domenica 30 marzo 2014

Lo Squizzalibro di domenica 30 marzo

Anche questa settimana vi proporrò un quizzettino facile facile, così la piantate di lamentarvi che faccio le cose troppo difficili… che per rispondere bisognerebbe aver letto tutto… che non ho mica tanto tempo da perdere… che questi libri chi li conosce…  che ho troppo da studiare… che porca miseria piove e volevo andare a cogliere asparagi… (no, oggi è bello, pubblico e vado).

Sarai soddisfatto, Edo…


1 – Il libro da indovinare oggi è un bestseller.
2 – La protagonista è una bambina.
3 – Ma il narratore è un personaggio molto particolare, direi unico.
4 – È ambientato in un paese europeo che non è il nostro e in un contesto storico risalente a un’ottantina di anni fa.
5 – Ne hanno tratto un film che sta uscendo nelle sale italiane proprio in questi giorni.
E allora? Non vi sembra veramente troppo facile?
Freereader

venerdì 28 marzo 2014

La Forma e la Sostanza

Giulio Mozzi, nel suo (Non) un corso di scrittura e narrazione, riporta un brano di Annamaria Testa tratto da Le vie del senso: “Prestare una giusta attenzione alla forma nella quale si trasmettono i testi (…) potrebbe (dovrebbe?) essere il segno di un’altrettanto giusta attenzione alla sostanza. A volte, invece, si tende a considerare la forma tanto più disprezzabile o irrilevante quanto più i contenuti sono, o vogliono essere fondamentali. E’ un’ingenuità che si può pagare cara”.

La pena è la sospensione definitiva della lettura da parte del Valutatore della Casa Editrice. Pena capitale, oserei dire.


Mozzi commenta: “Non ho potuto fare a meno di pensare, leggendo quel bel libretto, ai dattiloscritti in attesa di lettura che sono impilati qui, a destra del tavolo sul quale sto scrivendo. Di quei dattiloscritti, alcuni mi sembrano addirittura impossibili da leggere. Corpi piccolissimi, margini inesistenti, font bizzarri, impaginazioni irregolari. (…) Di fronte a un dattiloscritto semplicemente illeggibile, la mia domanda è «Ma questa persona, vuole davvero farsi leggere?»”.
Come li capisco!
Io stesso scrivevo in questo post: “Se siete proprio convinti, allora il passo successivo è impaginare la vostra opera in modo che sia un piacere leggerla (ad uso pressoché esclusivo di un eventuale Valutatore): caratteri sufficientemente grandi, righe ben spaziate, margini ampi sia di lato che sopra e sotto il testo. Questo è facile, basta ricalcare una qualsiasi pagina di un romanzo in una buona edizione. Ma fatelo, renderete la lettura più piacevole a colui che dovrà giudicare l’opera e lo predisporrete in modo positivo. Non fate l’errore di sottovalutare questo aspetto”.
Ma tutti coloro che leggono manoscritti inediti sanno per esperienza come una mole considerevole di materiale arrivi invece redatta in maniera illeggibile, sia perché compressa nel foglio come gli schizzi in una tela di Pollock, sia a causa di refusi ed errori ortografici. Per non parlare poi dei contenuti.
Personalmente mi si fa male quando sono costretto a leggere un Times New Roman corpo 9 a interlinea singola che riempie una pagina senza margini con più di 900 parole (5400 caratteri!): mi indispone all’impatto, prima ancora di cominciare a leggere la prima riga. Mi irrita, e questo non significa esattamente che sono nello stato d’animo adatto a giudicare benevolmente lo scritto. Tra l’altro, una tale impaginazione significa che l’autore non ha nemmeno riletto il proprio testo, altrimenti si sarebbe accorto della difficoltà di lettura in cui si stava impelagando, e da ciò deriva che il testo sarà anche pieno zeppo di errori di qualsiasi tipo. Ne consegue che quell’autore il proprio testo non lo ama neanche abbastanza da controllarlo e dotarlo di un minimo di qualità estetica, non parliamo dell’averselo gustato per se stesso.
Ma come? Tu stesso non lo ami e pretendi che qualcun altro debba leggerlo?
Il Valutatore 

mercoledì 26 marzo 2014

Trucchi d’autore

Sempre per la serie “testi per la scrittura” ho ripreso in mano questi due volumetti di Mariano Sabatini che avevo letto appena usciti, il primo nel 2005 e il secondo due anni dopo, nei quali l’autore intervista un centinaio di scrittori in tutto rivelandone le tecniche e le abitudini, i vizi e le manie da cui sono affetti nel momento in cui si mettono a scrivere.

Mi sono tornati in mente analizzando il (non) manuale di Mozzi, e mi è presa la curiosità di vedere se vi fossero nominati alcuni degli autori che lui cita. Tutto ciò nell’attesa di terminare di studiarlo e di passare ad altri testi utili (per Massimo B.: sto cercando il testo da te consigliato, mi hai fatto venire troppa curiosità).


Il riprendere in mano i Trucchi d’autore a distanza di anni mi ha fatto notare come fosse ancora presente nella mia mente tutto ciò che vi si era sedimentato dopo la lettura: assolutamente nulla.
Non voglio dire con questo che i due libretti facciano schifo, anzi, sono simpatici, piacevoli, soddisfano molte delle curiosità che possono assalire una persona che si mette a scrivere ed è desiderosa di confrontarsi con chi ci è passato prima di lei. Nel corso di brevi interviste di 3 o 4 pagine per ogni autore Sabatini dialoga con scrittori noti e meno noti, da Camilleri a Baresani, da Faletti a Scaglia, da Nove a Riccarelli, da Avoledo a Nerozzi eccetera, domandando loro dal come scrivono al dove scrivono al quanto scrivono, su che cosa, foglio tablet o pc, su che tipo di tavolo, in che orari del giorno, come hanno cominciato, cosa leggono, da cosa prendono ispirazione, cosa alimenta le loro tematiche, che consigli darebbero ad un principiante eccetera, scendendo per ognuno negli aspetti particolari dei loro prodotti.
Ne emerge un quadro variegato, a tratti utile e divertente, a tratti anche noioso, che soddisfa il lato voyeuristico nascosto in ognuno di noi (Faletti dice che mentre scrive tiene in bocca una vecchia pipa, un po’ perché così non fuma sigarette, un po’ perché fa molto scrittore; la Carrano pensa tutto il male possibile delle scuole di scrittura…).
Il problema è che quando leggi le particolarità di cinquanta scrittori tutti insieme, tutta questa enorme messe di dati entra nella memoria a breve termine e si volatilizza immediatamente senza rimanere scolpita nella banca dati della memoria a lungo termine, in definitiva rendendo completamente inutile la lettura appena fatta. Senza contare il fatto che andando ad analizzare le risposte ci si rende conto, come io sostengo da sempre, che nel campo della scrittura è vero tutto e il contrario di tutto: il tavolo dove gli scrittori veri compongono i loro capolavori è di volta in volta di marmo, di legno, di granito, di laminato plastico, di cristallo, di fòrmica, vecchio, nuovo, fatto su misura, ingombro o desertico, da cucina o scrivania, bruciacchiato da sigarette o protetto da panni verdi, impiallicciato o traballante o recuperato al mercatino delle pulci.
Io in genere scrivo sul tavolo della sala dove mangiamo: è di noce massiccio dell’ottocento siciliano, ha più di centocinquant’anni e un valore ragguardevole. Le quattro grandi assi separate di cui è composto il piano sono costellate di fori di tarli che ho stuccato con cura quando l’ho restaurato prima di passarvi sopra otto mani di gommalacca naturale. Le ulteriori assi, che permettevano di prolungarlo fino a più di cinque metri dando modo di sedersi comode a diciotto persone, purtroppo sono andate perse. Mi ci trovo a mio agio.
Vorrà dire qualcosa?
Il Lettore 

lunedì 24 marzo 2014

Billy – Il vizio di leggere

Proprio dopo il dolce domenicale, oggi (ieri, per voi) mi è capitato di vedere questa trasmissione di Rai Uno in coda al telegiornale delle tredici, condotta da uno di cui non mi è mai interessato sapere il nome e che parla di libri. Di certo una delle poche in televisione che trattano l’argomento. Un’altra è Per un pugno di libri di Rai Tre, nella quale perlomeno si possono apprezzare la conoscenza e l’onestà intellettuale di un Piero Dorfles.


Al termine, dopo la recensione di tre o quattro opere delle quali non ricordo né nome né autore (svaniti senza lasciare traccia, ma basta cercare su google: rai uno billy del 23 marzo 2014, se proprio uno fosse curioso), mi è venuto spontaneo di esclamare: “Certo che recensioni così la voglia di farti leggere quei libri te la fanno passare!”. Con stupore ho notato che tale affermazione ha ricevuto l’approvazione di mia moglie: “Mmhh”, ha mugugnato facendo cenno di sì con la testa due volte (non è che mia moglie sia muta, è che in genere fa economia di parole riservandole a quando deve darmi contro su qualcosa).
La cosa scontata è che dei libri recensiti ne parlavano benissimo, ma in un modo che ti fa chiaramente capire come la cosa fosse molto vicina al confessarti che qualcuno aveva loro ordinato di parlarne bene per forza. Un po’ come Vincenzo Mollica a DoReCiakGulp! (notare che per questi due nomi propri non ho usato il grassetto, volutamente): l’avete mai sentito parlare male di qualcuno? L’avete mai sentito parlare bene di un’opera o di un artista veramente meritevole? Come quando mi avevano proposto di scrivere delle brevi recensioni (gratuite) per un noto quotidiano della mia città: il problema (mio) era che dei libri che mi davano da recensire, indipendentemente dalla porcata che fossero, ne potevo parlare solo bene… La storia  è durata molto poco.
Il concetto che traspare da queste finte trasmissioni è quello che passano il vaglio solo opere e autori che sono sponsorizzati non poco. Non ci si basa sul contenuto intrinseco, ma solo su quanto è disposta a sborsare la casa editrice in funzione della visibilità fornita ad un’opera che potrebbe fare cassetta. Per forza di cose il povero telespettatore dovrà fare ricorso alle sue capacità di traduzione simultanea per capire veramente come stanno le cose, e saranno avvantaggiati coloro che possiedono un certo intuito nel leggere tra le righe. Allo scopo di fornire delle dritte utili alla giusta fruizione di tali trasmissioni, vi fornisco dei modelli ai quali sarà utile fare riferimento: per esempio, l’asserzione: “un monumentale affresco di una saga familiare che si dipana a cavallo di due guerre mondiali e di tre stati europei…” si traduce con: “pippone interminabile che ti annoia dalla seconda pagina con centinaia di personaggi che non ricorderai mai”. Oppure: “l’acuta introspezione del protagonista costituisce lo sfondo di un conflitto tra generazioni foriero di implicazioni costruttive”, che in realtà significa: “ennesima e pallosissima masturbazione mentale dello stronzo di turno che non aspetta altro che crepino i genitori per incassarne la pecunia e fare finalmente quello che cazzo gli pare in un romanzo da dare a Pepe Carvahlo per permettergli di accendere il fuoco nel caminetto scacciando il gelo nel corso di una lunga sera invernale”.
E il bello è che parecchi sprovveduti ci cascano anche.
Quello che tradisce i reali intendimenti dei curatori di queste trasmissioni è il tono. Dalle critiche esplicitate si sente che il romanzo in realtà non è stato nemmeno letto, che le parole in bocca gliele hanno messe gli editori (quelli che se lo possono permettere, ovvio). Non è che ti dicano: “Cazzo, bellissimo, ho fatto nottata per finirlo!”, come diresti tu al tuo migliore amico nel momento di consigliargli un romanzo da leggere.
E visto che sono costretti ad occuparsi di opere che in genere non meritano, devono fare ricorso a perifrasi roboanti e criptiche. Ma le motivazioni raffazzonate prima o poi si percepiscono.
Un’ennesima conferma alla fondatezza della convinzione di non guardare il piccolo schermo, e soprattutto non credere a una parola di ciò di cui cercano di convincerti.
Il Critico Televisivo

sabato 22 marzo 2014

(Non) un corso di scrittura e narrazione

Oggi avrei dovuto pubblicare una qualche recensione. Solo che non ho nulla da recensire, e non ho nulla da recensire perché sono impegnato a studiare. Ho momentaneamente accantonato il tomo che stavo leggendo (e che sinceramente non mi tira più di tanto, ve ne parlerò più in là), per dedicarmi al trattato di cui nel titolo, scritto da Giulio Mozzi, narratore, lettore per case editrici, editor (mi hanno riferito che probabilmente è il curatore editoriale più in gamba che ci sia in Italia) e docente di tecniche narrative. Prima che mi dessero il suo libro non l’avevo mai sentito nominare.

A questo punto avrei dovuto inserire la copertina del testo, ma il fatto è che non ce l’ho perché mi hanno fornito (grazie!) una versione digitale senza alcuna immagine di copertina. Se vi accontentate, vi allieto con una rilassante immagine di Bill Watterson raffigurante una situazione idilliaca: leggere insieme a un amico davanti a un caminetto acceso. Il problema è che a me in genere viene affibbiata la parte del papà che spala la neve.


Sto studiando perché tra poco tempo dovrò probabilmente tenere dei corsi di scrittura, e nel tentativo di essere un buon docente mi sto documentando e sto raccogliendo e organizzando materiale utile. Del trattato di Mozzi sono circa a metà, e devo dire che lo sto trovando un’interessantissima analisi di molte delle tecniche che è necessario conoscere per un possibile passaggio da  “scribacchino” a “potenziale scrittore”. Il docente fornisce a piene mani valutazioni e consigli di cui va fatto tesoro. Da qualche altra parte io stesso scrivevo: “non si potrà mai insegnare a scrivere bene, in quanto quell’ingrediente fondamentale per una buona scrittura che è la creatività non è trasmissibile per via didattica”, però in molti casi è possibile migliorare la resa funzionale ed estetica del pensiero che si intende esprimere, e a questo scopo esistono tecniche che vanno imparate e che qualora le si conosca potrebbero aiutare ad operare scelte produttive consapevoli nella stesura di un qualsiasi scritto.
Questo testo del Mozzi analizza molte di queste tecniche, osservando la problematica sia dal punto di vista del lettore che dalla parte dello scrittore, e una cosa che mi sta gratificando molto nel leggere è che a molte delle conclusioni dell’autore c’ero arrivato già per conto mio, solo sulla base della mia esperienza di lettore e di scrittore. Il trovare codificati concetti sui quali mi trovo già d’accordo assume l’aspetto di un’iniezione di fiducia in se stessi. È altrettanto naturale come su molte altre delle sue indicazioni, pur ritenendole fondate, io non sia d’accordo: in un campo come questo è vero tutto e il contrario di tutto. Un esempio che non c’entra nulla con Mozzi: da molti, da troppi ho sentito affermare che il momento migliore per scrivere è la notte: la notte è magica, la notte porta consiglio, la notte aiuta la concentrazione, il silenzio della notte è foriero di intuizioni, nella notte si da il meglio di sé.
Io la notte dormo.
Tra l’altro, il Mozzi sembra essere molto più cattivo di me nel ruolo di valutatore: dove io ho confessato di bocciare il 95% dei manoscritti che arrivano in redazione, leggo dal suo libro che lui ne boccia il 99.8% (!), arrivando a farne pubblicare in media solo due su mille, e solo dieci su mille giunge a ritenerli interessanti. Percentuali deprimenti. Mi consolo pensando che i corsi di scrittura servono anche a migliorare questi dati.
Il Lettore

giovedì 20 marzo 2014

Una tranquilla domenica di sangue

L’altro giorno ho ricevuto una singolare mail della quale vi riporto uno stralcio:
Egregio Direttore del Blog (sic), è da qualche tempo che seguo le Sue recensioni e mi sono permesso di scriverLe per consentirLe di poter finalmente ottimizzare la qualità dei Suoi interventi. In linea di massima mi trovo per lo più d’accordo con le Sue considerazioni critiche riguardo alcune pubblicazioni (ho apprezzato in particolare la Sua stroncatura della barbara maniera con la quale Licia Colò sviluppa un argomento importante come quello dei Gatti), ma il modo con cui Ella (sic) tratta argomenti così interessanti potrebbe essere suscettibile di sostanziali miglioramenti. Certo di farLe cosa gradita, La invito a permettermi di collaborare al Suo Blog con la recensione che Le allego, in modo da innalzare così il tono della discussione. Distinti saluti, Prof. Pallucchino. PS: Le fornisco anche un mio ritratto, con il quale sono certo Ella vorrà adornare il mio modesto contributo.

Sono allibito. E il “ritratto” eccolo:


Dev’essere uno scherzo, mi sono detto; poi sono andato ad aprire l’allegato e ci ho trovato una recensione in piena regola, apparentemente di un romanzo dal titolo Una tranquilla domenica di sangue. Queste  parole hanno risvegliato qualcosa che assopiva tra i miei neuroni sovraccarichi. Sono andato a scartabellare digitalmente tra la marea di manoscritti scartati sepolti nel mio hard disk e ho esultato (è un eufemismo…) quando ho trovato il file dallo stesso titolo che mi era stato spedito tempo fa da tale S.P. con una richiesta di valutazione. File che avevo letto quasi fino in fondo e subito dopo dimenticato senza darmi nemmeno la pena di rispondere all’autore: a buon intenditor poche parole.
Guarda che coincidenza, ho pensato, ma ciò è bastato per spingermi a leggere la recensione nonostante il tono saccente della mail. Con sorpresa, ho riscontrato che il parere sancito da questo Professor Pallucchino (chissà di chi sarà lo pseudonimo… con quella foto, poi…) concorda pienamente con ciò che avevo pensato durante il tentativo di lettura del manoscritto, e ho deciso su due piedi di inaugurare le collaborazioni esterne a questo blog riportando integralmente il contributo che mi è pervenuto.
Visto che l’opera di cui si tratta è un inedito e quindi non potete conoscere la trama del racconto, ve ne fornisco la sinossi elaborata dallo stesso autore:
“La Colonia felina di Montelepre è travolta dai problemi. Cani randagi assassini fanno strage di gatti, un vecchio, ma non meno pericoloso, nemico che ritorna e la depressione dell’umano che accudisce i mici abbandonati al loro destino a causa di difficoltà finanziarie. Tutto sembra perduto e la Colonia è a un passo dallo sfacelo quando Tazza, il gatto Capocolonia, decide di sostenere psicologicamente il suo amico umano depresso. Contemporaneamente un quadruplice omicidio viene perpetrato nei pressi della Colonia. Un fatto tragico che stravolgerà gli eventi.”
E a detta del Professor Pallucchino lo svolgimento di tale vicenda è stato letto a voce alta alla conclave di mici della colonia I gatti di Monte Malbe proprio dal capocolonia,  il micione Tazza immortalato nella foto seguente, che per strana coincidenza assume anche la parte del Narratore interno alla storia nel romanzucolo di cui si tratta.


A quanto pare, il Professor Pallucchino sembra rivestire il ruolo del Letterato della Colonia, e del romanzino incriminato mi fornisce questa critica:
“Io gli umani non li capirò mai: si mettono a scrivere romanzetti e fanno pure finta che a narrare i fatti siamo noi Gatti. E non fanno altro che parlare dei loro problemi: droga, ammazzamenti e soldi, soldi, sempre soldi. Mica si mangiano, i soldi! Almeno scrivessero di cose interessanti! Che ne so, qualcosa su noi Gatti, per esempio. Mah!
Questo romanzaccio che ci ha letto Tazza (che poi sotto sotto non sono mica sicuro che non l’abbia scritto davvero lui…) è servito solo a tener buona Littorina per un po’. Quanto a valore letterario… be’, per una volta, ma solo per una volta, lasciatemelo dire, quasi quasi mi ha fatto rimpiangere quel mollaccione insopportabile di Fabio Volo.
Primo, la trama è trita e ritrita, scialba e scarna: dal punto di vista felino non succede nulla di rilevante fatta salva la partecipazione sostanziale di alcuni di noi alla risoluzione (scontata) della vicenda, della quale peraltro nessuno di noi è responsabile. Faccende di umani, e per questo insignificanti.
Secondo, troppi personaggi umani e pochi Gatti, le cui peculiarità non emergono come si sarebbero meritati. Inoltre, agli umani poliziotti l’Autore fa fare la figura dei cani (Ha! Ha! Ha! Buona questa!), mentre solo l’umano detto “Il Capo” sembra emergere quanto a carattere, il ché mi fa pensare ad uno spudorato narcisismo autobiografico.
Stile: ci sono veramente troppi dialoghi in umanese, sembra un testo scritto per il teatro! È vero che il tutto scorre benino, ma le risicate descrizioni non permettono di focalizzare al meglio i nostri luoghi. I Luoghi Gatteschi, intendo dire.
Leggibilità: sì… tutto sommato buona… (anche se l’interpretazione di Tazza lascia molto a desiderare), ma si poteva senz’altro fare di meglio.
In definitiva un testo banale, superficiale, prolisso e totalmente inutile per la superiore causa di noi Gatti.
Firmato: Professor Pallucchino.
Ricordando la lettura da me fatta del manoscritto, mi trovo con stupore a concordare con questo ignoto critico letterario, e di conseguenza acconsento volentieri all’inizio di una collaborazione che spero possa rivelarsi proficua.
Lo Scrittore & Pallucchino

martedì 18 marzo 2014

Dialogo tra credenti e non credenti

Che Francesco sia un grande Papa non ho dubbi. È la persona che ci voleva, un uomo che tenta col suo esempio di riportare la Chiesa, e con lei noi tutti, credenti e non credenti, ai doveri primari di umiltà e fratellanza.

Che questo libro sia veramente utile e non rappresenti invece un’ennesima, spudorata operazione commerciale, di dubbi invece ne ho diversi.


Tanto per cominciare, di pagine sul dialogo tra Papa Francesco e Eugenio Scalfari ce ne sono solo 54: le restanti 120 sono costituite da scritti di altre personalità più o meno in vista, più o meno carismatiche, più o meno interessanti, più o meno divise tra le due parti in causa (la leggera preponderanza di non credenti fa anche sospettare un preciso diktat redazionale). Tutti scritti già pubblicati su “La Repubblica” in forma di lettere di risposta al Direttore: non credo proprio che gli editori distribuiscano diritti d’autore.
Credenti o non credenti, il dilemma dell’esistenza di un Dio ci riguarda tutti, e prima o poi nella vita ognuno di noi lo affronta con se stesso giungendo alla fine a convincersi dell’esistenza o meno di un essere superiore, che poi nel caso potrà essere chiamato con qualsiasi nome si reputi più opportuno. Personalmente condivido in pieno la dottrina del Cristo volta ad un insegnamento della maniera corretta di vivere nel corso del nostro passaggio su questa terra, ma non accetterò mai che il razionalismo in cui credo sia dominato da una fede basata solo su indizi aleatori, e in questo mi trovo ad essere d’accordo con Scalfari quando a pag. 30 afferma: “Penso che Dio sia un’invenzione consolatoria e affascinante della mente degli uomini”.
Uno Scalfari che in questo libro appare un po’ meno farneticante di come si è mostrato in alcuni dei suoi ultimi interventi politici. Al termine di una riflessione personale pone a Francesco tre domande delle quali ogni non credente consapevole conosce già quale sarà la risposta proveniente da un Papa: per tutte e tre i quesiti la risposta condensata è, come al solito, il rifugio nella Fede. Nel corso del dialogo Scalfari scende su un piano dialettico confutando, o perlomeno mettendo in discussione, dei punti tratti da dogmi riconosciuti della Chiesa, non tenendo in considerazione il fatto che tutti gli assiomi che lui sta inserendo nella discussione sono, dal punto di vista di un non credente, nient’altro che affermazioni riportate da uomini, episodi biblici scritti da uomini. Scalfari cita “Dio promise ad Abramo…”, “Dio afferma che…”, dimenticando che è stato un qualche uomo a scrivere che Dio ha promesso, Dio ha affermato: Dio in prima persona non ha mai detto nulla a nessuno.
Alle tre domande il Papa risponde in maniera spontanea e genuina, aprendo un colloquio che in ogni caso rappresenta ciò a cui tutti dovrebbero aspirare al di sopra delle ideologie: uno scambio costruttivo tra rappresentanti di diversi schieramenti. Senza pretendere che il contendente cambi le proprie convinzioni (e mi fa anche venire in mente che un dialogo tra credenti e non credenti è un po’ come una qualsiasi discussione tra moglie e marito, Venere e Marte: ognuno resta fermo sulle sue posizioni senza mai arrivare ad essere persuaso del tutto dall’altro).
A corollario dello scambio (leggi: per impolpare il libro e giustificarne il prezzo di copertina), sono riportati i pareri di alcuni personaggi: si va dall’illuminismo di un Vito Mancuso quando da credente convinto afferma “anche per quelli che come me accettano serenamente il dato scientifico dell’evoluzione”, alla consueta incomprensibilità di un Guido Ceronetti e di un Massimo Cacciari che sembrano crogiolarsi nei loro costrutti arcani e contorti e sembra di sentirli esclamare “accidenti, quante parole difficili conosco! Quanto scrivo complicato! Che intellettuale che sono!”. E poteva mancare qualcuno che cita Pascal e la sua “comodità” del credere in Dio?
Fede o non fede, il Mistero resta, insieme alla positività di un dialogo. Le cui conclusioni rimarranno però sempre aria fritta.
Allora, da questo punto di vista sarebbe forse più interessante leggere il libro di Marco Ventura - Creduli e credenti -  che potrebbe essere un’interessante analisi tra chi prende sul serio la propria fede religiosa e chi invece si lascia irretire dai dogmi imposti e dalle manipolazioni politiche. Troppi tra i credenti confondono l’amore per Dio con l’amore per la Chiesa e le sue sovrastrutture, problema al quale accenna anche Vito Mancuso nel suo intervento.
Il Lettore 

domenica 16 marzo 2014

Lo Squizzalibro di domenica 16 marzo

Benvenuti al consueto appuntamento domenicale con lo Squizzalibro.

Bando alle ciance e via con gli indizi.


1 – Il libro da indovinare questa settimana non è un romanzo, né un saggio.
2 – Né una raccolta di racconti o di favole per bambini.
3 – D’altra parte non è una commedia teatrale, né una biografia.
4 – Lo si potrebbe definire appartenente al genere “spudorata operazione commerciale”, visto che appena uscito come libro è salito immediatamente in testa alle classifiche di vendita, nonostante i testi in esso riportati fossero già stati pubblicati altrove in un passato molto recente.
5 – Gli autori principali sono due, il primo dei quali famosissimo e l’altro solo famoso, ma in realtà l’hanno scritto in sedici, nessuno dei quali percepisce diritti d’autore. E gli editori gongolano…
Forza che è facile!
Freereader

venerdì 14 marzo 2014

Bocca di rosa

Dopo Einstein pensavo di potermi rilassare con la lettura di qualcosa di leggero, ma tanto bene mi sono capitati sotto mano ben due testi che dire tosti sarebbe poco, entrambi di recentissima uscita e che necessitano anch’essi di un certo tempo per essere letti e assimilati. Ne sentirete parlare prossimamente su questi schermi.

Quindi,  dal momento che non avevo nessuna lettura attuale della quale proporvi la critica, ho ripescato dagli scricchiolanti scaffali della mia libreria un simpatico saggio letto qualche tempo fa, e ci ho articolato sopra un commentino. Tanto per tenermi in esercizio.


Non è la Bocca di rosa di Fabrizio De Andrè, ma come specifica il sottotitolo: Storia, miti e pratiche dell’amore orale, siamo in presenza di una trattazione simpatica e semiseria proprio sul punto di congiunzione tra la bocca e gli organi genitali, sviluppata da un giornalista, Luciano Spadanuda, che è uno dei massimi esperti italiani  di storia dei costumi sessuali.
In quest’epoca di contraddizioni, di forzate liberalizzazioni e sospetti moralismi, di malattie demonizzate ed eccessive ostentazioni, di falsi perbenismi, Spadanuda ricostruisce senza alcun finto pudore la storia delle due pratiche sessuali più comunemente sostitutive (o integrative) dell’amplesso, fellatio e cunnilingus,  analizzandone aspetti e scopi e tirando in ballo una nutrita casistica di personaggi illustri che hanno parlato (od usufruito) di tali sistemi. Da Teophile Gautier ad Eleonora d’Aquitania, da Marziale a Cleopatra, da Giosuè Carducci a Charlie Chaplin a Marilyn Monroe, da Linda Lovelace a Bill Clinton e tantissimi altri, una moltitudine di uomini e donne vengono coinvolti in un percorso attraverso i secoli che spiega non solo il perché del successo continuo di tali divertimenti alternativi nonostante tutti i divieti e le censure (morali) che via via hanno cercato di impedirli, ma chiarisce anche come in determinati periodi storici si preferiva fare ricorso ad essi, in sostituzione di, per combattere o perlomeno arginare il dilagare di epidemie o per ovviare ad una consolidata assenza di corrette abitudini igieniche, oltre ovviamente come sistema contraccettivo.
Anche per quest’ultimo motivo è naturale che la parte più corposa del testo sia dedicata alla fellatio, ed anche perché storicamente la donna è stata per una gran parte dei secoli considerata alla stregua di una proprietà, di un bene economico quando non di una serva o di una fattrice di figli e null’altro (e purtroppo ancora oggi in alcune aree del mondo la situazione è rimasta invariata), e di conseguenza, come afferma l’autore, “chi mai si sarebbe preso il disturbo di andare a leccare la fica a una donna per procurarle piacere e per gratificare la sua femminilità?” (oops…).
Spadanuda non cade nell’errore di tentare di spiegare dal punto di vista psicologico il perché queste pratiche sono sempre state gradite e piacciono tanto, ma attraverso una lunga serie di racconti, aneddoti, richiami storici e letterari si limita a ripercorrerne l’usanza attraverso i secoli, in un libretto veramente carino, godurioso, oserei dire.
Il Lettore

mercoledì 12 marzo 2014

Einstein – seconda parte

In totale accordo con la teoria della relatività, il tempo che mi è stato necessario per terminare questo libro si è dilatato fino a valicare i confini dello spazio-tempo.

Bello, veramente bello e interessante questo Einstein di Walter Isaacson, un libro dal quale emerge una figura reale, di un’umanità costituita in pari grado di genio e debolezze.


La biografia di Einstein mi affascina, mi intriga il riuscire a capire come un uomo da solo, grazie soltanto alle sue intuizioni e alle sue riflessioni, sia riuscito ad elaborare la teoria più sublime mai immaginata dai tempi di Copernico. Un po’ come i romanzieri: solo immaginando “se”. Cosa succederebbe se mi trovassi seduto a cavallo di un raggio di luce? Come vedrei il mondo? Tutto è partito da questo.
E il tutto vagheggiato da un giovane ribelle, insofferente all’autoritarismo sia politico sia scientifico che dominava nella società soprattutto tedesca dell’inizio del secolo scorso. Un personaggio che ha portato avanti le sue idee per rivalsa contro gli ordini precostituiti, e che per ribellione nell’ultima parte della sua vita ha cercato invano di confutare alcune delle teorie, come il principio di indeterminazione, che aveva contribuito a far affermare.
Nel libro di Isaacson è affascinante osservare come l’autore abbia saputo illustrare l’alternanza delle spiegazioni sul pensiero scientifico di Einstein con la genesi del suo impegno civile, pacifista e antimilitaristico, oltre alla sua personale lotta interiore per aver contribuito con le sue teorie alla nascita della bomba atomica e l’averne osservate direttamente le tragiche conseguenze su Hiroshima e Nagasaki. Ma sono illustrate bene anche le incongruenze nelle convinzioni religiose, con il conflitto tra il credere e il negare l’esistenza di un Dio che secondo lui alla fine dovrebbe sì esistere (…non crederò mai che Dio giochi a dadi con il mondo…), ma non nel modo in cui è comunemente inteso dai dogmi religiosi.
E le scissioni nella personalità di un uomo che ama i propri figli, ma più volte non esita ad abbandonarli, ama le proprie mogli, ma non si fa scrupolo di tradirle in continuazione alla stregua di un donnaiolo impenitente, crede nelle proprie teorie, ma cerca di dimostrarne le lacune; di un uomo che rinnega la propria nazionalità di nascita e diventa dapprima un apolide e quindi un immigrato in un paese che allo stesso tempo ama ma del quale condanna molti aspetti che non si accordano con il suo pacifismo e con la sua ingenua utopia di un controllo mondiale sovranazionale, non democratico, ma che vede come unica soluzione per porre fine alle guerre.
Nel libro emerge anche la perplessità nel capire il come, e soprattutto il perché, il personaggio Einstein abbia assunto il rango di un divo, fenomeno mai successo prima per uno scienziato, con scene di frenesia di massa al suo apparire come in seguito si sarebbero viste per i Beatles, o persone che vanno a sbattere con la macchina solo per essersi distratte nell’averlo incrociato.  Forse ciò si può ricondurre all’evento concomitante di crescita dei mass media e alla massiccia diffusione dei giornali che hanno reso la gente desiderosa di notizie e di personaggi sui quali appuntare la propria curiosità, fatto sta che mai prima di Einstein la celebrità era entrata a far parte in maniera così intima nella vita di uno scienziato.
Bel libro, bravo Isaacson. Uno di quei tomi sommamente impegnativi una volta finiti i quali ti trovi smarrito ad esclamare: Oddìo, e adesso cosa leggo?
Tranquilli, ho già iniziato il prossimo…
Il Lettore 

sabato 8 marzo 2014

Einstein – prima parte

Perdonate il ritardo sul consueto ritmo delle mie pubblicazioni, ma il libro che sto leggendo, e che ancora  non ho terminato, richiede tempo e concentrazione: non è proprio un giallettino da quattro soldi questo Einstein di Walter Isaacson, e mi ci sono voluti diversi giorni per trovarmi ancora a pagina 396.


Al punto in cui sono arrivato è il 1932, e in questo momento sono avvinto dal conflitto interiore di un Einstein tormentato da un amore/odio per quella Germania che non sente più sua ma nella quale ha appena finito di edificare la sua amata e desiderata casetta di campagna, e dalla quale riuscirà a fuggire subito prima dell’ascesa al potere di Hitler.
Come ho sostenuto a riguardo della biografia di Steve Jobs (ed ora capisco perché quest’ultimo, dopo aver letto questo libro, ha chiesto proprio ad Isaacson di scrivere su di sé), l’autore di questo libro è uno scrittore, perdonate il francesismo, con le palle quadre. Ancora, per 396 pagine, non ha mai permesso alla tensione narrativa di calare di un briciolo, e sì che è una biografia, non un romanzo! Lo sappiamo già come va a finire: Einstein alla fine muore, eh sì, mi dispiace ma ve lo dovevo dire, a Princeton, nel 1955. Di vecchiaia, di conseguenza non c’è nemmeno da investigare per trovare un presunto assassino, eppure Isaacson riesce a far palpitare questo libro come fosse una fiction e noi non sapessimo già quello che succede dopo.
Certo, non è un libro facile. Oltre alla vita, l’autore ripercorre  anche il pensiero del più grande fisico del secolo scorso e per ogni sua intuizione cerca di ricostruirne il percorso dal quale è stata derivata, e se la spiegazione della teoria della relatività ristretta è scritta in un modo che anche un non-fisico riuscirebbe a capirla, quando si passa alla teoria della relatività generale e si entra in un mondo costituito da tensori metrici, princìpi di indeterminazione, salti quantici e altre amenità del genere, l’aver sostenuto gli esami di Fisica I e Fisica II e l’aver conseguito una laurea nelle materie scientifiche mi ha aiutato non poco a riuscire a comprendere ciò che viene trattato.
Non voglio dire che chi non conosce le equazioni di Maxwell è meglio che non apra questo libro, ma certo che l’averne già sentito parlare un pochino aiuta nella sua comprensione, perlomeno nel sapere sul che cosa stiamo ragionando. Come aiuta il sapere chi siano stati Bohr, Heisemberg, Planck, Schrödinger, De Sitter e molti altri, e un’altro aspetto piacevole del libro è anche quello di individuare delle persone vere dietro nomi imparati nei testi universitari per ciò che essi hanno fatto.
Di Einstein Isaacson esamina il lato scientifico e quello umano e, come poi farà per Jobs, non si schernisce nell’illustrarne in modo spietato anche i difetti e le magagne, mescolando in modo abile il lato scientifico con quello umano, la vita pubblica e la vita privata (nella quale il nostro Albert non è stato quel che si suol dire un mostro di correttezza), il pensiero sublime e le incertezze che affliggono qualsiasi essere umano.
Ma lasciatemi arrivare fino in fondo, poi ci tornerò sopra.
Fine prima parte.
Il Lettore 

mercoledì 5 marzo 2014

Leggere la fotografia

Come ho già detto in più post sono anche un appassionato di fotografia, di conseguenza molto spesso mi soffermo a studiare le varie gallerie fotografiche che appaiono in rete. La cosa che non capisco è come facciano alcuni fotografi ad avere eco in tutto il mondo per degli scatti che sarebbero riusciti meglio anche alla mia gatta.


Il libro di oggi, Leggere la fotografia di Augusto Pieroni, è un testo prettamente tecnico e la sua recensione è solamente una scusa per cavarmi un sassolino da una scarpa. L’autore è uno storico e critico d’arte che in questo saggio compendia un’analisi delle tecniche necessarie a comprendere al meglio il linguaggio fotografico, tecniche dalle quali molte persone che si definiscono “fotografi” dovrebbero attingere prima di mandare per il mondo i loro obbrobri. Testo interessante, immagini esplicative, esempi esaurienti, citazioni di fotografi famosi fanno di questo libro un piacevole studio per tutti quelli che si avvicinano al mondo dell’immagine.
Ma sembra che molti di questo libro (e di tanti altri che trattano gli stessi argomenti) non abbiano mai sentito parlare, quegli stessi che appena presa in mano una macchinetta digitale da due lire si sentono alla stregua di un Gianni Berengo Gardin.
Date un’occhiata a queste due gallerie:
Ora, al di là del significato artistico e sociale dei temi trattati, e qui ci sarebbe da discutere parecchio dal momento che anch’io avevo pensato di realizzare profondi reportage artistici su “250 cucine dopo che si è preparata una cena per 10 persone” o “500 water immortalati prima di tirare lo scarico” o “2000 istantanee del mio gatto nero mentre vomita palle di pelo” o ancora “Cinquanta ricerche dell’attimo in cui si stacca una foglia dal ramo” ma poi non l’ho fatto perché un’analisi socio-ambientalistica dei temi ipotizzati mi ha convinto che essi non rientravano nella congiunzione paradigmatica tra il concetto empirico di assoluto e il non-essere, con tutto ciò che questo possa voler dire, mi limiterei all’osservazione dei singoli scatti dal punto di vista tecnico, facendo tesoro delle lezioni che mi sono state fornite da un amico, valente fotografo, nel corso di lunghe conversazioni.
Le due gallerie linkate, soprattutto quella sulle camere da letto, forniscono un esempio di tutti gli errori che non si devono commettere nell’atto di scattare una fotografia. E non crederò mai che l’abbiano scattate così apposta.
Immagini sovraesposte (o sottoesposte), sfocature, micromossi, protagonisti oscurati e/o di spalle e/o centrati, regola dei terzi ignorata, teste e/o piedi e/o mani tagliate, sbilanciamenti compositivi, soggetti principali troppo lontani e/o troppo vicini alla camera e/o che non guardano in essa, sfondi da dimenticare, occhi chiusi, orizzonti inclinati, peluzzi sul sensore, volti illeggibili, bianchi sparati, bruciature da luci dirette, linee oblique e/o convergenti, espressioni da deficienti e/o pose ridicole (ma questo può far parte della ricerca artistica), c’è di tutto, ci si potrebbe realizzare un libro sul come non fare una fotografia. Foto che qualsiasi dilettante assoluto (leggi mia moglie in vacanza) sarebbe riuscito a scattare senza stare a porsi alcun problema tecnico o compositivo.
L’arcano sta nel fatto che foto come queste vengono rilanciate in tutto il mondo da agenzie di stampa compiacenti che invece di dire all’autore le tue foto fanno cagare le osannano e forniscono loro pubblicità, forse perché non hanno argomenti veramente interessanti da pubblicare.
Non mi venite a parlare di contenuto artistico, vi prego, io sono sempre quello che si schiera dalla parte dell’inserviente di Bari.
Il Lettore & il Fotografo

lunedì 3 marzo 2014

Open – La mia storia

È da quando è uscito in Italia, nel 2011, che questo libro non esce dalla classifica dei cento più venduti. Oscilla, sale, scende, poi risale, attualmente è intorno all’ottantesimo posto ma non si decide ad andarsene, e questo è un chiaro indice di un testo che vale.

Personalmente l’ho divorato, e l’ho piazzato sullo stesso piano della biografia di Steve Jobs di Walter Isaacson. Preparatevi, di questo Premio Pulitzer proprio in questi giorni sto leggendo Einstein (mi ci vorrà un po’… sono seicento pagine scritte fitte e zeppe di concetti di fisica teorica: non credo che ce la farò a finirlo per domani).


Anche se la copertina di Open – La mia storia riporta un falso plateale: non è che Andre Agassi abbia scritto la propria autobiografia, come si è portati a credere, in realtà se l’è fatta scrivere dall’altro giornalista e Premio Pulitzer J. R. Moehringer (perdonatemi, ma non sono riuscito a trovare i nomi per esteso da nessuna parte). In effetti, la mano di un professionista si sente, e dubito che Agassi avrebbe mai potuto scrivere da solo un libro così bello se, come ammette lui stesso,  la scuola e la lettura non sono mai state tra le sue priorità.
Ed è proprio la priorità riservata esclusivamente al tennis, che l’ha fatto diventare ciò che è diventato. Spinto da un padre coercitivo a dedicarsi esclusivamente a rilanciare palle al di là della rete, il bambino che era, e che odiava il tennis, è riuscito ad arrivare a essere il numero uno del ranking mondiale tra sofferenze e patimenti sia fisici che psicologici. In tutte le quasi cinquecento pagine del libro emergono proprio i sentimenti contraddittori che hanno caratterizzato la vita del tennista, insieme ad un’infinità di episodi e di aneddoti simpatici anche per chi non è interessato al gioco.
Fatto sta che Moehringer è riuscito benissimo a narrare della vita di uno che nel corso della sua esistenza non ha fatto altro che correre dietro ad una pallina cercando di colpirla con una racchetta (e possibilmente di farla arrivare sul terreno di là dalla rete e di qua dalla linea), senza renderla noiosa, e per ottenere questo scopo ha pigiato parecchio l’acceleratore sul lato umano, sui sentimenti e sui pensieri del protagonista. Quando, in un periodo infausto della sua vita, Agassi veniva battuto quasi in ogni incontro che sosteneva, mi accorgevo leggendo di provare del disappunto: mi dispiaceva per lui, speravo che il periodo negativo finisse al più presto, e ciò significa che l’autore è riuscito nell’intento di far appassionare il lettore al suo personaggio.
La mano del romanziere di professione si nota di più a tratti, quando gli accadimenti della vita di Agassi gli hanno consentito di arricchire la narrazione con episodi che si prestavano bene ad essere romanzati. Ad esempio nell’ultimo capitolo, a carriera terminata, quando Agassi e sua moglie Steffi Graf decidono di fare due scambi per divertimento in un campo pubblico di New York come due dilettanti qualsiasi, Moehringer è bravo a sottolineare invece come i due tutto siano meno che dilettanti, e tantomeno sconosciuti.
Veramente un bel libro, che si legge con interesse fino alla fine.
Probabilmente, per quanto nella classifica delle mie priorità il gioco del calcio sia ancora di gran lunga al di sotto della tecnica di piegatura degli asciugamani, se fosse scritta da un Moehringer o da un Isaacson riuscirei a leggere anche la biografia di Pelè.
Il Lettore 

sabato 1 marzo 2014

Di carne e di nulla

Oltre ad essere il rappresentante più significativo dell’ultima generazione di scrittori statunitensi, di David Foster Wallace si dice anche fosse un genio. Un genio che si è impiccato a 46 anni.

Una caratteristica intrinseca della genialità è quella di saper attingere a risorse che ai comuni esseri umani sono negate. Risorse che permettono di eccellere nel proprio campo e che permettono anche di trovare la forza di continuare a svolgere al meglio ciò che si sta portando avanti. Einstein, Leonardo, Michelangelo, Galileo sono arrivati tutti alla vecchiaia. Ma è anche possibile che la genialità di Wallace avesse raggiunto un livello talmente elevato da farlo arrendere all’evidenza, nonostante le risorse superiori, che non ci fosse più trippa per gatti.


Dopo aver sentito parlare di questo genio mi era presa la voglia di leggere qualcosa di suo. Mi sono informato un po’ in giro e ho scartato l’approccio al suo romanzo forse più famoso, Infinite Jest, spaventato dalla lunghezza a metà strada tra Il Signore degli Anelli e Alla Ricerca del Tempo Perduto (e sì che il suo editor gli ha fatto tagliare, in fase di pubblicazione, ben quattro o cinquecento pagine). Per dirla tutta mi hanno preoccupato anche parecchie recensioni che ho letto e che riportavano tutte pressappoco lo stesso commento: bellissimo! geniale! fuori dal comune! straordinario! certo, un pochino noioso… E a me questa piccola aggiunta finale, sintomo esteriore di problemi di lettura (e interpretazione critica) ben più gravi di quelli esternati poco prima, fa veramente cadere le braccia. Se ci tieni a precisare che è noioso, come fai a dire che è bellissimo?
Comunque tutto ciò ha contribuito ad incuriosirmi ancora di più. L’altro giorno in libreria ho notato questo Di carne e di nulla e mi sono detto perché no? Proviamo, vediamo come e cosa scriveva questo Wallace. In questo caso saggistica, non-fiction, pagine sparse sui più svariati argomenti.
Be’, dopo la lettura devo dire che l’aggettivo più rispondente che mi viene in mente è: sorprendente. Il libro è una raccolta di alcuni saggi, e da quelli che sono riuscito a leggere sono rimasto veramente sorpreso, sia dalla cultura oceanica dell’autore sia dalla sua capacità espositiva. Quelli che sono riuscito a leggere. Sì, perché alcuni, come The Best of the Prose Poem  sono veramente illeggibili, sia per la forma riassuntiva sia per i riferimenti (per me) arcani.
Ma altri, quelli accessibili, mostrano una scrittura moderna e veloce, un’ironia cupa, un profondo senso dell’attualità, una spietatezza e una lucidità nell’osservare il mondo attuale che dimostrano come Wallace abbia avuto una capacità critica fuori del comune, oltre ad interessi multidisciplinari estremamente variegati.
La spettacolare analisi che fa della struttura di un film in L’importanza (per così dire) seminale di Terminator 2, o lo stupefacente paragone tra l’AIDS e il drago delle favole con la bella nel castello in Di nuovo fuoco e fiamme, condito da un uso del turpiloquio azzeccato e coerente; l’analisi semantica approfondita di Notazioni su ventiquattro parole; la critica strutturale (molto migliore di quella che sto portando avanti io in queste pagine) di testi altrui in Il plenum vuoto o Borges sul lettino, rivelano un uomo che sicuramente sapeva guardare oltre il panorama sulla cui linea d’orizzonte si ferma lo sguardo della gente comune.
E’ semplicemente fantastico, in La natura del divertimento, l’approfondimento di Wallace sulla metafora con cui Dom De Lillo, in Mao II, paragona un libro in composizione da parte di uno scrittore ad un  “bimbetto mostruosamente mutilato che segue lo scrittore ovunque”. Wallace continua: “Eppure è tuo, il bambino, è te, e gli vuoi bene, lo coccoli, gli pulisci il fluido cerebrospinale dal mento pendulo con il polsino dell’unica camicia pulita che ti sia rimasta perché non fai il bucato da una cosa come tre settimane perché finalmente sembra che proprio questo personaggio finalmente vibri a un soffio dal comporsi e funzionare e sei terrorizzato all’idea di sprecare il tempo facendo qualcosa di diverso dal lavorarci su perché ti basta distogliere lo sguardo un secondo e lo perdi, condannando l’intero bambino a una mostruosità protratta.” E prosegue a parlare di questo “bambino” per altre due pagine, deviando poi sulla sua personale interpretazione del divertimento che prova uno scrittore mentre sta creando un’opera.
Tutto il libro è una raccolta di riflessioni acutamente rivelatrici e singolari (come descrivere Roger Federer, di cui Wallace da buon tennista era un fervente ammiratore, ricorrendo a Tommaso d’Aquino), riflessioni personali messe su carta, che rivelano una personalità sicuramente fuori dal comune. Talmente tanto fuori dal comune che magari si è impiccato perché non trovava un altro alla sua altezza nemmeno per poter parlare.
Non so ancora se un giorno o l’altro mi deciderò ad affrontare uno dei suoi romanzi, ma certo è che mi ha stuzzicato non poco.
Il Lettore