giovedì 28 agosto 2014

Il maestro di nodi

Salve a tutti! Prima di parlare del libro di oggi porto a conoscenza dei miei affezionati lettori che il sottoscritto si prenderà una settimana di vacanza, dal momento che la cara mogliettina è riuscita a trascinarmi con l’inganno (ha prenotato senza chiedermi alcun parere preventivo…) in un’isola greca dove non so se avrò la possibilità di collegarmi.

Va be’… alle mogli si perdona tutto, no? Ne approfitterò per prendere appunti per le recensioni dei libri letti in vacanza…


Ok, per quest’altro romanzo di Massimo Carlotto, Il maestro di nodi, comincerò a parlare prima dei difetti, che non sono pochi, ma non per questo il libro è da bocciare né risulta meno interessante.
Dopo L’oscura immensità della morte ho trovato quest’altro Carlotto meno profondo, meno curato e forse un po’ più tirato via, e mostra alcune ingenuità da dilettante che avrebbero potuto essere ovviate con una buona operazione di editing.
La prima pecca è stata subito inserita nel “raccontare”, a inizio libro, le biografie del protagonista e dei suoi collaboratori. Invece di “mostrare”, Carlotto si dilunga con l’antefatto storico dell’io narrante e degli altri protagonisti, rallentando l’azione. Poteva benissimo farlo in seguito o lasciar cadere riferimenti durante un dialogo.
La descrizione dell’ambiente sado-maso nel quale è contestualizzata la vicenda (con tanto di terminologia adeguata: “master”, “slave”, ecc.) sembra presa pari pari da una documentazione svolta su un noto sito di incontri a carattere sado-masochistico (vi piacerebbe che ve ne facessi il nome, eh?), e la conclusione del libro mi sembra sia stata un po’ troppo sbrigativa e leggermente tirata per i capelli, con una plausibilità che si avvicina all’inconsistenza.
Inoltre: il difendere un certo codice d’onore malavitoso sa tanto di Educazione Siberiana (vedi);  il giustificare il ricorso alla violenza da parte dei protagonisti, ma il condannarlo quando se ne serve qualcun altro, è un po’ sopra le righe, e i consistenti riferimenti ai fatti del G8 di Genova, che forniscono una collocazione temporale alla vicenda narrata, poteva risparmiarseli: sanno tanto di “forzato”.
D’altra parte resta un romanzo che si legge di un fiato, con una trama quel tanto scabrosa da stuzzicare, personaggi interessanti e una tensione narrativa che viene subito innescata (a parte le biografie iniziali…) dal rapimento di una donna e dall’inizio delle indagini intraprese per poterla ritrovare all’interno di un ambiente particolare in cui le deviazioni sessuali sono accennate ma non discusse né tantomeno giudicate. Nell’analisi di uno dei protagonisti è riassunta tutta la morale: in campo sessuale, tra adulti consenzienti è ammessa qualsiasi pratica.
Nonostante la poca credibilità di tutta la vicenda lo stile è scorrevole e immediato, i personaggi dotati di un certo fascino e in definitiva, nonostante i difetti, è un romanzetto anche piacevole da leggere.
Ci sentiamo tra una settimana!
Il Lettore

martedì 26 agosto 2014

Galàpagos

Come pochi altri grandi scrittori Kurt Vonnegut aveva la capacità di infondere sapienza e leggerezza nei suoi libri, sotto forma di vicende narrate senza mai emettere il minimo giudizio né cadere nel pregiudizio, ma lasciando che ogni lettore traesse dai fatti raccontati le proprie conclusioni. Con una prosa semplice ma allo stesso tempo ricca di invenzioni narrative e stilistiche, questo Galàpagos si rivela farcito di spunti tragici, umoristici, sociali, sentimentali e morali. Anche se…


Kurt Vonnegut è diventato famoso in tutto il mondo per quel Mattatoio n. 5 nel quale racconta il tragico bombardamento di Dresda ad opera delle fortezze volanti alleate e, come è sua consuetudine, l’autore affronta anche in questo romanzo temi importanti quali l’antimilitarismo, l’ecologia, la condanna dell’andazzo insostenibile accelerato dall’umanità nelle ultime decine di anni, insieme alla denuncia del capitalismo scriteriato, dell’abuso di alcoolici, della distruzione delle risorse naturali e dell’egoismo individuale.
Nel libro c’è un narratore enigmatico, che fa sempre riferimento a se stesso senza mai dire chi sia (e ovviamente io non ve lo rivelerò…),  si sa solo fin dall’inizio che sta raccontando i fantasiosi fatti successi nel 1986 da un tempo lontano un milione di anni nel futuro, dal quale lascia capire che quei fatti ed altri hanno portato a catastrofi tali da far scomparire del tutto la razza umana come la intendiamo ora per essere sostituita da una popolazione le cui mutazioni genetiche hanno risolto parecchi  dei problemi che oggi affliggono noi umani, delle quali un cervello più piccolo per commettere meno stronzate è la più rilevante.
E questo misterioso io narrante si limita a raccontare una miriade di storie e situazioni a corredo del filone principale senza mai trarne una morale esplicita, come è prerogativa dei grandi scrittori, utilizzando uno stile semplice e immediato da affabulatore. Una particolarità stilistica è quella di anteporre un asterisco al nome dei personaggi che stanno per morire di lì a breve (*Pinco Pallino), come un’anticipazione: quando noti l’apparire dell’asterisco sai che entro quella giornata quel personaggio morirà, e ciò innesca la curiosità del venire a conoscenza del come.
Ma proprio perché il romanzo è condito da una valanga di personaggi per ognuno dei quali si dipana una storia a parte, infarcito di analessi e prolessi continue, di salti nel tempo, di invenzioni astruse, di riallacci ad episodi narrati decine di pagine prima, di attese lunghissime prima di venire a conoscenza del prosieguo della vicenda, ben presto si rivela una narrazione non agevole da portare avanti e non di rado ti fa spazientire per la prolissità del racconto.
Una volta terminato ho concordato con me stesso che Mattatoio n. 5 mi era piaciuto molto di più, ma ciò non toglie che anche questo romanzo sia uno di quelli che fanno pensare parecchio e una dimostrazione di come un bravo scrittore possa sbrigliare una sconfinata fantasia a beneficio di una toccante denuncia sociale.
Il Lettore

domenica 24 agosto 2014

Lo Squizzalibro di domenica 24 agosto

Penultima domenica di agosto. Anche questa estate sta per finire (estate… c’è  mai stata un’estate?) e io ancora non ho infilato il costume da bagno nemmeno una volta. Non che la cosa mi angosci. E poi tra pochi giorni dovrò andare anch’io al mare per una settimana o giù di lì e avrò l’occasione di mostrare le mie gambe magre e bianchicce. Non che la cosa mi entusiasmi.

Ma procediamo col quiz che è meglio.


1 – Il titolo da indovinare oggi appartiene a un romanzo. Il genere? Difficile da classificare…
2 – L’autore è uno dei massimi scrittori statunitensi, deceduto da pochi anni.
3 – L’autore ha raggiunto l’apice della creatività tra gli anni Sessanta e Settanta, ed è diventato famoso in tutto il mondo per un altro romanzo, nel quale racconta in maniera toccante uno degli episodi più cruenti della Seconda Guerra Mondiale.
4 – Nel libro da indovinare è stata trasfusa una dose sovrabbondante di fantasia, tanto da rendere ostica la classificazione in un genere (vedi punto 1). C’è chi lo definisce di fantascienza, chi un libro di denuncia, chi un viaggio nel surreale...
5 – La vicenda è raccontata da un non ben identificato “io narrante” situato in un remoto futuro e la cui identità emerge solo molto avanti nella narrazione, ed è ambientata in un gruppo di isole molto lontane da qualsiasi continente.
Facile, no?
Freereader

venerdì 22 agosto 2014

Amici assoluti

Grande romanzo, questo Amici assoluti di John Le Carré, uno di quei romanzi da centellinare con pazienza, senza fretta, assaporando periodo dopo periodo la prosa sopraffina senza lasciarsi prendere dall’ansia di andare avanti in fretta alla ricerca della conclusione.


E questo perché John Le Carré ha redatto un romanzo lento, di ampio respiro nel quale si devono gustare i particolari costruiti con la precisione di un orologiaio svizzero e incastonati in un quadro generale complicato ma coerente, nel quale ogni cosa si colloca nel punto esatto dove deve essere. Basti solo pensare che, prima di entrare nella vicenda principale, l’autore si dilunga in un antefatto lungo più di 250 pagine per spiegare al meglio la situazione e le idee e i percorsi seguiti dai protagonisti per arrivare dove sono arrivati e le ragioni del loro comportamento.
Il libro è il racconto dell’amicizia tra due uomini nata durante una giovinezza di attivismo politico, basata su idee e concetti condivisi, cresciuta combattendo per gli stessi ideali e consolidata nel corso di alcuni decenni passati da entrambi a destreggiarsi nel gioco dello spionaggio tanto caro a Le Carré sullo sfondo di un’Europa in trasformazione. Due uomini che si trovano entrambi a ricoprire ruoli decisivi ma opposti nella dinamica politica di interazione tra Oriente e Occidente e che riescono a barcamenarsi e a rafforzare la loro amicizia in un mondo di spie, di intrighi, doppi giochi e tripligiochisti, tradimenti e riscatti, ideali che perdono valore e nuove idee di ribellione contro sistemi coercitivi.
John Le Carré si è impegnato in una cavalcata dai primi moti di ribellione studentesca a cavallo degli anni sessanta contro la guerra in Vietnam, transitando per il clou della Guerra Fredda fino alla caduta del muro di Berlino e oltre, alle nuove riorganizzazioni geopolitiche, all’11 settembre, fino a sfociare quasi ai giorni nostri con la lotta al terrorismo, e durante tutta la cavalcata il lettore non può fare a meno di porsi di continuo la domanda: ma chi è che per davvero avrà ragione? Oppure: ma le cose saranno davvero andate così come ce le hanno dipinte? In che cosa è giusto credere?
Dal libro emerge chiara la condanna nei confronti del Grande Fratello Internazionale, del sistema capitalistico in mano alle grandi corporazioni che controllano la politica planetaria, ma vi si percepisce anche la nota pessimistica di una guerra, quella in favore della propria libertà di pensiero e di svincolo dai dettami oligarchici della globalizzazione, purtroppo persa in partenza.
Il Lettore

mercoledì 20 agosto 2014

Bocciato!

In questi ultimi giorni, complice il periodo di crisi generalizzata che ha azzerato il lavoro (ma non parliamo di politica eccetera eccetera) e l’aria vacanziera agostana, avendo un po’ più di tempo libero mi sono messo a leggere e valutare qualche elaborato di aspiranti scribacch scrittori che l’editore con cui collaboro mi ha rifilat spedito via mail.

Giusto uno da salvare, forse…


In pratica ho letto provato a leggere:
n. 3 sillogi di poesia – da vomito… questi che si svegliano la mattina convinti di essere diventati dei poeti non li sopporto proprio più. L’aver impiegato tre minuti a elaborare versi immortali come: L’esile stelo del fiore/ si oppone tenace/ alla brezza impetuosa/ e vita mi infonde – porta loro ad autoconvincersi di poter fare sfigurare Ungaretti, ma a me provoca immediati movimenti peristaltici che mi costringono a repentine fughe verso i bianchi sanitari delle mie stanze di servizio.
N. 4 romanzi pessimi – costituiti da: un romanzo di fantascienza di autore laureato alla Bocconi, dominato da un’ingenuità da asilo nido (bocconiano) e la cui plausibilità è risultata meno che probabile; una prova di scrittura d’avanguardia in cui la maggior parte dei periodi mancano del verbo; un ricordo della mamma… no, una guida turistica della città dove vive l’autore… no, scenette sue di gioventù… no, infiliamoci anche un po’ di thriller…; un romanzo il cui autore si premura di farci sapere che ha conseguito ben tre lauree superiori e svariati premi in qua e in là, e non solo alla prima riga mette la virgola tra soggetto e predicato, ma ci ordina perentoriamente di cancellare del tutto l’elaborato dai nostri supporti di memoria qualora esso non fosse di nostro gradimento (ma vai un po’ a cag passare un’oretta sui bianchi sanitari…);
N. 1 tesi di laurea – in sociologia sulle più nascoste interazioni tra Partito Democratico, Forza Italia e Lega Nord, come a dire: guardo il telegiornale tutti i giorni e prendo appunti.
N. 1 saggio religioso – di ben 60 (!) pagine nelle quali vengono descritti, sviscerati e commentati tutti i pensieri di tutte le correnti di tutte le religioni di tutto il mondo e le cui conclusioni sono riassunte in due righe: credete? non credete? fate un po’ come vi pare. Molto utile. Da notare che l’argomento non è stato mai trattato dalla casa editrice in oggetto, ma proviamoci, non si sa mai...
N. 1 puttanat raccolta di riflessioni – vedi la poesia di cui sopra, quello lo stile e quelli i contenuti, ma stavolta in prosa (si fa per dire…). Da notare che l’autore ha reputato i propri pensieri talmente tanto importanti che li ha scritti tutti in maiuscolo.
N. 1 autobiografia – in cui l’autrice, al raggiungimento dei suoi 25 anni (!), decide di tirare le somme della sua lunga permanenza su questa terra e si mette a raccontare tutti gli amori che ha avuto dai 13 in poi. Almeno ci avesse messo un po’ di erotismo… macché: un piattume… si capisce perfettamente perché tutti i suoi uomini l’hanno piantata uno dopo l’altro.
N. 1 romanzo forse buono – scritto da un professionista, questo sì: prosa leggibile, mancanza assoluta di errori, layout perfetto, presentazione e sinossi impeccabili. Un professionista si riconosce subito. Peccato che a me il romanzo non sia piaciuto e non sia riuscito nemmeno ad arrivare fino in fondo. Succede, e non starò qui a dire il perché, non mi è piaciuto e basta. Ma, come faccio sempre in questi casi, ho consigliato l’editore di leggerlo lui stesso e farsene un’opinione propria.
N. 1 fiaba – illeggibile per la sfiancante logorrèa dell’autrice evidentemente malata di bulimìa letteraria, come testimoniano anche il sito, il forum, il blog, la chat e tutti gli altri luoghi di sua creazione in cui si sfoga e che ci consiglia di visitare (me ne sono guardato bene!).
Mi fermo qui, ad essere costretti in continuazione alla bocciatura dopo un po’ viene la nausea…
Il Valutatore

lunedì 18 agosto 2014

Lezioni (semiserie) di Scrittura Creativa: Sesta Puntata


6 – L’ELLISSE (ovvero: date per scontato!)
Bene, cominciamo a trattare qualche argomento serio, partendo da una tecnica che troppo spesso viene ignorata dai principianti della scrittura che per lo più sono ansiosi di far leggere a qualche malcapitato tutto quello che passa loro per la testa.
In una narrazione, lo scrivere in modo ellittico è il dare per scontati molti fatti senza descriverli, ed è un’arma potente nelle mani di uno scrittore che sappia adoperarla.
Dico che questa tecnica è un’arma potente perché consente di far lavorare il lettore e lo costringe a doversi immaginare situazioni. Come sosteneva Joseph Conrad: “Si scrive soltanto una metà del libro, dell’altra metà si deve occupare il lettore”.  
Esempi di scrittura ellittica?
Lev Tolstoj non descrive mai la sua Anna Karenina: in tutto il romanzo si limita solamente a dire che è una bella donna.
John Le Carrè è un maestro dello scrivere ellittico: nelle sue storie il lettore entra in situazioni in cui quasi tutto dall’autore è dato per scontato. Da principio si prova un po’ di fatica a capire dove ci si sta muovendo e soprattutto dove si sta andando, ma ben presto si entra nel meccanismo e da allora diventa quasi impossibile il lasciarlo.
Isaac Asimov, nella trilogia galattica che ha scritto poco più che ventenne, sottintende addirittura un intero impero interstellare che si evolve in centinaia di anni, quasi senza descriverlo affatto, ma facendo trovare il lettore stesso al suo interno dando per scontate ambientazioni e invenzioni straordinarie, futuristici modi di fare e perfino immaginarie (ma reali nel romanzo) vicende storiche, e questi si muove comunque agevolmente tra regni e pianeti e astronavi avendo ben chiaro il disegno complessivo.
Ce ne sarebbero molti altri, ma con un po’ di narcisismo mi metto in mezzo io stesso: nel primo romanzo che ho pubblicato ho adoperato la tecnica dell’ellisse nel descrivere il momento immediatamente precedente una devastante scossa di terremoto. Ecco il brano: “Né Kappa col suo istinto lupesco, né Matilde con la sua preveggenza felina ne ebbero sentore. Tantomeno io, che me ne stavo steso sul divano letto intento a scoprire con stupore che come nuovo presidente degli Stati Uniti era stato appena nominato Jack Ryan. Dapprima cominciò con il boato…” eccetera.
Nella frase (sott)intendevo dire che nel momento di cui si sta parlando l’io narrante del romanzo era intento a leggere il romanzo Debito d’onore di Tom Clancy, al termine del quale il protagonista seriale dei romanzi dell’autore statunitense finisce dopo una serie di peripezie con l’essere nominato Presidente degli Stati Uniti d’America. Ora, chi tra i lettori del mio romanzo ha letto quel libro si sarà gustato la citazione e avrà capito cosa stava facendo il personaggio principale in quel momento; chi invece non conosce quel libro avrà forse capito lo stato d’animo del narrante da quel “con stupore”, e magari è possibile che gli sia venuto il desiderio di andare a documentarsi per capire a chi mi riferivo nominando un Jack Ryan che nella realtà non è mai figurato tra i Presidenti degli USA. E per quelli ai quali la curiosità non fosse venuta… be’, pace, mentre scrivevo mi stavo rivolgendo al mio lettore ideale (e non starò qui a specificare la differenza tra lettore ideale e lettore empirico, andate a riguardarvi Umberto Eco), o, detta in maniera diversa, a me andava di rappresentare quella situazione in quel modo.
Come ho già scritto in un post di qualche giorno fa, alcuni autori invece esagerano nel fornire indicazioni, presumendo a torto che tutti i lettori siano cretini o ignoranti. Nel post mi riferivo al brano in cui Guillaume Musso, nel suo La ragazza di carta, fa pensare al protagonista che è anche l’io narrante del libro: “Ho voglia di ascoltare Kind of Blue, il capolavoro di Miles Davis”. Questa specificazione dell’autore, così come l’affermare che quel disco è un capolavoro, anche se pura verità è uno stucchevole pleonasmo, per di più pure irreale perché nessuno, nell’atto di svolgere un’azione, rammenta a se stesso tutti i particolari di cose già acquisite.
Se mi viene voglia di ascoltare della musica, magari penso: “Quasi quasi metto su Kennedy…” e prendo il compact e lo inserisco nel lettore. Non perdo tempo a ricordare a me stesso che la composizione che intendo ascoltare non è altro che Le quattro stagioni di Antonio Vivaldi nell’interpretazione del violinista Nigel Kennedy (molto più briosa dell’altra versione che possiedo con la solista Anne Sophie Mutter, peraltro bravissima e accompagnata dalla Wiener Philarmoniker diretta da Herbert Von Karajan…)  per il semplice fatto che lo so già, non devo renderne edotto nessuno, e quindi mi limito a pensare “Quasi quasi metto su Kennedy…” e basta.
Mi sbaglio? Non vi comportate così anche voi?
Specificare in continuazione può essere deleterio.
E persistere nell’ignorare questa tecnica può condurre a conseguenze tragiche: nel valutare elaborati di dilettanti mi capita a volte di incontrare scritti il cui primo capitolo è magari interessante, con un personaggio dotato di spessore, scritto bene e che suscita un certo interesse. La maggior parte delle volte però questo primo capitolo è vanificato da un secondo capitolo nel quale l’autore racconta per filo e per segno tutta la storia del personaggio che dapprima aveva suscitato curiosità, smorzando quest’ultima e appiattendo il tutto in una noia mortale che porta irrimediabilmente alla sospensione della lettura. Non fatelo! Date per scontato, se siete riusciti a rendere interessante un protagonista, non uccidetelo subito raccontando delle poesie che scriveva da piccolo o quante volte ha divorziato o quanto sono carini i due figli o tutto quello che gli passa per la mente.
In pratica dovrete forzare voi stessi a non mettere nello scritto tutto quello che a voi passa per la testa. Segnatevelo a parte, andrà a costituire un background al quale attingere per una migliore caratterizzazione del personaggio, ma convincetevi che non tutto ciò che gli costruirete addosso sarà necessario ai fini della storia che state raccontando.
Il problema è che troppi dilettanti si innamorano troppo delle cose che vengono loro in mente e non pensano che invece una buona parte di esse potrebbe essere deleteria ai fini della narrazione.
Tagliate, gente, tagliate…

Lo Scrittore Insegnante

sabato 16 agosto 2014

Sostiene Pereira

Ho trovato molti punti di contatto tra il mio modo di pensare e la filosofia del libro di Antonio Tabucchi, non ultimo il fatto che anche a me piace molto la spremuta di limone (senza zucchero), ma anche dei concetti che non condivido: Tabucchi lascia trasparire tutto l’amore che prova per una Lisbona dipinta in modo da apparire meravigliosa, ma che io, quando l’ho visitata, ho trovato cupa e tristissima.

Forse sarà perché l’ho fatto d’inverno. 


Bellissimo romanzo, questo Sostiene Pereira, pacato, con un linguaggio semplice e lineare ma emozionante, un vero capolavoro dal tono in crescendo che porta il lettore a riflettere, soprattutto in una situazione politica come quella che stiamo vivendo. Ma non parliamo di politica, che il lettore potrebbe non gradire.
Un romanzo di tras-formazione, un protagonista che da anonimo e abitudinario, magnificamente tratteggiato da Tabucchi in modo tale da ispirare nel lettore un senso di mediocrità tale da rasentare lo squallore, è indotto dagli avvenimenti a cambiare il suo modo di comportarsi fino a sfociare in una presa di coscienza e nella ribellione che cambierà del tutto la sua vita. Un antieroe che in un impeto di riscatto finisce col diventare eroe.
Lo stile di scrittura è dominato da quell’ossessivo sintagma “sostiene Pereira”, “Pereira sostiene che…”, “Pereira sostiene di…”, “sostiene…” che assume un ruolo di tormentone ribadito in modo martellante come se il narratore esterno alla storia stesse trascrivendo la vicenda mentre ascolta lo stesso Pereira che gliela sta raccontando, e a quel sintagma il lettore si affeziona e dopo un po’ non aspetta altro che di vederlo comparire almeno una volta in ogni periodo.
Un romanzo che mi è piaciuto veramente tanto, di quelli che restano dentro e che tutti dovrebbero leggere. Mi hanno detto che anche il film che ne hanno tratto, con Marcello Mastroianni nel ruolo di Pereira, merita di essere visto. Lo farò senz’altro.
Il Lettore

giovedì 14 agosto 2014

I Confratelli

Tutto si può dire meno che John Grisham non sia un vero professionista: i suoi romanzi sono costruiti con dei meccanismi perfetti in cui ogni fatto è inserito al momento giusto, e la tensione narrativa è provocata sapientemente e condotta fino ad un climax finale che il lettore non vede l’ora di conoscere.


John Grisham è un grande autore. Ha cominciato la sua carriera lavorativa come avvocato, quindi ha tentato di buttarsi in politica ed è finito col mettersi a scrivere, ottenendo un moderato successo con il suo primo romanzo, Il momento di uccidere, e quindi la consacrazione con il suo secondo tentativo: Il socio.
Diventato famoso in tutto il mondo, alla fine degli anni novanta aveva già venduto più di 60 milioni di copie dei suoi libri, da molti dei quali sono stati anche tratti film di successo, uno fra tutti Rain Man, con Dustin Hoffman, Tom Cruise e una carinissima Valeria Golino doppiata da cani (sospetto da lei stessa) nella versione italiana .
Il punto di forza che ha fatto eleggere Grisham come il re dei gialli giudiziari è la sua conoscenza dei più nascosti risvolti legali che lui usa a piene mani per confezionare trame che spesso sono ambientate all’interno di aule di tribunale, e la sua esperienza in politica gli è sicuramente servita per costruire il succedersi di fatti di questo I Confratelli, che come la maggior parte delle sue opere è un romanzo interessante e piacevole da leggere.
In esso sono presenti i classici due filoni narrativi che si dipanano lontani l’uno dall’altro fin quasi a metà libro, dando l’impressione quasi di leggere due romanzi diversi, per poi convergere nel punto di contatto e proseguire uniti fino alla risoluzione.
Da una parte ci sono tre giudici che, invece di sedere sui loro scranni a dispensare giustizia, sono reclusi in una galera federale dove architettano un piano ricattatorio nei confronti di attempati gay che hanno tutto da perdere, dall’altra un aspirante concorrente alla poltrona più importante della Casa Bianca, tutto preso nella propria campagna elettorale appoggiata nientedimeno che dai vertici della Cia.
Dal romanzo emergono in pieno l’importanza dei soldi e della strumentalizzazione dei media nel meccanismo elettorale del Presidente degli Stati Uniti. Questo meccanismo è molto semplice: a patto di essere un candidato presentabile, chi ha più soldi vince, perché i soldi comprano la visibilità e anche la rispettabilità.
Dormite pure sonni tranquilli: questa è una cosa tipicamente americana che qui in Italia non potrà mai succedere, perché qui da noi alle più alte cariche dello stato vengono nominati direttamente personaggi mai eletti dal popolo. Ora mi sfugge come si chiama questo sistema di governo… Ma lasciamo perdere la politica, che il lettore potrebbe non gradire (come dice spesso un altro famoso blogger).
Fatto sta che tutto il romanzo si legge con la curiosità di sapere come andrà a finire, che in fondo è quello che si richiede ad un romanzo, e tutti gli ingranaggi sono incastrati fra di loro e oliati alla perfezione per far giungere il lettore fino in fondo con soddisfazione. Su Grisham si può sempre contare per passare qualche ora di lettura rilassata, tant’è vero che questo volumetto è il quattordicesimo dello stesso autore che trova posto sui miei scaffali.
Il Lettore

martedì 12 agosto 2014

La ragazza di carta

Questo di Guillaume Musso è un romanzo che può piacere solo a lettori decerebrati, di quelli che non hanno mai visto mondo in vita loro e soprattutto che non hanno mai letto un libro come si deve.

La cosa che non finirà mai di stupirmi sono i milioni di copie vendute, e ciò sta a significare che di gente dai gusti pessimi al mondo ce ne sta tanta. Dopo gli ultimi due buoni romanzi che ho letto questo è stato come il dessert rancido che rovina un buon pranzo.


Brutto, ma proprio brutto.
Ho veramente faticato a terminarlo, saltando spesso anche interi paragrafi o leggendone solo l’inizio, ma ho voluto arrivare in fondo per capire senza dubbio alcuno in quale abisso di abiezione ha voluto gettarsi l’autore.
Vogliamo parlare dello stile? Ributtante. Veramente banale, fatto di aggettivazioni non necessarie (l’imponente auto sportiva… il tavolo giavanese in tek…), di melense metafore trite e ritrite (la nostra adolescenza mi tornò in mente con la forza lacerante di un boomerang…), di continue, inutili precisazioni, come specificare che Kind of blue è un capolavoro del jazz composto da Miles Davis, alla faccia dell’ellisse. E il bello è che il protagonista lo specifica a se stesso visto che la narrazione, o perlomeno una parte di essa, è in prima persona. Come se io pensassi tra me e me: bene, in questo momento mi va proprio di sentire il fantastico Heavy Weather, il disco registrato nel 1977 dai Weather Report il cui mitico bassista Jaco Pastorius (che però di nome si chiamava John Francis Anthony) è morto in seguito all’emorragia cerebrale conseguente a un pestaggio subito fuori di un bar della Florida. A Fort Lauderdale, per la precisione. E quello che l’ha pestato si chiamava Luc Havan. Costui era il buttafuori del locale e…
E volendo potrei continuare con i perché e i percome, ma è assolutamente ridicolo: quando ascolto un album non mi metto a rammentare a me stesso questi particolari. A meno che io non sia un autore saccente che vuole soddisfare un determinato tipo di pubblico ignorante e poco pretenzioso.
E la saccenteria continua con: 1) le citazioni all’inizio di ogni capitolo che distolgono l’attenzione dalla vicenda (ma questo potrebbe anche essere un bene…); 2) le ulteriori citazioni sul leggere o sullo scrivere delle quali è infiorettato tutto il testo; 3) lo specificare la collocazione di ogni scena a scena già iniziata, utilizzando una formattazione in grassetto fuori paragrafo; 4) il far girovagare senza scopo i personaggi per tutto il mondo come a dire guarda quanti posti conosco! (salvo che poi magari per documentarsi se li è andati a cercare su google maps).
Un romanzo costituito da una banalità dietro l’altra, alternate a trovate che non stanno né in cielo né in terra e condite da episodi che vorrebbero essere strappalacrime se non fosse che si sente che sono falsi come una banconota da 12 euro (tanto per restare in tema di metafore scontate) e costruiti apposta per emozionare gli sprovveduti. Situazioni surreali, quasi fantascientifiche (della fantascienza brutta, però…) come quando nel bel mezzo di una serie di tragedie viene in mente ad un personaggio che dovrebbe cambiare la carta da parati (che tra l’altro non si usa più da decenni).
Oltretutto l’autore fa esattamente ciò che nei miei corsi sconsiglio di fare: di ogni personaggio che entra in scena ne descrive fattezze, vestiario, trascorsi biografici e pensieri, provocando unicamente una noia infinita.
Tra l’altro da qualche parte del libro ho incontrato un tipo di refuso mai visto prima: “no,n” al posto di “non”.
Basta. Resta il fatto che una puttanata del genere ha venduto milioni di copie, e questo ti fa chiedere se alla fine non abbia ragione lui a scrivere così.
Il Lettore

domenica 10 agosto 2014

Lo Squizzalibro di domenica 10 agosto

Di nuovo buona domenica a tutti! Nuova puntata del concorso domenicale che non promette ricchi premi e cotillons, ma solo gratificazione personale.


1 – Il romanzo da indovinare questa settimana è una storia d’amore e di scrittura. Ma anche di fantascienza e d’avventura. Dicono.
2 – L’autore è francese, abbastanza giovane e saccente.
3 – Il romanzo è recente e ha venduto milioni di copie in tutto il mondo.
4 – Se, una volta indovinato il titolo, andrete a leggere le critiche che sono state fatte a questo romanzo, troverete come esso sia considerato mirabolante, entusiasmante, commovente, emozionante e chi più ne ha ne metta. Per la quasi totalità dei recensori è un vero capolavoro.
5 – Nel prossimo post leggerete come io non sia per nulla d’accordo con quella quasi totalità dei recensori.
Avrò io qualcosa che non va?
Freereader

venerdì 8 agosto 2014

Inside Out – La prima autobiografia dei Pink Floyd

Come ho anticipato parlando del libro di Armando Gallo sulla storia dei Genesis, vi propongo anche la recensione della prima autobiografia dei Pink Floyd, scritta da quel Nick Mason che per quarant’anni abbiamo visto seduto dietro piatti e tamburi e ci siamo sempre chiesti come sia stato possibile che uno con un fisico come il suo sia finito a suonare la batteria invece del flauto traverso.


Ma nonostante le apparenze Nick Mason la batteria la sapeva suonare, anche se magari non a livelli eccelsi, e anche se lui stesso racconta nel libro che, dopo un tentativo disastroso di imparare a padroneggiare pianoforte e violino, la scelta di mettersi a fare il batterista è stata del tutto casuale e solo perché l’amico di famiglia e giornalista Wayne Minnow gli aveva regalato un paio di spazzole metalliche.
Il libro narra tutta la storia dei Pink Floyd vista dall’unico componente del gruppo che è rimasto fisso al suo posto per tutto l’arco di tempo quarantennale in cui hanno prodotto quella musica stupenda che ha segnato più di una generazione. Non starò qui a dire chi erano i Pink Floyd, basti ricordare che hanno venduto più di 250 milioni di dischi e che il loro The Dark Side of The Moon da solo ne ha venduti 50 milioni ed è rimasto per ben 1100 settimane nel US Top Catalog, diventando il terzo album più venduto di tutti i tempi (dopo Thriller di Michael Jackson – 115 mln – e Back in Black degli AC/DC – 52 mln).
Nella foto sotto il complesso nell’epoca d’oro: dalla vostra sinistra verso destra il bassista George Roger Waters, il nostro Nicholas Berkeley “Nick” Mason, David Jon “Dave” Gilmour alla chitarra e il compianto tastierista Richard William “Rick” Wright.


Mentre in quest’altra foto ancora più antica è raffigurata la band degli esordi, con quel Roger Keith “Syd” Barrett (il secondo da sinistra, in piedi tra Mason e Waters) che ha avuto un ruolo basilare nella costituzione del gruppo e la cui tragica vicenda è raccontata da Mason in pagine dalle quali traspare il senso di colpa provato da tutti i componenti del gruppo per averlo in pratica abbandonato al suo destino dopo che si era dimostrato del tutto inaffidabile, a causa della sua tossicodipendenza, nel portare avanti una carriera da professionista.


E come in altre parti del libro, anche in questo Mason sembra onesto nel raccontare, oltre ai momenti esaltanti, anche gli episodi più cupi e tristi della storia del gruppo, quasi confessando un mea culpa per aver gestito, lui come tutti gli altri, una situazione critica in un modo non del tutto corretto.
Mason racconta di essersi deciso a scrivere il libro dopo che per anni ha dovuto rispondere a domande del tipo da dove viene il nome Pink Floyd? oppure dov’è Syd? e sembra leggendo che dentro ci abbia messo proprio tutto fino a completare quasi 400 pagine di grande formato con una formattazione del testo a caratteri minutissimi per lasciar spazio alle centinaia di fotografie che ritraggono anche gli aspetti più nascosti della loro odissea.
Ha fatto di sicuro un buon lavoro: il libro è divertente, scritto molto bene, pieno di aneddoti curiosi e fatti particolari e condito di una buona dose di humour britannico. Mason si sarà anche fatto aiutare dall’editor Philip Dodd, del quale tesse le lodi nella pagina dedicata ai ringraziamenti, ma non si può negare che è stato bravo del suo ed è quindi capace anche di scrivere oltre che di suonare e guidare automobili da corsa (ha partecipato a 5 edizioni della 24 ore di Le Mans e ha scritto anche libri e articoli sul tema dell’automobilismo).
Una cosa curiosa: tra le persone a cui Mason indirizza i ringraziamenti ci sono anche Douglas Adams – vedi etichette a lato,  l’autore di Guida Galattica per Autostoppisti nonché amico di Dave Gilmour – e Peter Gabriel, nonché altri nomi famosi dell’universo musicale come Alan Parsons e Robbie Williams.
La foto che segue vi fa vedere invece com’è Nick Mason oggi:


Va be’, del libro ne ho parlato bene ma ora basta, altrimenti mi faccio prendere la mano,  anche perché mi stimola la musica che sto ascoltando in sottofondo: per scrivere questo post ho inserito nel lettore Atom Heart Mother… ci siamo capiti?
Ancora a proposito di volumoni presenti nella sezione musicale della mia libreria… la recensione di GENESIS revelations ve la risparmierò, giuro!
Ma forse prima o poi mi toccherà di parlare delle 850 pagine di un altro tomo fondamentale, quello con il primissimo piano di un accigliato Miles Davis in copertina: il mitico Jazz di Arrigo Polillo
Il Lettore amante della buona musica

mercoledì 6 agosto 2014

L’oscura immensità della morte

Tanto per far notare a qualcuno, lui sa chi, che se si ha pazienza si vedrà che prima o poi i consigli vengono ascoltati. E chi consiglia verrà anche ringraziato calorosamente se, come in questo caso, il consiglio è di quelli più che buoni.


Grande romanzo questo di Massimo Carlotto, un romanzo duro e crudo, con una tale dose di violenza sia fisica che psicologica che alle volte leggendo viene da rabbrividire. E l’averlo letto subito dopo la lettura di Giorgio Scerbanenco induce per forza di cose a delle riflessioni sia sulla giustizia che sul sistema carcerario ipotizzato da Cesare Beccaria.
In entrambi i romanzi si parla di giustizia, di redenzione, di espiazione delle proprie colpe e di quanto la punizione possa influire sul pentimento, e viceversa, e in entrambi i romanzi il pessimismo la fa da padrone portando a far propendere le scelte verso una improbabile giustizia personale.
Ma sorgono anche riflessioni sui rapporti umani quando questi sono intaccati dalla morte violenta, sulla capacità e sulla giustezza del perdonare, sui misteri insondabili della mente umana e sul labile confine che divide la normalità dalla pazzia. I due protagonisti sono due uomini entrambi distrutti, chi per una ragione e chi per un’altra, e quando un uomo sente che per lui più nulla ha valore le azioni che intraprende possono essere del tutto imprevedibili.
A differenza di Scerbanenco, Massimo Carlotto adopera periodi brevissimi che trasmettono immediatezza, quasi frenesia, e l’artificio di far narrare alternativamente in prima persona i due protagonisti consente al lettore di immedesimarsi quasi nei due personaggi, rimanendo talora agghiacciato sia dal loro modo di pensare che dal loro comportamento.
Un errore che Carlotto non ha commesso sarebbe potuto essere quello di indulgere nell’esagerazione e nell’autoreferenzialità, ma l’autore in questo caso è stato bravo nel mantenersi distaccato dalla narrazione che scorre con regolarità facendo appassionare il lettore alla vicenda.
Un grande noir, grazie M.!
Il Lettore

lunedì 4 agosto 2014

Traditori di tutti

Come diceva il saggio: più cose conosci, più ti accorgi di non conoscere. Nonostante le migliaia di libri letti, ogni tanto mi capita di cadere nell’angoscia quando mi accorgo della quantità incredibile di lacune di cui è costellato il mio bagaglio culturale.
Per esempio: non avevo mai, e dico mai, letto Giorgio Scerbanenco.

Imperdonabile.



E fortuna ha voluto che ho inaugurato la lettura di questo grande autore proprio con quello che è considerato il suo romanzo migliore, questo Traditori di tutti che nel 1968 è stato insignito del Grand prix de littérature policière come miglior romanzo poliziesco straniero, anche se magari, per rispettare la continuità, avrei dovuto cominciare con Venere privata,  il primo romanzo della serie con protagonista Duca Lamberti.
Fatto sta che questo Traditori di tutti si è rivelata una vera sorpresa nonostante abbia quasi cinquant’anni: un romanzo dal ritmo serrato che ti incatena alla lettura facendoti sbuffare quando magari ti telefonano nel bel mezzo di un punto cruciale, e questo ad onta di uno stile dai periodi lunghi fittamente “virgolati” così diverso dai giallisti odierni, leggi Massimo Carlotto o Carlo Lucarelli, che adoperano periodi cortissimi con frasi di poche parole. A partire dall’incipit, con un periodo di ben 25 righe senza alcun punto. Ma il ritmo è scandito da una narrazione asciutta, mirata, essenziale, con pochi abbellimenti ma ricca di quegli interventi autoriali ben messi che sottolineano uno stile indiretto libero veramente rimarchevole.
Questa serie di Giorgio Scerbanenco è ambientata in una Milano violenta nella quale dilaga la delinquenza con lo stesso ritmo con cui la città cresce, e ha come protagonista un personaggio in piena crisi dilaniato da molti dubbi su quello che sarà il proprio futuro, e proprio su questi dubbi l’autore impernia le riflessioni di Duca Lamberti. Dubbi sia esistenziali che comportamentali, influenzati non poco da considerazioni filosofiche quando il protagonista si trova a dover decidere se per se stesso possano essere validi i dettami esposti da Cesare Beccaria nel suo Dei delitti e delle pene: se siano da considerare giusti in assoluto o se dovrebbero essere mediati da visioni più reali di quale potrebbe essere la “vera” giustizia.
Per farla più comprensibile: a tutti piacerebbe farsi giustizia da soli come Tex Willer.
Scerbanenco mostra inoltre di conoscere molto bene i meccanismi psicologici umani, perlomeno di alcuni tipi di persone, e li sa usare per completare la caratterizzazione dei personaggi che escono come figure a tutto tondo impresse in modo indelebile nella mente del lettore. E la trama del romanzo è solida, ricca di aspetti secondari che però non distolgono l’attenzione dal flusso principale, e da autore già navigato Scerbanenco sa come lasciare uno dei misteri della vicenda in uno stato di insolutezza fino alle ultime pagine per poi risolverlo in modo del tutto soddisfacente per il lettore.
Gran romanzo, si è capito che mi è piaciuto?
Il Lettore

sabato 2 agosto 2014

Lezioni (semiserie) di Scrittura Creativa: Quinta Puntata


5 – LA PUNTEGGIATURA
Altra lezione su “come riuscire a far arrivare il Valutatore fino in fondo al nostro testo”.
Morale anticipata: non spargere a pioggia i punti e le virgole.
L’esatta collocazione dei segni interpuntivi, ovverossia la punteggiatura, è essenziale in qualsiasi discorso e in qualsiasi lingua. L’uso della punteggiatura viene di norma insegnato alle scuole elementari, ma da come la utilizzano molti aspiranti scrittori sembra che dei tempi in cui una maestra spiegava della differenza tra un punto e un punto interrogativo ne sia rimasta loro solamente un vaga reminiscenza. Che il mettere il segno giusto nel posto giusto sia basilare è anche intuitivo: non standoci abbastanza attenti si potrebbe incorrere in tragici equivoci:
Stavo mangiando; la zia, lei, sbraitava”.
Stavo mangiando la zia, lei sbraitava”.
Ma diamo per scontato che conosciate le regole di inserimento della punteggiatura nella grammatica italiana, anche perché in questa sede si dovrebbe supporre che esse siano un bagaglio già consolidato. In ogni caso, se avete anche un minimo dubbio su qualsiasi aspetto di questo argomento, vi consiglio di cercare una buona grammatica e ripassarvela (se inserite la parola “punteggiatura” su Google appaiono 1.150.000 risultati circa: basta scegliere). L’Accademia della Crusca, ad esempio, fornisce qui una spiegazione chiara e sintetica dei vari segni interpuntivi, e una ripassata non fa mai male.
Gli errori più comuni riguardanti la punteggiatura che trovo negli elaborati che mi sottopongono da valutare sono:
La virgola tra soggetto e predicato: atroce, non avete idea di quante persone cadano in questo sbaglio, pienamente giustificata la professoressa di lettere che affibbia un bel “due” al tema in cui compare questo errore. A riguardo ho già scritto qualcosa in questo post, concludendo che la ragione per la quale si fa questo errore è perché parlando si inserisce molto spesso una pausa tra il soggetto del discorso e l’azione: Giacomo (pausa) stava andando al bar, quando… (parlando). Gli sprovveduti pensano bene di riportare quella pausa anche nello scritto: Giacomo, stava andando al bar, quando… C’è una sola cosa da aggiungere: non fatelo. Mai.
L’abuso di punti esclamativi: esistono alcuni soggetti che ritengono che molte delle frasi che scrivono, anche le più banali, siano da considerare talmente stupefacenti da doverle sottolineare con il punto esclamativo. Nulla di più sbagliato: leggete qualcosa dei grandi scrittori e vi accorgerete che di questo segno interpuntivo ne mettono il meno possibile. Se proprio ritenete di non poterne fare a meno ponetevi un limite: un punto esclamativo almeno ogni due pagine. Ma di meno sarebbe meglio (quando necessario, ma solo se strettamente necessario, si può derogare a questa regola nei dialoghi). E mai metterne due o più insieme! Mai, dico mai, metterne più di uno!!! (oops…)
L’abuso dei puntini di sospensione: come sopra… anche in questo caso… non bisogna esagerare… nell’intenzione di fornire un tono sospensivo ad una frase… potrebbe stuccare…
La confusione tra il “punto e virgola” e i “due punti”:  seguendo il proposito di inserire una pausa più lunga di quella fornita da una virgola, ma più corta di quella rappresentata dal punto, in molti inseriscono i “due punti” dove sarebbe stato meglio mettere il “punto e virgola”; viceversa inseriscono il “punto e virgola” subito prima di una proposizione atta a chiarire la frase precedente, ottenendo così una separazione maggiore tra i concetti. Esiste un modo molto semplice per accorgersi se si è usato l’interpuntivo giusto: rileggere con attenzione e “sentire” se il discorso fila.
In misura minore mi capita di incontrare una molteplicità di altri errori: virgola tra predicato e complemento oggetto, accenti sbagliati (vedo spessissimo la parola perchè al posto di perché, e mi domando: ma dal momento che word stesso lo segnala come errore, non sorge mai il dubbio del perché il programma sottolinea quella parola in rosso?), accento confuso con apostrofo, apostrofi non necessari, uso dei segni maggiore (>) e minore (<) o delle virgolette alte (“”) per i dialoghi al posto delle virgolette basse («»).
Osservate la differenza estetica tra i due esempi che seguono:
«Sei proprio uno stupido».
<<Sei proprio uno stupido>>.
Solo una persona non abituata a leggere adopera il secondo sistema, e sapeste quante volte mi capita di incontrarlo. A quelli che a questo punto potrebbero obiettare ma sulla tastiera le virgolette basse non ci sono! suggerisco di cliccare su inserisci " simbolo " altri simboli e cercarle nei set di caratteri, dopodiché attribuire loro una combinazione di tasti di scelta rapida (a questo scopo consultare la guida in linea di word potrebbe risultare utile).
Ancora a proposito di dialoghi: per introdurre un dialogo alcune case editrici preferiscono usare il trattino lungo (– , da non confondere con il trattino corto: -):
– Sei proprio uno stupido.
E in questo caso il trattino non si ripete a conclusione del periodo, a meno che non si intenda inserire una frase esplicativa:
– Sei proprio uno stupido – esclamò Gianni, – smettila subito!
Per racchiudere i parlati io preferisco invece le virgolette basse:
«Sei proprio uno stupido».
La scelta di inserire la punteggiatura finale dentro o fuori delle virgolette:
«Sei proprio uno stupido».
«Sei proprio uno stupido.»
non è stata ancora risolta in maniera univoca, e di conseguenza potete usare il sistema che più vi aggrada, ma abbiate la coerenza di adoperare lo stesso metodo in tutto l’elaborato.
Se proprio non volete consultare una grammatica, prendete un bel libro e cercateci dentro l’esempio che vi angoscia al momento: non sapete se mettere il segno d’interpunzione prima o dopo le virgolette? Non sapete se omettere o collocare uno spazio? Non sapete se dopo un dialogo concluso con un punto interrogativo si ricomincia con la maiuscola o la minuscola? Aprite un libro, cercate una frase simile a quella che state scrivendo e prendete esempio.
Ne avrete di libri in casa, no?

Lo Scrittore Insegnante