
Leggevo pochi giorni fa una delle ultime interviste rilasciate da un personaggio pubblico scomparso da poco, nella quale questa persona asseriva che era profondamente delusa da come nella società odierna la stupidità fosse assurta a potere. Io non penso che sia la stupidità a manifestare il potere, penso invece che sia l’intelligenza di alcuni a manovrare la stupidità di molti per fare in modo che restino in un oblìo affatto pericoloso. Ma del resto lo dicevano già gli antichi romani: panem et circenses, e vai col liscio!
Comunque, a parte queste considerazioni spicciole e personali, a me Numero Zero è piaciuto: l’ho letto in una volata con piacere e con rabbia. Indubbiamente lo stile è diverso dai precedenti, lontanissimo da Il nome della rosa e dai saggi più famosi, ma la qualità dello scrivere, sia pure in tono più leggero, è sempre eccelsa.
Di Eco, oltre a Il nome della rosa ho adorato alcuni libri: le Sei passeggiate, La struttura assente, Sulla letteratura; non me ne sono piaciuti altri: Il pendolo di Foucault, Il cimitero di Praga; qualcuno non sono riuscito neanche a finirlo: La misteriosa fiamma eccetera eccetera, Baudolino.
Ora aspettiamo il prossimo.
Il Lettore

martedì 4 agosto 2015

La porta

Non conoscevo Magda Szabó, classe 1917, scrittrice ungherese scomparsa da pochi anni, e quando nel corso degli scambi librari mattutini con il compagno di passeggiate lui mi ha dato questo volumetto ho pensato subito di trovarmi di fronte a un’altra Agota Kristof (vedi). In effetti una linea di contatto c’è, ma dove la Kristof sconfina nell’incomprensibilità, la Szabò resta nel concreto, approfondendo l’analisi dei sentimenti che possono nascere tra due donne di diversa estrazione sociale, ma passate entrambe per esperienze, come quelle della guerra e della dittatura, che le hanno segnate a fondo. Il filo conduttore che unisce le due scrittrici risiede proprio nelle vicende drammatiche dell’Ungheria, che hanno condizionato il comportamento di tutti fino a incidere nei rapporti interpersonali.




L’Io narrante del romanzo si può identificare nella stessa autrice, riconosciuta scrittrice di ceto medio-alto, che si trova a dover ricorrere all’aiuto di una donna di servizio per sbrigare le faccende di casa. Conosce così Emerenc, la vera protagonista del libro, un’anziana professionista delle pulizie il cui forte carattere e il cui particolare modo di pensare verranno fuori dalle pagine a poco a poco rivelando, oltre alle tragedie personali e del Paese in cui vivono, la difficoltà di costruire un rapporto sereno tra due donne provenienti da estrazioni differenti.
Io non lavo i panni sporchi al primo che capita”, tiene a precisare Emerenc al primo incontro, facendo subito emergere una dignità superiore altrimenti propria di un Jeeves o dello Stevens di Kazuo Ishiguro (vedi). È la stessa Emerenc a scegliere i propri datori di lavoro e a decidere il proprio stipendio, così come non permette a nessuno di entrare in casa propria o di dirle come deve comportarsi o come la deve pensare. Una donna dura, lavoratrice instancabile, forgiata in tragedie e  avversità, della quale mai nessuno ha visto i capelli sempre raccolti in un fazzoletto scuro, che si intromette anche pesantemente nella vita dei suoi datori di lavoro ed è dotata di una moralità inscalfibile, del disprezzo nei confronti della politica e del regime e di un animo umanitario totalmente altruistico.
Con queste premesse il rapporto tra la scrittrice borghese e la “vecchia” dotata di un’energia inesauribile si trasforma subito in un conflitto, dal quale però emerge la volontà di entrambe di appianare gli attriti e se non di venirsi incontro, perlomeno di tentare di comprendersi. Evidentemente ognuna vede nell’altra, al di là delle incomprensioni, uno spessore d’animo meritevole di una considerazione, fino a che il conflitto sfocerà in un profondo vicendevole affetto.
Magda Szabó mette in tavola una prosa piacevole, semplice e pulita, con lunghi periodi spezzati dall’uso reiterato della virgola, piacevole da leggere e interessante per i misteri che sembra si celino dietro questa donna e che emergono pian piano nel corso del romanzo. Come non essere incuriositi da una personalità fortissima e adamantina? Come non essere intrigati dalla sua abitazione nella quale non permette a nessuno di entrare? Quali misteri vi saranno nascosti? E cercando di scoprire questi arcani ci si cala all’interno delle vicende storiche dell’Ungheria e delle tragedie che segnano qualsiasi tirannia.
La porta è un romanzo importante, una metafora dell’impossibilità, o per lo meno della difficoltà che prova ognuno di noi al momento di dover varcare certe soglie e accettare il pensiero altrui.
Il Lettore

domenica 2 agosto 2015

Lo Squizzalibro di domenica 2 agosto

Dopo lo Squizzalibro facilissimo di due domeniche fa avrei voluto tornare ad essere più cattivo, ma ho sottomano un libro importante che sembra fatto apposta per un quizzettino domenicale di primo agosto, e anche se la risposta non sarà così ostica da soddisfare il mio lato più sadico ve lo propongo ugualmente.
Mi rifarò più in là.




1 – L’autrice del romanzo da indovinare è scomparsa da pochi anni ed era di nazionalità magiara.
2 – Questo è il suo libro più importante, e la vicenda di cui tratta si svolge a cavallo degli anni ’60 e ’70 del ‘900.
3 – C’è un io narrante, ma il vero protagonista è un personaggio dotato di una delle personalità più forti che io abbia mai incontrato nell’universo letterario.
4 – Secondo me per poterlo indovinare già bastano i primi tre indizi, ma sarò buono e vi dirò che nel romanzo rivestono un ruolo fondamentale anche i gatti.
Basta così, ho anche detto troppo…
Freereader