sabato 31 ottobre 2015

Memorie di un cuoco d’astronave

Tanto per restare in tema di razzi (Moonraker), razzetti ed astronavi, cioè in tema di fantascienza, oggi propongo a chi ancora non lo conoscesse uno dei più esilaranti romanzi di science-fiction nostrana che io abbia mai letto, un romanzo godibilissimo anche da parte di chi snobba questo genere e che non ha nulla da invidiare a quelli scritti dai più blasonati autori statunitensi.

Non per niente Massimo Mongai, con questo Memorie di un cuoco d’astronave, ha vinto il Premio Urania 1997, e il libro ha avuto tanto successo da indurlo a scriverne un seguito: Memorie di un cuoco di un bordello spaziale, e una pseudo-terza parte in cui Mongai riprende solo una parte dei concetti già esposti per poi parlare di tutt’altro: Il gioco degli immortali.
La vicenda è semplice e scritta bene, ma lasciamo parlare l’autore: “Qual'è l'importanza di Rodolfo Turturro nella storia della gastronomia ed in quella dell'umanità? È difficile dirlo, e forse la domanda è posta in modo sbagliato. Non tanto su Rodolfo Turturro occorrerebbe, forse, porsela, quanto su Rudy "Basilico" Turturro. A dire: non sul famoso gastronomo, il ricco gourmet, il politico che tanto ha fatto per il miglioramento dell'alimentazione e l'educazione al cibo di tutta l'umanità, terrestre e non terrestre; quanto sul cuoco d'astronave degli anni giovanili”.
Rodolfo Turturro è un giovane terrestre che si imbarca come aiuto-cuoco su un’Astronave Extra Sistema dal confortante nome "Muummeenuh" (nel libro, i nomi apparentemente alieni vanno letti secondo la pronuncia inglese, e facendo così si scoprono assonanze che in italiano hanno dei significati ben precisi: Muummeenuh = Mam-mi-na), e per una serie di circostanze fortuite si trova a dover assumere tutti gli oneri del primo chef. Gli riuscirà tanto bene da diventare una personalità indiscussa in campo sia gastronomico che politico, oltre ad accumulare una fortuna e ottenere altri vantaggi non indifferenti sul piano del tutto personale.
Lo chef di un ristorante famoso e internazionale si trova a dover sopportare soddisfare le convinzioni e le abitudini di una moltitudine di correnti di pensiero: cibi kasher, cibi helal, vegetariani, vegani, ciliaci eccetera eccetera, e provate a immaginarvi quando questa diversità di usi viene moltiplicata avendo a che fare con un’infinità di razze non-terrestri: Rudy Turturro si troverà a dover cucinare per etnie aliene ognuna con i propri chiodi fissi in materia di cibo, e il romanzo non è altro che il resoconto umoristico delle sue prodezze culinarie durante il viaggio che lo condurrà a visitare mondi inimmaginabili come Kumpawdaepheeawree (Cam-po-de-fiori) o a confrontarsi con i temibili Kuhnneebuhllee (Can-ni-ba-li).
Massimo Mongai tesse un romanzo veramente divertente (soprattutto per chi ama guardare Masterchef), in cui, oltre a inserire una morale politicamente corretta perché la civiltà galattica che fa da sfondo alle avventure di “Basilico” Turturro propugna princìpi libertari e antirazzisti, tolleranti e ugualitari, ogni tanto riporta una qualche ricetta eseguibile anche qui sulla Terra, magari a patto di cambiare, a nostra discrezione, gli ingredienti difficilmente reperibili come la Cannabis Sativa. Basta leggere la ricetta della “Fonduta erotico-mediterranea "à la mode de Kumpawdaepheeawree" per  sentirsi invadere la bocca dall’acquolina. Ma attenti alle quantità: “Sei porzioni di "poon-tah-raelluh", del più potente afrodisiaco mai conosciuto da cultura umana! Dico sei bombe di voglia di sesso e per di più di energia chimica concentrata!”. Un modo interessante per terminare una serata, del quale è riportata anche una variante riservata purtroppo solo a quei paesi (fortunati loro!) in cui è legale l’uso dell’hashish
Una cosa interessante è che il libro è leggibile e scaricabile gratuitamente dal sito:
perché l’autore ha ceduto i diritti all’associazione liber liber.
Approfittatene, ne vale veramente la pena!
Il Lettore 

venerdì 23 ottobre 2015

007 – Il grande slam della morte

A sessant’anni dalla prima pubblicazione mi è ricapitata sotto mano questa terza avventura di James Bond, un eroe letterario la cui gloria è tutt’altro che tramontata, visto il successo dei film che lo vedono protagonista e i tanti scrittori anche famosi che ne proseguono le avventure.
Del resto, la fama dei romanzi di Ian Fleming è decollata proprio grazie al cinema e al suo interprete più famoso, Sean Connery, e poco importa se i film si discostano anche sostanzialmente dai romanzi ai quali sono ispirati.
Ma in fondo molti libri di Fleming erano piacevoli ― Operazione Tuono, Licenza di uccidere, Goldfinger ― e pure questo Il grande slam della morte (Moonraker), che occupa un posto importante nella mia considerazione perché… ve lo dirò tra poco.




I romanzi di Ian Fleming presentavano il pregio di una prosa semplice, agile e quasi scarna, da giornalista quale Fleming era, insieme al merito di aver inventato una spia affascinante e pressoché invincibile, sempre attorniata da splendide donne e gettata a capofitto nelle avventure più improbabili, nelle quali si potevano trovare gli ingredienti che negli anni sessanta andavano per la maggiore: la guerra fredda, i neonazisti, il rischio nucleare, le prime minigonne.
Anche i razzi e la corsa allo spazio fanno la loro parte, come nel libro di oggi in cui il cattivo della situazione, Hugo Drax, minaccia di lanciare su Londra un missile con testata nucleare  se non saranno soddisfatte le sue richieste truffaldine. Naturalmente James Bond risolve la situazione in due o tre ore di lettura leggera e piacevole, ed è un buon modo di festeggiarne il sessantennale.
Ma questo romanzo mi è particolarmente caro anche perché tanti anni fa ha costituito il mio affacciarmi sul mondo del bridge. E vi spiego il perché.
Nel corso della vicenda, Bond e Drax si trovano a giocare una partita al più bel gioco di carte del mondo insieme al capo di Bond, M, e a un certo Meyer. Fleming descrive bene la situazione mostrando Bond che trucca un mazzo di carte allo scopo di infliggere una punizione a Drax dopo aver scoperto che barava utilizzando il classico trucco dello specchio. E Fleming arriva perfino a illustrare la smazzata modificata da 007 che in Nord arriva a giocare un “sette fiori” contrato e surcontrato:



Trent'anni  fa era il primo diagramma che vedevo di una smazzata di bridge, e ne rimasi stupito e affascinato. Non solo, di seguito Fleming illustra l’andamento del gioco:
E tutt'a un tratto Basildon capì. Era un evidente grande slam a favore di Bond, senza possibilità di scampo. Qualunque carta giocasse Meyer, Bond sarebbe intervenuto con un atout suo o del morto. Poi, mentre batteva gli atout, naturalmente facendo gli impasse contro Drax, avrebbe calato due quadri, facendo cadere, con gli atout del morto, l'asso e il re di Drax. Dopo cinque prese si sarebbe trovato con i restanti atout e i sei quadri vincenti. Gli assi e i re di Drax non avrebbero più avuto alcun valore. Era un vero assassinio. Basildon, quasi in trance, terminò il giro intorno al tavolo e andò a fermarsi fra M e Meyer, in modo da poter vedere in faccia sia Bond che Drax. Aveva il volto impassibile, ma le mani, infilate nelle tasche dei pantaloni perché non tradissero l'emozione, erano umide di sudore. Aspettò, con una certa trepidazione: tredici frustate, una dopo l'altra, le cui cicatrici non si sarebbero mai più rimarginate per nessun giocatore.
A distanza di tanti anni, col senno del poi, non posso far altro che ammettere che la giocata è descritta benissimo (scoprii ― sempre poi ― che è una smazzata famosa, costruita didatticamente allo scopo di ottenere il massimo risultato con il minimo della forza), ma allora grande fu il mio stupore quando, leggendo, non ci capii assolutamente niente. Slam? Atout? Morto? Impasse? Ma che roba è? Comprensione zero, nulla di nulla, buio completo. Rilessi il brano più e più volte: stesso risultato.
Urgeva una soluzione: dovevo assolutamente imparare a giocare a bridge.
Imparai, mi ci appassionai e finii con l’arrivare a giocare a livello nazionale e a ottenere pure la qualifica di Istruttore Federale.
Ma la cosa più importante era che dopo anni, rileggendo il brano, mi appariva del tutto chiaro.
Il Lettore bridgista

venerdì 16 ottobre 2015

L’assassino della porta accanto

Oggi ci occupiamo di un autrice pressoché sconosciuta, il cui romanzo mi è stato regalato da una cara amica ― che ringrazio pubblicamente ― con la richiesta: “L’ha scritto una mia amica… dimmi cosa ne pensi”.
Queste richieste, se da una parte mi gratificano perché significa che a qualcuno interessa il mio parere, dall’altra mi angosciano per diversi motivi. Primo: oddìo! Come sarà? Autrice sconosciuta = 99% di probabilità e oltre che il romanzo faccia schifo (da pregressa esperienza). Secondo: se il libro fosse una cagata, avrò il coraggio di dire alla mia amica la cruda verità? Terzo: nel caso, si offenderà? Sarà la fine ingloriosa di un’amicizia?




Sarà quel che sarà. Mi sono assunto l’obbligo di dire pane al pane e vino al vino e intendo mantenere la mia coerenza. In battaglia!
Ma fin dalle prime pagine la prosa di Manuela Dicati mi è apparsa semplice, fluida e accattivante tanto da permettermi di proseguire e ― udite! udite! ― persino arrivare in fondo al romanzo, cosa che ultimamente non era successa così spesso. Ciò potrebbe anche significare che l’autrice non l’ha scritto con lo scopo di partecipare a qualche premio letterario…
Fatto sta che il romanzo non è affatto male, anche i dialoghi sono scritti in modo credibile, si legge bene fino in fondo e non lascia delusi. Non che sia del tutto scevro da difetti dei quali parlerò tra poco, comunque, ma tutto sommato è un onesto buon lavoro, scritto bene, plausibile e che rispetta le aspettative del lettore. Scrivere un buon “giallo” non è affatto facile, perché bisogna tenere conto di una serie di veri e propri diktat codificati nel tempo come la plausibilità, l’invenzione, la coerenza, la conoscenza delle tecniche investigative e il saper mantenere viva la tensione narrativa, e molti cosiddetti “giallisti” o pubblicizzati tali (vedi il post su Alessia Gazzola) checché ne dicano le reclàme sono ben lontani dallo standard.
A Manuela Dicati invece tutto ciò è riuscito e ha confezionato un prodotto gradevole, anche se…
L’aspetto che nel romanzo mi ha dato più fastidio, senza peraltro stomacarmi al punto da sospendere la lettura, è la prolissità stucchevole della storia d’amore tra i due protagonisti, veramente mielosa oltre ogni sopportazione fino a sfociare in un tale tripudio di buoni sentimenti da costringerti a spararti subito una fiala di insulina. E nonostante questo sono riuscito a terminarlo. Del resto posso capire come questo che io considero un difetto possa essere invece gradito a un folto pubblico di lettori, lettrici, che privilegiano il lato romantico della situazione, ma mi domando come un buon editor non abbia consigliato l’autrice di tagliare almeno qualche decina di pagine.
Forse perché il lavoro editoriale non c'è stato, e questo si nota anche da altre piccole defaillances tipiche degli autori non professionisti che non sono state corrette. Del resto mi sono anche chiesto come una perfetta sconosciuta non raccomandata abbia potuto pubblicare con una casa editrice famosa, ma sarà la prima cosa che le chiederò se e quando la conoscerò di persona: come hai fatto? C’è stato un editing?
Quando scrivi un romanzo non puoi permetterti di dimenticare le cose che scrivi. Devi tenere in mente ogni particolare, per quanto minimo, dalla prima all’ultima pagina. Fosse anche il colore della camicia del coprotagonista che nomini in sesta pagina, se alla trecentesima il personaggio ancora non si è cambiato il colore della camicia deve essere lo stesso, non puoi permetterti di sostituirlo. Perché molti lettori se ne ricordano. Tu autore magari no perché hai cose più importanti a cui pensare, ma dovresti. Gli editor servono anche a questo. Purtroppo io sono uno che se la protagonista è dipinta con gli occhi verdi se lo ricorda, non possono diventare azzurri dopo qualche decina di pagine e poi tornare ancora verdi per intercessione divina come in questo caso succede a Michela. E non puoi tratteggiare l’incapacità di parlare di una persona affetta da ictus quando solo nella pagina precedente l’hai colta, entrando in una stanza, a “conversare amabilmente” con un altro visitatore. Inoltre, non so a chi sia venuta l’idea del titolo, ma perlomeno la casa editrice avrebbe dovuto sapere che esiste già almeno un altro giallo con lo stesso titolo, nonché un episodio della serie a fumetti Dylan Dog. E la scarsa cura pre-pubblicazione si riscontra anche nella presenza di diversi refusi.
Va be’, cose da poco, direte, e in effetti non sono così gravi: il romanzo si lascia leggere e non delude, solo che sarebbe bastata un po’ di cura in più per trasformarlo da “buono” in “ottimo”. Sarò anche curioso di leggere il prossimo, pensate un po’, sperando che l’autrice abbia riversato interamente in questo il suo empito sdolcinatorio…
Il Lettore 

lunedì 12 ottobre 2015

Elettra

Se volete leggerlo, lo potete trovare in omaggio come epub in vari siti di commercio elettronico. Visto che è gratis si può anche prendere, solo che…
Mi aveva consigliato di leggerlo prima degli altri il mio editor, fornendomi una decina di testi in formato elettronico, e ovviamente le ho dato ascolto e l’ho aperto subito sul telefono. Poca soddisfazione, visto che cinque minuti dopo avevo già archiviato le venti pagine di cui è costituito questo racconto sentendomi bellamente preso per il culo. Dirò di più: ero bellamente incazzato nero, perché penso che uno scrittore non debba permettersi il lusso di prendere in giro i suoi lettori.




Va be’ che è gratis, ma il brevissimo racconto di una ragazza svizzera che becca un’infatuazione per una cantante rock canadese fino a seguirla ovunque e… non vi posso dire altro, è talmente breve che se vi rivelassi qualcosa di più sapreste già il finale, ti lascia la bocca più che amara.
Il problema è che, pur essendo scritto benissimo ― la Nothomb è sempre la Nothomb ― in questo racconto il finale manca del tutto, dal momento che l’autrice tace di proposito al lettore un elemento di fondamentale importanza nella narrazione. Come un giallo senza un assassinio, o un romanzo d’amore senza un bacio. Si può dire come il plot del racconto sia proprio la mancanza di tale dato e il lettore alla fine, pur rendendosene conto, si sente profondamente insoddisfatto. Eccheccavolo.
Me ce la vedo, questa gotica scrittrice nippo-belga che pensa a questa trovata e dice tra sé: “ma sì, bella scena, li faccio soffrire…” e scrive questo interrogativo irresolubile gettando nel panico quelli come me che poi vanno a cercare le ragioni. Va be’, un altro Divertimento d’Autore, portiamo pazienza…
Ah, al mio editor ovviamente il racconto è piaciuto molto e non è per nulla d’accordo con il contenuto di questo post. Cosa volete farci, tutto normale.
Il Lettore angosciato

venerdì 9 ottobre 2015

Il Premio Nobel 2015 per la Letteratura

Lo ha ottenuto la bielorussa Svetlana Alexievich!
Viene da chiedersi: e chi cazz’è?




Mai sentita nominare. Un po’ come era successo per Alice Munro (Nobel 2013) e Patrick Modiano (Nobel 2014). Questi perfetti sconosciuti (almeno per me) che prendono il Nobel per la Letteratura mi lasciano basito.
Leggo in rete che Svetlana Alexievich è una scrittrice e giornalista che si è sempre occupata di cose allegre come la guerra in Afghanistan e il disastro di Chernobyl, e i responsabili del Nobel hanno ritenuto che fosse più meritevole di Haruki Murakami o di Philip Roth per il suo modo di “raccontare i nostri anni e far capire cosa è rimasto del comunismo dopo il crollo dell’Unione Sovietica”.
Leggo anche che secondo molti giornalisti questa assegnazione ha un significato fortemente politico, essendo la scrittrice stata perseguitata per i suoi articoli contro il regime dittatoriale di Aleksandr Lukasenko. Ma una volta per queste cose non davano il Premio Pulitzer? Capisco alle volte i premi politici, ma non ritengo che il giornalismo sia letteratura. Sarebbe come assegnare il Premio Nobel per la Chimica a Piero Angela. Va be’, il paragone non è un gran ché azzeccato, ma ci siamo capiti.
Bene, dovremo documentarci.
Ma credo già che andrà a finire come per Modiano o la Munro: i buoni propositi ci sarebbero anche, peccato che manchi una spinta forte!
Freereader

mercoledì 7 ottobre 2015

L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio

Riprendendo quanto detto nello Squizzalibro, dopo aver abbandonato molto prima della fine la lettura di ben due dei nostri stimatissimi premi letterari per sopraggiunto stomacamento dovuto ad egotistiche masturbazioni mentali (testimonianza dell’efferato solipsismo tipico dell’autore nostrano di successo ― vedi che se mi ci metto so scrivere forbito anch’io), ho sentito il bisogno di dedicarmi a una lettura che desse soddisfazione, e chi meglio di Haruki Murakami?




L’ultimo romanzo dell’autore giapponese è un libro che ha dato la stura a giudizi tra i più disparati: da chi lo considera un’inutile perdita di tempo a chi lo osanna, da chi lo ritiene una vera e propria schifezza indegna di un autore come Murakami, a quelli (e sono i più) secondo i quali è un vero e proprio capolavoro. Una dicotomia sostanziale, nella quale sembra non esistano vie di mezzo.
Be’, lasciatemelo dire, coloro che hanno affermato che è una schifezza non dico che non abbiano capito un cazzo, ma di sicuro non l’hanno letto con abbastanza attenzione, o si “aspettavano” di leggere qualcos’altro (ciò mi ricorda di aver letto tanto tempo fa un giudizio pessimo sullo splendido Un uomo di Oriana Fallaci, la redattrice del quale si lamentava del fatto che come romanzo non era un gran ché. Non aveva nemmeno capito che non era un romanzo…). Forse a completamento dei miei corsi di Scrittura Creativa dovrei organizzare dei corsi di Lettura Consapevole, sono sicuro che a molti farebbero bene.
Ora, qualsiasi romanzo può non piacerti, ci mancherebbe, ma per affermare che sia una schifezza ci vogliono delle ragioni fondate su basi concrete, e in questo caso non ci sono proprio.
C’è anche chi lo ha condannato senza sconti di pena sostenendo che Murakami si è lasciato irretire dal soldo prestandosi alla smaccata pubblicità di prodotti commerciali quali l’Ipod o le auto della Lexus che vengono nominati nel libro.
Anche ammettendo che ciò sia vero perché tutto è possibile, mi viene da pensare: chi è che oggi non usa un Ipod? Ipod è diventato sinonimo di “lettore di Mp3”, e stilisticamente è molto meglio scrivere: “si infilò le cuffie del suo Ipod…” piuttosto che “si infilò le cuffie del suo lettore di musica digitale…”, giusto? Se lo avesse scritto un autore del tutto sconosciuto, nessuno avrebbe pensato che fosse stato pagato per fare pubblicità a quel prodotto.
E per quanto riguarda la Lexus, il panegirico che ne fa Murakami, esaltando qualità e prestazioni delle loro auto, è inserito perfettamente in un dialogo tra il protagonista e un concessionario di questo brand.  Una discussione del tutto scorrevole e plausibile ― come tutti i dialoghi di Murakami ― nella quale il concessionario, nella realtà, avrebbe parlato esattamente in quel modo tipico del personaggio “concessionario di automobili”. Un venditore di Mercedes avrebbe detto le stesse cose: caratterizzazione del personaggio azzeccatissima. Murakami avrà anche preso dei soldi dalla Toyota per fare pubblicità alla Lexus? Be’, complimenti, piacerebbe anche a me riuscirci con un risultato dello stesso stile.
Ma torniamo a noi. L’ultimo romanzo di Haruki Murakami è un viaggio nell’introspezione: in una Tokio anonima e spersonalizzata, in secondo piano ma responsabile comunque della forgiatura dei personaggi che la abitano, un quasi quarantenne ripercorre gli avvenimenti di un passato nel quale ha sofferto e prova a ricostruirne le ragioni, ricercando gli amici perduti per motivi irrisolti, con lo scopo di poter meglio pianificare il suo futuro. Un romanzo imperniato sui sentimenti, scritto con un linguaggio semplice e squisitamente delicato come semplice è lo spunto di partenza dal quale si dipartono interrogativi che suscitano nel lettore uno stato di tensione continuo aumentando man mano la curiosità di veder succedere i fatti preconizzati. Leggendo Murakami ci si lascia prendere dalle sensazioni e si viene trascinati nell’ambiente che l’autore descrive con un’efficacia straordinaria, fino a lasciar immaginare tutti i particolari. Una lentezza solo apparente, condita da un uso concreto delle metafore, delle analogie e delle similitudini, e un eccellente ritmo dei dialoghi.
A me è piaciuto con tutti i dubbi che Murakami lascia irrisolti di proposito, perché se ci rifletti un po’ sopra, qualsiasi altro finale avrebbe saputo di banale e scontato. E il protagonista, dipinto come incolore,  si rivela alla fine essere il più iridato, quello in cui si possono trovare i colori più profondi e accesi. Mi è piaciuto anche l’inserimento di quel pizzico di onirico e sovrannaturale con cui Murakami ama guarnire le sue opere: durante il racconto del jazzista Midorikawa e della sua strana situazione mi è venuta in mente la famosa partita a scacchi tra Antonius Block e la Morte ne Il settimo Sigillo di Ingmar Bergman. Chissà perché, visto che le vicende sono del tutto diverse.
Per questo romanzo la traduzione dal giapponese è stata fatta da Antonietta Pastore invece che dal consueto Giorgio Amitrano. Non so il perché. E in ogni caso la Pastore ha svolto un lavoro ammirabile. Ma la cosa mi aveva incuriosito e ho cercato un po’ in rete, dove non ho trovato nulla ad eccezione di questo articolo, a firma dello stesso Amitrano, che ritengo molto interessante perché dà un’idea dei problemi che un traduttore si trova ad affrontare, soprattutto volgendo una lingua così lontana dalla nostra.
Alle prossima!
Il Lettore 

domenica 4 ottobre 2015

Lo Squizzalibro di domenica 4 ottobre 2015

Dopo tutti i premi letterari che ultimamente ho avuto la sfortuna di iniziare (e stroncare), sentivo proprio la necessità di gustarmi un libro che desse piacere leggere.
Sai quegli autori che ti prendono… che ti sprofondi in poltrona dicendo aahhh… che ti immergi in un universo parallelo dimenticandoti del presente… inconsapevole del tempo che passa… lasciandoti soddisfare dalla bravura dello scrittore… e alla fine ti risollevi del tutto gratificato? Ecco, uno di quelli.
E, guarda caso, tra i volumi in attesa di essere aperti ne avevo proprio uno che rispondeva a tutti i requisiti




1 – No, stavolta non è una biografia. È un romanzo, narrativa pura.
2 – Però ha anche qualcosa della biografia: nella trama, il protagonista getta uno sguardo sul suo passato e tira un bilancio dei suoi quasi quarant’anni di vita, andando a cercare le ragioni dei fatti che lo hanno fatto soffrire.
3 – L’autore… non ve lo dico e non ve ne rivelo nemmeno la nazionalità, sarebbe davvero troppo facile. Vi fornisco solo alcuni nebulosi indizi: non è italiano; è famosissimo; viene tradotto in circa cinquanta lingue; è stato spesso in Italia e ha scritto uno dei suoi romanzi più famosi proprio a Roma; tiene in grande considerazione la sua forma fisica; ha insegnato per parecchi anni negli Stati Uniti; è stato persino conferito della carica di Cavaliere di Spagna; è stato recensito già alcune volte su questo blog.. facile, no?
4 – Ah, al momento attuale è ancora vivo e questo è il suo ultimo romanzo, uscito in lingua originale nel 2013 e in italiano nel 2014.
5 – La traduzione in italiano di questo romanzo non è stata fatta dalla stessa persona che aveva tradotto in precedenza quasi tutte le altre opere dello stesso autore. Viene da chiedersi il perché, ma a questo non so rispondere.
Il nuovo traduttore avrà fatto un buon lavoro? Non so nemmeno questo, perché il libro devo ancora terminare di leggerlo. Ma le premesse ci sono tutte…
Che ne esca finalmente una recensione positiva?
Freereader

giovedì 1 ottobre 2015

La ferocia

Avrete sicuramente notato che è passata una settimana dall’ultimo post pubblicato. Perdonatemi, ero impegnato nella lettura del libro di cui sopra, questo La ferocia che ha vinto il Premio Strega 2015. Una lettura di quelle… ma di quelle…
Di quelle che ti mette pensiero ogni volta che lo prendi in mano, che ti fanno rimpiangere il tempo perso nella lettura (orrore!), che ti fanno dare le testate nei muri, che ti fanno cadere di nuovo nella depressione nel pensare per cosa si vincono i premi importanti oggigiorno.
Si è capito che non mi è piaciuto? A partire da quella copertina insipida e fuori tema. E naturalmente non sono neanche arrivato in fondo, ma è stata una sofferenza comunque.




È andata così: non avevo nessunissima curiosità di leggere il vincitore del Premio Strega 2015, ma due care amiche (dopo essere intervenute ad una presentazione dello stesso Autore che dicesi un simpaticone…), mi hanno detto che in fondo non era poi così male, e una di loro mi ha prestato la sua copia (autografata dall’Autore stesso medesimo!) con la seguente avvertenza: “Le prime pagine sono un po’ pesanti… ma poi migliora!”.
Alla faccia delle prime pagine! Arrivato a fatica a pagina 80 le ho scritto un messaggino esprimendo i miei dubbi e lei mi ha risposto “Lo sapevo…”, invitandomi a proseguire. L’ho fatto, tra sofferenze inaudite, noia infinita, nausee esiziali ogni volta che stavo per riprenderlo in mano e l’insopprimibile desiderio di emulare Pepe Carvahlo accendendoci il fuoco nella stufa. Dopo altre 100 pagine di repulsione ho ceduto: il miglioramento non c’era stato e mi sono sentito sufficientemente giustificato nell’abbandonarlo, considerando anche che ero appena a metà. Non avrei resistito comunque fino alla fine.
Un altro esempio di come alcuni libri vengono scritti apposta per fare in modo che vincano i premi letterari. Per carità, è un romanzo colto, ma anche troppo, scritto con una ricercatezza lessicale accurata ma non esagerata (non al livello di Scurati, per intenderci), con introspezioni psicologiche approfondite, ma anche troppo, costruzioni sintattiche elaborate e precise, ma anche troppo, e la “giusta” dose di citazioni sapienti che, a differenza di Scurati, Lagioia lascia passare quasi sottotono inserendo vaghi riferimenti (a William Blake, per esempio) senza stare a specificare più di tanto.
Lo svolgimento è però complicato dalla costruzione architettonica elaborata e arricchita con frequenti e fin troppo ellittici flashback, dalle spiegazioni logorroiche sul comportamento e sul modo di pensare dei vari personaggi in tutti gli stadi delle loro vite, e dall’inserimento ad intervalli regolari di considerazioni filosofiche su profonde verità esistenziali e/o metafore contorte che il più delle volte devi tornare indietro a rileggere per tentare di capire cosa avesse voluto dire.
Il tutto equivale a: noia, spazientimento, nausea, disinteresse; altro che piacere di lettura!
La ricerca stilistica raggiunge livelli parossistici quando cominci a leggere un brano e ti accorgi che l’autore è lì che ti sta dicendo: “Ecco, guarda, prepàrati, adesso ti faccio vedere come si scrive…” e si lancia in un esercizio di stile sopraffino, di quelli da portare ad esempio nei corsi di scrittura creativa, come riempire pagine intere di frasi brevissime staccate conferendo un ritmo da Gran Premio di Formula 1, o costruire la narrazione di un semplice fatto su più linee separate convergenti o meno alla fine.
Tanto per farvi un esempio terra terra di quest’ultimo concetto (farina del mio sacco, scritto in due minuti):
La donna prese la pistola. La rondine volava nel cielo. Dalla tasca estrasse un proiettile. Con un’improvvisa cabrata si allineò sulla traiettoria di un’ignara farfalla. Quando sarebbe stato il momento migliore? La inseguì vanificando gli scarti fino a intercettarla e la inghiottì con uno scatto repentino del capo. Ma proprio ora, perché aspettare? si disse inserendo la cartuccia nel caricatore. Lo richiuse con uno scatto secco (che potrebbe provenire sia dal tamburo della rivoltella che dal becco della rondine, NdA). Salì in auto per andare incontro al suo destino. Si diresse veloce verso i suoi piccoli che la aspettavano nel nido.
Tanto per far capire come la cosa non sia poi così difficile e sufficientemente confusa da destabilizzare qualsiasi lettore. Ma fa tanto fine! Fa tanto scrittore evoluto! Oltre alle “raccomandazioni” delle case editrici potenti, sono queste le cose che vi faranno vincere i premi letterari. Riflettete gente, riflettete.
Dovrò pensarci seriamente anch’io, prima o poi.
Il Lettore & lo Scrittore
P.S.: rileggendo la farina del mio sacco mi accorgo di come quelle poche righe siano piene di nebbiose allegorie dal profondo significato… sarò sulla buona strada?