martedì 29 agosto 2017

Io sono Dot

E rifocilliamoci con uno dei miei autori preferiti, che stavolta ha dato vita ad un nuovo romanzo di formazione adolescenziale: Joe R. Lansdale questa volta si cala nei panni di una diciassettenne alquanto duretta e disillusa che racconta la sua storia in prima persona, ambientandola in un contesto caro all’autore: quello del cinema drive-in, tanto popolare nella cultura americana, e sul quale Lansdale aveva già collocato una trilogia alquanto dura e fantasiosa.
Ma in questo caso ne fa una cosa completamente diversa.




Dot è una ragazza già provata dalla vita, ma con desideri che vanno oltre il restare per tutta la vita a servire consumazioni ai clienti del drive-in scivolando sui pattini a rotelle. Di famiglia povera, abbandonata dal padre scomparso dopo essere andato a comprare le sigarette, la diciassettenne guarda a tutto e a tutti con cinismo ma senza rassegnazione, e se c’è da combattere non si tira indietro. Un’altra occasione per Lansdale di aggiungere materiale al suo universo di umanità derelitta, povera ma qualche volta onorevole, nel quale in genere gli uomini, o perlomeno certi tipi di uomini, non fanno di certo una bella figura.
 “— Ci siamo sposate tutte e due troppo presto, e con uomini sbagliati.
     Almeno mio marito è morto giovane, — le disse nonna. — Non è scappato.
     Grazie, — disse mamma. — Questo mi fa sentire molto meglio.
     Non era mia intenzione farti sentire meglio, — disse nonna.
     Lo sospettavo, — disse mamma.”
Quando uno è un professionista è un professionista: Lansdale si cala nei panni di una ragazza di soli 17 anni e resta del tutto plausibile come se il romanzo l’avesse scritto veramente una ragazza di 17 anni. Come al solito i dialoghi sono frizzanti, metafore e similitudini azzeccate ed estremamente fantasiose, e una differenza che ho riscontrato con gli altri romanzi di Lansdale è che in questo, udite udite, non ci sono parolacce né morti ammazzati. Solo la voglia di lottare adolescenziale, che peraltro contribuisce a rendere Dot capace di ridurre come un cencio a sprangate il cognato dopo che l’uomo da ubriaco aveva picchiato la sorella di lei.
Per il resto una storia “quasi” normale, con Dot che cerca il riscatto da una vita grama, si impegna per concretizzare occasioni future, sia di studio che lavorative, decide di rintracciare il padre scomparso per avere direttamente da lui una spiegazione dell’abbandono e riesce anche a far innamorare di sé un giovane bello e ricco. E Lansdale è talmente bravo da non far apparire sdolcinato il tutto.
Alla fine lo scrittore assicura il lettore che in questo caso ha raccontato una storia del tutto successa realmente e forse è per questo che il romanzo magari non merita di collocarsi tra i migliori in assoluto di Lansdale, ma resta comunque molto piacevole e nettamente al di sopra della media.
Non c’è che dire, bravo come al solito.
Il Lettore

domenica 27 agosto 2017

Lo Squizzalibro di domenica 27 agosto 2017

Non ho mai sopportato i bambini.
Mai, fin da quando ero bambino io stesso.
Ma come, obietterete, come si fa a non amare i bambini?
Ci si riesce benissimo, credetemi, e non provo neanche alcun cruccio per questa mia mancanza di empatia nei confronti della bambinitudine. Si vede che in me il gene preposto al mostrarsi bendisposti in presenza di caratteri neotenici non ha funzionato un granché.
Ma come, direte ancora, sono così carini/dolci/teneri/innocenti/solari/eccetera eccetera…
Per me sono solamente dei rompicoglioni estremamente invadenti e innocentemente crudeli che ancora non hanno imparato a stare al proprio posto e quando, e se, finalmente lo impareranno sarà sempre troppo tardi. Che volete, ognuno ha le sue idiosincrasie.
Certo, quando mi è toccato di crescere mio figlio ho avuto parecchi problemi, a partire dall’avere in giro per casa quell’intruso piagnucoloso col quale non puoi avere un rapporto paritetico e non puoi farci proprio nulla. Ho risolto trattandolo sempre da adulto, spiegandogli tutte le cose come si farebbe con un adulto cretino e dicendogli sempre la verità, anche se questo presupponeva discorsi che la maggior parte dei genitori considera al di là della capacità di comprensione dei propri figli. Colpa dei genitori, non dei figli. Mai, e sottolineo mai, ho minacciato mio figlio con “non fare il cattivo altrimenti arriva il babau”, o “se ti fai male ti ci faccio la giunta” (frase che ho sempre odiato visceralmente), ma sempre e solo con “comportati come si deve altrimenti le buschi”, e visto che se non faceva il bravo poi le buscava davvero ci ha messo veramente poco tempo a imparare come comportarsi.
Calcio, napoletanità e bambinitudine non fanno parte del mio dna.
Ma se c’è una cosa che sopporto ancora meno del calcio, dei bambini e dei napoletani, sono le mamme dei suddetti bambini. Che parlano e parlano e straparlano in continuazione dei propri figli e si sentono in dovere di aggiornarti in tempo reale della cronologia particolareggiata delle loro giornate senza che tu ti sia mai sognato di chiedere loro qualcosa in merito. Però mi dicono che il cercare di far capire loro che non te ne frega proprio un cazzo di ciò che fanno i loro figli sia da maleducati, proprio socialmente scorretto, e allora non puoi fare altro che abbozzare, e solamente evitare in modo accurato qualsiasi tipo di contatto con le medesime.
Va be’, vi chiederete ora, ma come mai tutto questo panegirico solo un tantino politicamente scorretto?
Ovvio, vi rispondo io, perché il libro che vi propongo di indovinare oggi parla di bambini.
O quasi.




1 – Oggi parliamo di un romanzo di formazione adolescenziale. Sapete, quell’età in cui i bambini smettono (per fortuna) di essere bambini e cominciano a trasformarsi da rompicoglioni piccoli in rompicoglioni adulti.
2 – L’autore è statunitense. E più precisamente texano. Uno dei migliori scrittori attualmente sulla piazza mondiale. Uno che però verrà preso in considerazione per il Nobel solo quando la smetterà di inserire parolacce nei suoi libri. Ho già recensito diversi libri suoi e a me piace molto. E mi auguro che continui a scrivere le parolacce.
3 – Cosa strana nel romanzo non ci sono ammazzamenti, ai quali peraltro ci aveva abituato in parecchie altre delle sue opere. Così come viene trattato un altro tema caro all’autore: la condizione di vita di un ceto sociale situato molto in basso nella scala di valori americana: i derelitti, gli spiantati e le persone senza un futuro hanno sempre una grande rilevanza nelle sue storie.
4 – Ma anche il lato ludico: i pattini a rotelle assumono in questo romanzo un ruolo da protagonista assoluto.
5 – Oggi voglio essere buono: aggiungo che lo scrittore in oggetto è un affermato esperto di arti marziali e che ha anche inventato un proprio stile riconosciuto in molti paesi del mondo.
Stavolta è proprio facile, dài.
Freereader

giovedì 24 agosto 2017

Sul mio cadavere

Il secondo volume preso a prestito dalla mia amica conteneva una raccolta di romanzi di James Hadley Chase, che sarebbe lo pseudonimo da scrittore del britannicissimo Renè Brabazon Raymond (e io che ho sempre pensato che J.H. Chase fosse statunitense purosangue!), intimo amico dell’altrettanto famoso, ma anche di più, Graham Greene.



Il primo romanzo del volume è Sul mio cadavere, un gialletto hard boiled nel quale quasi tutti i personaggi sono “cattivi” e quelli femminili ancora di più.




James Hadley Chase era specializzato in narrazioni di genere noir fino al punto di essere definito manieristico da molti critici. In effetti dagli anni ’40 agli anni ’80 del secolo scorso ha scritto una miriade di racconti da molti dei quali sono state tratte pellicole di successo, tutti imperniati sull’America dei gangsters, delle belle donne, dell’alcool e delle sparatorie. La maggior parte dei personaggi sono banditucoli di mezza tacca di quelli che prima sparano poi ti dicono cosa vogliono; le donne sono tutte formose, truccatissime e di mestiere di solito fanno le prostitute.
In questo romanzo il protagonista è un giornalista invitato a fare luce sull’esecuzione di un recluso da alcuni ritenuto innocente del delitto per cui era stato condannato. Il giornalista, anche lui dal dito pesante sul grilletto, prima le busca poi si dà da fare, sembra di essere in un film con Clint Eastwood, senza mancare di attorniarsi delle succitate donnine.
Non mi è piaciuto. Lo stile di J.H. Chase è scarno ed essenziale, senza alcun tipo di abbellimento, indirizzato più che altro all’azione fisica, e i personaggi sono grezzotti senza alcun tipo di fascino, che non fanno altro che giocare a carte, bere whisky e sparacchiare a destra e sinistra stando ben attenti a non colpire le topone che li circondano.
Non è il mio genere: McBain promosso (c.v.d.), Chase bocciato, avanti un altro.
Il Lettore

martedì 22 agosto 2017

Chiamate Frederick 7-8024

I vecchi amori non si scordano mai: quando una cara amica mi ha detto di aver ritrovato un paio di vecchi Omnibus Mondadori e mi ha chiesto se li avessi letti le ho risposto che forse sì, tanto tempo fa può anche darsi che li avessi letti, ma le ho detto anche che Ed McBain si rilegge sempre volentieri.
Uno dei due Omnibus è infatti una raccolta di alcuni romanzi incentrati sull’87° distretto con coprotagonista l’efferato delinquente chiamato Il Sordo. Questo Chiamate Frederick 7-8024 è il primo della serie.




Frederick 7-8024 non è altro che il numero di telefono del famoso distretto, e nel romanzo assume un ruolo importante perché Il Sordo elabora un complicatissimo piano con cui rapinare una banca in tutta tranquillità cercando di fare in modo che più persone possibili telefonino contemporaneamente alla polizia per tenere occupati allo stesso tempo il maggior numero di agenti.
Ed è così che in una giornata del tutto normale si scatena il finimondo: nella zona della metropoli di competenza dell’87°, metropoli che assomiglia tanto a New York ma non lo è, improvvisamente scoppiano incendi dappertutto, allarmi bomba a gogò, esplosioni una dopo l’altra e telefonate minatorie che fanno scappare i poliziotti da tutte le parti.
Gli ingegnosi ladri portano a termine il colpo in tutta tranquillità e si danno alla fuga ma la sfiga l’imprevisto ci mette lo zampino: un semplice agente di pattuglia che non era stato allertato (all’epoca del romanzo non c’erano ancora i cellulari) li ferma per un banale controllo e si insospettisce. Addio colpo, ma Il Sordo riesce a scappare e darà mostra di sé in diversi altri romanzi.
Romanzo leggero ma ben costruito, del quale al giorno d’oggi si sente il fatto che è stato scritto prima del 1960. Modi di lavorare e tecniche investigative sono obsolete (si usa ancora la carta carbone per stilare copie dei rapporti scritti a macchina e per fare una telefonata bisogna cercare un apparecchio fisso), ma lo stile è sempre quello superlativo di McBain.
Una curiosità: cercando in rete la copertina del romanzo da farvi vedere, ho trovato questa incongruenza:



Chissà perché tra i due titoli il numero è diverso. Forse che nella traduzione ci avrà messo mano la Telecom? 
Il Lettore

sabato 19 agosto 2017

Rondini d’inverno

Decima puntata della serie del commissario cilentino, dal sottotitolo con un doppio (e ingannevole) significato: Sipario per il commissario Ricciardi.
Un sottotitolo più adeguato forse sarebbe potuto essere: dal momento che editore e pubblico mi assillano in continuazione perché vogliono sapere uno come fare più quattrini due come proseguono le storie di tutti i coprotagonisti allora facciamo questo sforzo e accontentiamoli, fa niente se sono costretto a scopiazzare me stesso, tanto venderà uguale.
Ma forse sarebbe stato troppo lungo.




Non posso dire che il romanzo in fondo non mi sia piaciuto perché non sarebbe vero, certo è che questo Rondini d’inverno, pur soddisfacendo l’aspettativa della buona scrittura e del dare seguito a vicende che avevano incuriosito, mi ha deluso abbastanza per l’insistenza di Maurizio De Giovanni nel copiare se stesso ammorbando di nuovo la vicenda con la melensaggine reiterata di tutte quelle canzoni napoletane che francamente hanno proprio rotto i cogl i cosiddetti.
Come già mi ero premurato di far notare nella recensione a Serenata senza nome (vedi qui), di tutta questa emotività piena zeppa di retorica e napoletanità ne posso fare benissimo a meno, e anzi, quando uno ci insiste sopra mi infastidisce proprio.
Vabbè, detto questo, il romanzo alla fine è piacevole come quelli che l’hanno preceduto, dalla trama non eclatante ma nemmeno da buttare via, e nuovi tasselli si aggiungono a caratterizzare le storie dei singoli personaggi. Il brigadiere Maione aiuta il dottor Modo a risolvere la vicenda tragica che corre parallela a quella principale, e in una Napoli invernale assediata dalla nebbia Ricciardi ed Enrica combattono ognuno a modo suo per tentare di consolidare un rapporto che deve affrontare molti problemi fin sul nascere. De Giovanni non dimentica nemmeno di completare lo sfaccettamento di Nelide, Livia e Bianca, le altre donne che compaiono intorno a Ricciardi.
L’amore e la gelosia la fanno da padroni anche in questo romanzo, e anche il teatro (si parlava di scopiazzature?), visto che il caso giallo su cui Ricciardi indaga consiste in un omicidio avvenuto sulle tavole di un palcoscenico. Caso giallo che si tinge anche di rosso quando alla fine qualcuno spara proprio al commissario (ecco spiegato il secondo significato del sottotitolo). La saga sarà giunta al termine? Non sarò io a rivelarvelo, leggetelo.
Incidentalmente nel romanzo si può osservare un esempio letterario dell’effetto Dunning-Kruger al quale ho accennato qualche giorno fa: De Giovanni fa vedere che il brigadiere Maione al volante dell’auto di servizio è un vero e proprio pericolo pubblico, ma allo stesso tempo il graduato è straconvinto di essere un pilota esperto e bravissimo. Come volevasi dimostrare.
Il Lettore

mercoledì 16 agosto 2017

Una commedia italiana

Dopo Marco Malvaldi, ecco un altro Chimico che fa anche lo scrittore: Piersandro Pallavicini è un professore associato di Chimica all’università di Pavia che oltre alla produzione scientifica ha al suo attivo anche diverse pubblicazioni con Case Editrici rinomate.
Questo Una commedia italiana mi è stato caldamente consigliato e gentilmente prestato, grazie, dal mio solito pusher musicale che è in contatto con lo stesso autore essendo accomunati dall’insana passione per la musica progressive degli anni ’70 (compresa la fissa della maniacale raccolta di vecchi vinile ricercati in nascostissimi e stracolmi negozietti di Roma, Milano e Londra).




Una commedia italiana narra le vicissitudini di alcuni esponenti di una famiglia agiata con villa a Solària, un ameno paesino in cima alle Dolomiti, i quali incorrono in una serie di peripezie di carattere noir e danno vita a un romanzo nel quale, come in una vera e propria commedia all’italiana, si mescolano umorismo e malinconia, comicità e tristezza, ed è difficile stabilire quale sentimento prevalga sull’altro.
Carla Pampaloni Scotti (la fotocopia di Ave Ninchi in versione robusta) e Paola Ottolina (purtroppo per lei bruttissima, assomiglia a un bulldog) sono le simpaticissime amiche protagoniste del romanzo, entrambe cinquantenni a cavallo della menopausa e docenti di chimica all’Università di Milano.
Sono circondate da una serie di caratterizzazioni azzeccatissime: dal padre di Carla, Alfredo Pampaloni, ex industriale caseario e ottuagenario in fin di vita che sarebbe potuto essere un personaggio del film Amici miei, al fratello di lei che è uguale al Conte Oliver del Gruppo TNT ma molto più gretto e meschino, all’ispettrice di polizia Erica Daldosso, una sessantenne in calze contenitive che ricorda Edwige Fenech.
Romanzo carinissimo confezionato con una scrittura superlativa: rapida, briosa, divertente, leggera e amara allo stesso tempo quando fa emergere i problemi della vecchiaia; pieno zeppo di citazioni coerenti, il più delle volte palesemente esplicite e facilmente riconoscibili da un cinquanta-sessantenne che è passato in prima persona per gli stessi anni vissuti dalle protagoniste, ma anche inserite in modo più sottile, ad uso esclusivo del lettore ideale. Citazioni cinematografiche (non a caso il diretto superiore delle due ricercatrici si chiama Tersilli), ma soprattutto musicali: per gli amanti del genere un plus valore del romanzo è dato dal personaggio dell’Ottolina che è una fanatica della musica progressive degli anni ’70 e in qualsiasi momento della giornata le sue colonne sonore sono Genesis, Jethro Tull e Van der Graaf Generator, che ascolta da un impianto stereo ultratecnologico (se è a casa propria), o in cuffia (se è fuori), ed è un piacere farla sobbalzare dalla sorpresa mentre tra sé e sé canticchia Supper’s ready assolutamente concentrata.
Bel romanzo e scritto ancora meglio, tanto che mentre lo stavo leggendo e ridevo sulle sensazioni provate dalla protagonista nell’assistere a un concerto a Londra degli anzianotti Deep Purple me ne sono uscito con una battuta sulla scrittura (che a voi risparmio, ne potete fare benissimo a meno) alquanto misogina, e il mio editor mi ha letteralmente incenerito con un solo sguardo. Ah, fra parentesi, lei ha iniziato questo romanzo la mattina e lo ha terminato la sera stessa.
Bella scoperta. Ringrazio ancora il mio pusher per avermi fatto conoscere un altro autore che merita. Continua così.
Il Lettore

lunedì 14 agosto 2017

Cuore di tenebra

È un vero e proprio assioma: leggendo questo libro non si può fare a meno di pensare ad Apocalypse now. A patto che uno l’abbia già visto, naturalmente. Forse magari sarebbe meglio non aver visto il film e non averne mai sentito parlare, prima di apprestarsi al leggere il romanzo da cui Francis Ford Coppola ha tratto liberamente il film. Molto, liberamente.
Ma, dal momento che anche la pellicola è splendida, e in fondo non così dissimile concettualmente dagli intenti del romanzo, a parte la collocazione geografica e temporale, e che è sicuramente più facile che un giovane d’oggi abbia già visto il film prima di aver solo sentito parlare del romanzo di Joseph Conrad, direi che in fondo in fondo fa nulla: visto o non visto poco importa, non si può fare a meno di gustarli entrambi.




Anzi, sapete che vi dico, dopo che ho riletto il libro (l’avevo già letto qualche decina d’anni fa) mi è presa la voglia di riguardarmi anche il film. E uno di questi giorni lo faccio senz’altro.
Sicuramente il romanzo me lo sono gustato di più della prima volta che l’ho letto. Ho assaporato i ritmi lenti, l’abulia del continente che si era da poco cominciato ad esplorare in modo sistematico, mi sono gustato i caratteri dei due protagonisti, il volonteroso Marlow che narra in prima persona e il misterioso e piuttosto orrorifico  Kurtz.
“Voi sapete quanto io odii, detesti, ripugni la menzogna, non perché io sia piú schietto del resto dei mortali ma semplicemente perché la menzogna m'atterrisce. C'è in essa un lezzo di morte, un alito di corruzione, che è proprio quel che io più odio e detesto al mondo, quel che vorrei dimenticare. Mi avvilisce e mi nausea, come quando capita di mordere qualcosa di marcio. Questione di temperamento, suppongo.”
Il temperamento di Marlow lo porta inevitabilmente a voler scavare nel profondo e nei misteri della zona in cui è capitato, destreggiandosi tra lo stato di abbandono, l’ostilità degli autoctoni e la follia di Kurtz, fino a che il senso del dovere lo porta a piantare baracca e burattini e a tornarsene a casa trascinandosi dietro il fantasma di quello che si era trasformato in un Dio in terra.
Ma che ve lo dico a fare? Tutti conoscono questo splendido racconto e i suoi significati.
O no?
Il Lettore

venerdì 11 agosto 2017

Le due teste del tiranno

Dopo aver già parlato di matematica in Capra e calcoli, ecco che Marco Malvaldi fa il bis e ripropone un nuovo saggio in cui parla ancora di matematica. Oltretutto, non era laureato in chimica?




Però la matematica lo interessa molto, visto che è il secondo saggio che ci pubblica sopra. Qui espone una serie di teoremi, scoperte, enunciazioni che dovrebbero essere utili, secondo lui, a conquistarci la libertà.  La libertà di pensiero, naturalmente.
A partire dal teorema di Bayes (conosciuto anche come formula di Bayes o teorema della probabilità delle cause). È quel teorema che spiega come in alcune occasioni l’evento più probabile sia quello a cui intuitivamente non arriveresti mai. Proposto da Thomas Bayes, deriva da due teoremi fondamentali delle probabilità: il teorema della probabilità composta e il teorema della probabilità assoluta. Viene impiegato per calcolare la probabilità di una causa che ha scatenato l'evento verificato. Per esempio si può calcolare la probabilità che una certa persona soffra della malattia per cui ha eseguito il test diagnostico (nel caso in cui questo sia risultato negativo) o viceversa non sia affetta da tale malattia (nel caso in cui il test sia risultato positivo), conoscendo la frequenza con cui si presenta la malattia e la percentuale di efficacia del test diagnostico (ho preso queste parole da Wikipedia: era più facile mettere una definizione riconosciuta che spiegarlo con parole mie).
Poi Malvaldi passa attraverso altre amenità matematiche, inclusi i tentativi di Turing per scoprire i segreti di Enigma e la ragione per cui è impossibile dotarci di un sistema elettorale equo e razionale (nonostante i politici), per finire con lo spiegare l’effetto Dunning-Kruger. Che uno capisce dopo che in fin dei conti era questo lo scopo del libro. Si vede che è stato il documentarsi su questa patologia che gli ha scatenato la voglia di scriverci sopra. Come è successo a me che avevo già studiato su questo effetto. Solo che io non ci ho scritto sopra nulla, accidenti a me.
L'effetto Dunning-Kruger è una “distorsione cognitiva a causa della quale individui poco esperti in un campo tendono a sopravvalutare le proprie abilità autovalutandosi, a torto, esperti in materia” (sempre parole di Wikipedia). La conseguenza più eclatante di questo effetto è quella che, molto spesso, gli incompetenti si dimostrano estremamente supponenti. Si può dire anche intollerabilmente saccenti.
Essendomi capitato già molte volte, negli ultimi tempi, di incontrare persone ormai allo stadio terminale di questa malattia, mi ero già documentato a fondo su questo effetto che rende le persone francamente insopportabili, e leggere che aveva interessato anche Malvaldi mi ha fatto piacere (come quando hai intenzione di comperare un’automobile e ti capita di incontrare in continuazione esemplari di quel modello che vorresti).
L’ennesima dimostrazione dell’imbecillità umana. Socrate diceva che più sai e più ti rendi conto di non sapere. Purtroppo ti sbatti sempre con persone che non sanno e allo stesso tempo vogliono farti pesare la loro supposta (ma solo da loro stessi) superiorità in materia. Va be’.
Un’altra coincidenza curiosa: tra i libri che al termine Malvaldi consiglia di leggere c’è anche il fondamentale The principles of mathematics del Premio Nobel Bertrand Russell. Anche questa cosa mi ha gratificato assai perché avevo già cominciato a leggere questo libro qualche settimana fa. Purtroppo la versione che possiedo è l’originale in lingua e il leggere un saggio di matematica in inglese non è che sia poi così estremamente piacevole, per cui mi sono ritrovato a consumare il testo a tozzi e bocconi, poche pagine per volta, e vado avanti mooolto a rilento. Ma prima o poi lo finirò, abbiate pazienza.
Comunque, ho trovato questo Le due teste del tiranno piacevole da leggere e interessante. Anche se di non facile lettura per i concetti difficili e le dimostrazioni dei teoremi che diverse volte ti costringono a tornare indietro per rileggere dei passaggi non sufficientemente chiari.
Cosa di cui ti avverte anche Malvaldi stesso, ma lo fa solo al termine dell’ultimo capitolo, il bastardo.
Il Lettore

martedì 8 agosto 2017

La sfida

Il 30 ottobre 1974 si è disputato a Kinshasa uno dei più epici incontri di boxe nella storia di questo sport: Muhammad Alì aveva sfidato il campione del mondo in carica dei pesi massimi George Foreman per tentare di riprendersi il titolo mondiale che gli era stato tolto per il suo rifiuto di andare a combattere in Vietnam (“…dopo che gli era stato strappato senza aver mai perso un incontro. Per un pugile, una frustrazione equivalente a scrivere Addio alle armi e non riuscire a pubblicarlo. “)
Nessun vietnamita mi ha mai dato dello sporco negro” è stata una delle frasi più famose di Alì.
Due campioni agli antipodi, eccezionali entrambi ma di carattere profondamente diverso e con un opposto modo di concepire la boxe, caciarone e ciarliero il primo, serio, cattivo e introspettivo il secondo. Vista la differenza d’età e lo stato di forma fisica tutti i pronostici furono contro Alì, e invece…
Era il periodo in cui la boxe riusciva ad attirare tanto pubblico quanto il calcio, e una rivista diede l’incarico al già famoso Norman Mailer di seguire l’incontro e di farne un reportage: un vero e proprio invito a nozze, per uno scrittore amante dello sport e già affetto da logorrea creativa.




Oltretutto lo scrittore già conosceva personalmente entrambi i pugili e confezionò direttamente un vero e proprio libro e non soltanto un resoconto sportivo. Libro in cui sviscera tutti gli aspetti psicologici di Muhammad Alì e di George Foreman, insieme al suo rapporto personale con la gente nera e a gran parte delle implicazioni di questa con la gente bianca.
In effetti il match sarebbe dovuto essere, ed è stato, un trionfo della negritudine: svolto nel Continente Nero, in Zaire, tra due neri con un diverso modo di rapportarsi con il mondo, organizzato da neri, avrebbe dovuto rappresentare una vera e propria riscossa del popolo nero, o quantomeno il proseguimento di una rivoluzione. Che occasione per Mailer di smontare qualche illusione sociale!  “Quale piacere nell’osservare che quello stato totalmente nero, rivoluzionario, con un solo partito, era riuscito ad accoppiare alcuni aspetti oppressivi del comunismo con quelli peggiori del capitalismo.”
Con frequenti digressioni nella politica e nel sociale, Mailer racconta, nei primi tre quarti de La sfida, il periodo di preparazione all’incontro e l’approccio ad esso dei due pugili e dei rispettivi entourage, inserendo anche se stesso di cui parla generalmente in terza persona (Norman fece questo, Norman pensò quest’altro…) e costruendo un’accuratissima contestualizzazione non scevra di riferimenti personali. Come quando va a fare una corsetta di allenamento insieme ad Alì: “Correre gli rovinava la giornata. Dopo la corsa [Norman] non si sentiva rinnovato, ma sovreccitato e irritabile. La verità era che la corsa lo faceva sentire bene solo quando finiva. E rammentava a se stesso che, con l’eccezione di Erich Segal e George Gilder, non aveva mai sentito di uno scrittore che amasse correre.” Perché evidentemente all’epoca non aveva ancora sentito parlare di un certo Haruki Murakami.
Nel restante quarto del libro Mailer scrive una vera e propria cronaca dell’incontro, dall’inizio alle 4 del mattino (per esigenze di diretta televisiva negli Stati Uniti) fino al decisivo ottavo round, calcando la mano sulla guerra psicologica tra i due avversari: una vera e propria partita a scacchi inframmezzata da una miriade di mazzate che i due si son dati l’un l’altro fino al trionfo di un Muhammad Alì più saldo dal punto di vista mentale e allenato ad assorbire cazzotti che avrebbero tramortito qualsiasi altra persona.
Un resoconto entusiasmante, una scrittura brillante da parte di un artista di quelli che sanno guardare dentro e dietro le cose, capace di emozionarti anche quando già sai come va a finire. Bel libro, ce ne fossero di più di Norman Mailer in circolazione.
Il Lettore 

domenica 6 agosto 2017

Lo Squizzalibro di domenica 6 agosto 2017

Uffa che caldo. Uffa che caldo. Ma che pizza, stai sempre lì a lamentarti! E l’estate è caldo, e l’inverno è freddo… e grazie al cazzo! È così che deve essere, punto. Mi sembra normale. Non resisto più, così è troppo. Mi sembri uno di quelli che fanno la lagna su Facebook, ti sei lamentato anche lì? Adesso non esageriamo, a quei livelli non mi abbasserei. Soffro in silenzio. Non mi pare, visto che ti lamenti qui. Il blog è… mio, e ci faccio quello che mi pare... ma lo sai che sei proprio una pizza? Con te non si può dire mai niente. Sempre lì a criticare. Parla uno buono, nelle ultime recensioni hai sparlato a destra e sinistra… Che colpa ne ho se mi capitano in continuazione libri meno che buoni? La serie continua? Speriamo di no! Anzi, il libro di oggi mi è piaciuto proprio! E meno male, di cosa si tratta?




1 – Il libro oggetto dello Squizzalibro odierno è una cronaca sportiva. Che sport? Quale avvenimento?
2 – Se ti dicessi queste cose sarebbe troppo facile. Ti dico solo che è la cronaca di un evento che qualche anno fa tutto il mondo ha visto in diretta televisiva. E sai che informazione! Tra l’altro c’ero anch’io, tra quelli che l’hanno visto. Ma chi se ne frega, l’occasione qual’era?
3 – Una gara all’ultimo sangue, una vera e propria guerra spietata tra due contendenti. Uomini? Squadre? Criceti?
4 – Quante ne vuoi sapere! Ti basti sapere che si tratta di sport, di uno degli sport più seguiti in assoluto, che nel periodo in cui si è disputato questo incontro raccoglieva quasi più seguaci del calcio. Ellapeppa! Popolare, allora. E l’autore?
5 – L’autore è uno degli scrittori statunitensi più famosi in assoluto, già recensito su questo blog per un’altra sua creazione e morto da pochi anni. Di solito faceva il romanziere ma non disdegnava anche altri generi di scrittura, saggi o, come in questo caso, cronache sportive.
Uffa che caldo…
Freereader

giovedì 3 agosto 2017

Voi non sapete

L’11 aprile 2006 le forze dell’ordine riescono ad arrestare, in un casale di campagna siciliano, Bernardo Provenzano, uno dei capi più influenti della mafia, già condannato in contumacia per diversi omicidi ad almeno tre ergastoli, dopo la bellezza di 43 (quarantatre!) anni di latitanza.
E come poteva, Andrea Camilleri, lasciarsi sfuggire l’occasione di scriverci un libro sopra?




Voi non sapete cosa state facendo” sono le parole che Provenzano ha detto agli agenti al momento dell’arresto. Dopodiché ha fatto loro i complimenti e li ha seguiti senza opporre la minima resistenza. Si vede che dopo tutto quel tempo da fuggiasco era stufo anche lui. Una volta in carcere ha continuato a dirigere la mafia e a comunicare con i suoi adepti tramite il sistema che adoperava già da prima, scomodo ma sicuro, farraginoso ma preciso: lo scambio di informazioni tramite “pizzini”.
Nei suoi romanzi, Andrea Camilleri in genere tocca solo marginalmente l’argomento “mafia”: ad eccezione degli sparuti scambi con il vecchio capo della famiglia Sinagra (e della mafia locale), sempre improntati al reciproco rispetto, Salvo Montalbano ha pochi se non nulli incontri con l’universo mafioso. Anche se quasi sempre la mafia è presente in sottofondo.
 Ma questo non significa che non la conosca bene, anzi. La sua lectio doctoralis in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Psicologia applicata, clinica e della salute all’Università dell’Aquila nel 2007 verteva proprio sulla cattura di Provenzano, e questo stesso libro non è altro che un dizionario nel quale, analizzando in ordine alfabetico termini che vanno da “AFFARI” a “VOI NON SAPETE”, passando tra gli altri per “BERNARDO, SAN” e “PROSTATA” o “PROVERBIO”, sono spiegate parole e concetti che si ripetono spesso nei “pizzini” intercorsi tra Provenzano e i suoi interlocutori. Come del resto recita il sottotitolo del libro: Gli amici, i nemici, la mafia, il mondo nei pizzini di Bernardo Provenzano.
Ne emerge un panorama dell’universo mafioso abbastanza completo e istruttivo (per un profano quale sono), il tutto scritto rigorosamente a macchina, dal quale si capisce come Provenzano, una volta arrivato a essere il capo indiscusso e nonostante fosse un assassino egli stesso, abbia voluto contrastare la strategia di terrore violento messa in atto da Toto Riina per tornare a un comportamento mafioso più “onorevole” e blando, più all’antica, perché in fondo tutti quegli ammazzamenti servivano a poco e non portavano vantaggi a nessuno.
La stessa accezione della frase rivolta ai poliziotti al momento dell’arresto si può intendere come un velato rimprovero perché arrestando lui venivano ad interrompere una strategia in atto che dopo le morti di Falcone e Borsellino avrebbe portato a risultati positivi anche per le forze dell’ordine, oltre che per la mafia stessa.
Svariati sono gli argomenti trattati nei pizzini: la religione, la famiglia, i rapporti tra le persone, le gerarchie, la politica. Vi si leggono osservazioni di vita da parte di un capo mafia che sta percorrendo una strada ben precisa e non sempre sono facili da decifrare e da comprendere, essendo permeati da un modo di parlare “per sottintesi” che assomiglia a uno dei modi di parlarsi dei siciliani, per sguardi, che vanno capiti e non spiegati. Una celiàta va compresa al volo, e guai a sbagliare interpretazione.
Nonostante io non ami molto i libri di Camilleri senza Montalbano questo l’ho trovato interessante. Mi è piaciuto, mi ha fatto conoscere alcuni modi di comportamento inusuali per me ma consolidati in certi ambienti. 
Leggere i pizzini originali, alcuni dei quali Camilleri riporta in fondo al libro, quello no, non è stato piacevole. Non ci si capisce nulla, sia per i sottintesi che per le sgrammaticature e per i veri e propri errori di cui sono costellati.

Di certo Bernardo Provenzano un letterato non era.
Il Lettore 

martedì 1 agosto 2017

Per amore di Elena

Continua il periodo negativo: in questa mandata è arrivata a deludermi perfino Elizabeth George.




Riprendendo ambienti simili a quelli dell’ultimo libro che le ho recensito, anche questo Per amore di Elena è localizzato all’interno di un’università, Cambridge, per la precisione, in cui una bella ragazza viene uccisa mentre sta facendo jogging una mattina prima dell’alba.
Thomas Lynley si trova quindi a dover interrogare di nuovo la stessa tipologia di persone dell’altro romanzo: professori, studenti, personale didattico e familiari, con in più la complicazione che la ragazza era bellissima, incinta di pochi mesi e affetta dall’handicap della sordità, oltre al fatto che l’assassino per ucciderla ha infierito con una ferocia fuori del comune fin ad arrivare a sfigurarla.
Da questi fatti parte tutta una serie di panegirici su cui la George non risparmia le parole, dall’esplorare le ipotetiche motivazioni dell’assassino all’analisi psicologica dei rapporti familiari, fino a stendere un vero e proprio trattato sulla sordità e le interazioni di coloro che ne sono affetti con il mondo delle persone normali.
E la fa più lunga del solito anche sulle vicissitudini dei protagonisti seriali: sul rapporto di Lynley con Lady Helen e sui problemi della Havers con la madre che non ci sta più con la testa.
Il risultato è quello che il libro ben presto si fa noioso, nettamente al di sotto degli standard soliti dell’autrice, e si risolleva un po’ solo quando, a circa tre quarti, un secondo omicidio si viene ad aggiungere al primo.
Diverse volte ho provato il desiderio di piantarlo, ma pensando che anche i migliori possono toppare ho proseguito fino al termine e all’individuazione dell’assassino.
Sarà stato anche noioso, ma fortunatamente non mi ha tolto il desiderio di leggere altri romanzi di questa autrice. Aspettatevela di nuovo a breve, e speriamo che il prossimo sia migliore.
Il Lettore