lunedì 20 gennaio 2014

Il conte di Montecristo

Che in questo caso non è il celeberrimo romanzo di Alexandre Dumas, ma il titolo di un racconto di Italo Calvino pubblicato sia nella raccolta di racconti Ti con zero (Einaudi), che in Calvino - Romanzi e Racconti II (Mondadori) e in Racconti matematici (Einaudi), e il cui protagonista è lo stesso Edmond Dantès di Dumas inquadrato nel corso della sua prigionia nel castello d’If.


Il racconto fa parte del periodo dedicato da Calvino alla riscrittura combinatoria, con la quale l’autore ha sentito la necessità di analizzare testi scritti da altri e di sottoporli ad un’opera di “restauro” che ne arricchisse il carattere con la sua personale interpretazione, e mostra un Dantès riflessivo e meditabondo all’interno della sua cella mentre impiega il suo tempo alla ricerca di una concreta possibilità di evasione.
Gli fa compagnia, senza nemmeno accorgersene, un abate Faria còlto anche lui nella frenetica attività di mettere in atto continui tentativi di fuga, tutti contraddistinti dal carattere empirico e fallimentare, sulla base dei quali Dantès cerca di costruire deduttivamente un suo personale piano di evasione.
Ma la genialità di Calvino consiste nell’aver traslato i due personaggi su un diverso piano di lettura, facendoli diventare i metapersonaggi di un iperromanzo nel quale si confrontano con lo stesso Dumas per cercare di individuare quale, tra tutte le varianti narrative possibili, sarà quella che potrà permettere loro di fuggire dalla prigionia.
Il lettore rimane sorpreso infatti quando l’abate, nel corso di uno dei suoi molteplici ed inutili tentativi, irrompe nello studio dello stesso Dumas e scartabella tra i fogli in cui sono riportate le numerose varianti del romanzo alla ricerca di quella in cui è descritta l’evasione definitiva, entrando così in una metanarrativa che mescola realtà e finzione letteraria.
Oltre a ciò, dal racconto emerge la prosa squisita di Italo Calvino, sia nelle poderose descrizioni fisiche dell’ambiente-fortezza che nelle elucubrazioni deduttive del marinaio, che spaziano dalla geometria solida nel cercare di immaginarsi una plausibile struttura del castello alle riflessioni sulle intersezioni possibili tra finzione romanzesca e realtà storica.
E come non ammirare la vicinanza a Borges e al suo Aleph quando Calvino afferma: “In un caso o nell’altro, a ben vedere, egli [l’abate Faria] tende al medesimo punto d’arrivo: il luogo della molteplicità delle cose possibili. A volte io mi rappresento questa molteplicità concentrata in una risplendente spelonca sotterranea, a volte la vedo come un’esplosione che s’irradia. Il tesoro di Montecristo e la fuga da If sono due fasi d’uno stesso processo, forse successive o forse periodiche come in una pulsazione”.
Se non l’avete ancora fatto leggetelo, venti minuti di tempo ben spesi.
Il Lettore

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