domenica 29 ottobre 2017

Il maestro

Nello stesso giorno in cui ho finito di leggere il deludente libro di Giorgio Faletti ho iniziato (e terminato) anche questo Il maestro, opera del fratello del Carofiglio più famoso.
Che volete, ero sprofondato in una delle comode poltrone che ornano la splendida Sala dei Quattrocento del Palazzo del Popolo di Orvieto (già teatro in passato, per me, di momenti molto piacevoli), e stavo “seguendo” uno di quei congressi noiosissimi e oltretutto piuttosto inconcludenti nei quali, oltre a fornirti (poche) informazioni tecniche davvero utili, si succedono schiere di politicanti ognuno a dire quanto il mio partito è stato bravo. E guarda caso il partito è sempre lo stesso.
In queste occasioni il Kobo è superlativo. Molto ma molto meglio di un libro cartaceo. Perché essendo illuminato puoi continuare a leggere anche quando la sala si fa buia se proiettano diapositive, e non attira l’attenzione del tuo vicino di poltrona come invece farebbe un volume di carta con una copertina squillante non in tema con l’argomento del convegno. Può sempre sembrare che tu stia scorrendo un’interessantissima pubblicazione tecnica.
I congressi sono un’occasione eccezionale per incrementare il record personale del numero di romanzi letti in un anno.




Di Francesco Carofiglio avevo già letto opere scritte in collaborazione con Gianrico: La casa nel bosco (vedi qui) e Cacciatori nelle tenebre, un fumetto da lui disegnato su soggetto e sceneggiatura del fratello. Quindi questa è la prima opera che leggo il cui autore è lui da solo.
Romanzo breve il cui tema principale è la vecchiaia, Il maestro parte un po’ sottotono, ma poi migliora. Il protagonista è un vecchio attore, uno dei più celebri del ‘900, ormai ritiratosi dalle scene, che ha scelto di vivere in solitudine in una Roma in cui non si sente più a suo agio, dando libero sfogo alla sua misantropia. Il maestro per quanto può cerca di evitare i contatti con altre persone, fino a quando Alessandra, la ventenne che gli porta a domicilio i pasti preparati dal ristorante, gli chiede di aiutarla a preparare la sua tesi di laurea sul teatro concedendole una qualche chiacchierata sul tema in cui lui più di ogni altro è ferrato. L’uomo dapprima rifiuta, poi, forse sentendo approssimarsi la morte e volendo provare un riavvicinamento a un concetto di gioventù ormai perduta, acconsente e comincia a parlare con la giovane aprendo il cuore sulle sue esperienze passate.
Romanzo tristissimo, del quale ci si immagina ben presto come va a finire, ma scritto bene e piacevole da leggere anche se dai contenuti deprimenti. I due personaggi principali sono ben delineati e la narrazione acquista anche vivacità quando i due cominciano il dialogo sui temi del teatro e della recitazione. Del resto l’autore, oltre che architetto, illustratore e fumettista, ha lavorato parecchio nel mondo del teatro come attore, sceneggiatore e regista e quindi l’ambiente e la tematica li conosce bene dal di dentro.
Ho trovato nel libro due piccoli difetti che peraltro non ne inficiano il giudizio positivo. Il primo è la relativa brevità: avrebbe potuto essere sviluppato più a fondo senza perdere di efficacia; il secondo è il dialogo iniziale con la donna delle pulizie: non ce la vedo proprio una badante rumena che parla con una cadenza che assomiglia tanto al napoletano.
Ma va be’.
Una curiosità da notare: l’immagine di copertina del romanzo è stata disegnata dal mitico Lorenzo Mattotti, illustratore e fumettista di livello internazionale, che ho conosciuto personalmente in occasione di un incontro alla Biblioteca delle Nuvole e che, incidentalmente, è anche lui un appassionato di letteratura (anche a lui piace molto Haruki Murakami).
Il Lettore
Carofiglio F., Lettore

giovedì 26 ottobre 2017

Gli assalti alle panetterie

E continua l’efferato sfruttamento commerciale di nomi illustri.
Invece di promuovere personaggi nuovi e meritevoli (che non venderebbero), dopo Baldini & Castoldi stavolta è il turno di Einaudi di prendere un paio di nomi famosi, in questo caso ancora vivi, arraffare da loro quattro paginette con poco senso e pubblicarle in un volume il cui prezzo di copertina supera di molto il valore intrinseco.
Einaudi (o chi per loro) ha ripescato due vecchi racconti di Haruki Murakami, e nemmeno inediti, scritti nei primi anni ’80, li ha illustrati con qualche schizzo di Igort (al secolo Igor Tuveri — uno dei più conosciuti disegnatori nostrani — probabilmente già sotto contratto con loro) et voilà!, eccoti sfornato un volumetto di una sessantina di pagine alla modica cifra di 15 eurini.
Per due raccontini e qualche scarabocchio. Complimenti.




C’è da dire che i due racconti sono anche simpatici, anche se non eccezionali, niente di che passare alla storia, parliamoci chiaro, ma sono sempre frutto della penna di Haruki Murakami che in questo caso ha immaginato dei rapinatori che spinti dalla fame assaltano delle panetterie per estorcere non soldi ma del semplice pane per placare i crampi. Queste ultime cinque parole sono un modesto inno alle allitterazioni (e dagli…).
Niente di che. Ma scritti bene e testimoni di quel mondo immaginifico un po’ fuori dagli schemi di Murakami anche se risalgono a più di una trentina di anni fa.
Sui quattro schizzi di Igort poco da dire: sono proprio quattro di numero e a qualcuno il suo tratto potrà anche piacere, ma a me non entusiasma. Ho letto alcune sue opere a fumetti e devo dire che di certo si esprime meglio quando lavora su una trama concreta e più lunga.
Comunque, tanto per restare in casa nostra, sempre meglio di Zerocalcare.
Il Lettore 

lunedì 23 ottobre 2017

L’ultimo giorno di sole

A tre anni dalla morte ecco a voi l’ennesima, spudorata operazione commerciale per sfruttare al meglio il nome e i lasciti (?) di Giorgio Faletti.
Dico subito che l’ho letto appena uscito, a scatola chiusa come avevo fatto con Io uccido, ma stavolta con la speranza che il mio sesto senso letterario, che già mi stava tirando calci negli stinchi nel tentativo di avvertirmi della fregatura a cui stavo andando incontro, una volta tanto si sbagliasse.
Purtroppo per me, ancora una volta aveva ragione lui.




Quando ho cominciato a leggere il libro quindi non sapevo nulla a riguardo, e solo dopo averlo terminato ho scoperto che gli è stato costruito sopra anche uno spettacolo teatrale, con musica e canzoni. Tanto è vero che i brani che intervallano ogni capitolo del libro lì per lì ho pensato fossero poesie, anche se un po’ insensate e dalla metrica alquanto abborracciata, ma proseguendo mi sono convinto che in realtà, visto chi ne è l’autore (forse), avrebbero potuto essere testi di canzoni. Ci ho azzeccato, in effetti sono proprio testi di canzoni, e in questa veste perlomeno hanno molto più senso (in ogni caso poco) che se fossero state poesie.
Secondo me è andata così: tra le carte del defunto Faletti ci saranno stati quattro appunti sparsi con il canovaccio (ma che dico canovaccio, magari fosse stato un canovaccio, qualche spunto sparuto) per la trama di un lavoro in divenire. Ovviamente senza alcun tipo di sviluppo, modifica o correzione che il buon Giorgio avrebbe poi, sicuramente, effettuato quando lo avesse terminato. Ma in ogni caso erano parole scritte da uno che aveva già venduto milioni di copie, per cui andavano sfruttate in qualche modo. Con un libro che diventa subito un bestseller, oltre agli eredi ci guadagna sopra parecchia altra gente.
Per cui quegli appunti saranno finiti in mano a qualche editor professionista che gli avrà dato una strutturata, completato dove ne avrà sentito la necessità, abbellito, ornato con manciate di sentimento aggiuntivo, integrato le canzoni e via, già che ci siamo facciamoci anche un bello spettacolo teatrale!
Datemi pure del cinico, ma io la penso così. Per onestà devo ammettere che ho letto (dopo) anche qualche recensione positiva, ma anche queste… se sciorini sentimento a piene mani trovi immancabilmente qualche anima semplice che ne è entusiasta.
Per me, questo è un libro costituito solo da un’idea. Basta. Quell’idea sicuramente Giorgio Faletti, se ne avesse avuto la possibilità, l’avrebbe organizzata e ampliata, riscritta, completata, limata, riguardata e corretta, e solo allora l’avrebbe pubblicata.
Dare alle stampe una roba così, di neanche cinquanta pagine metà delle quali sono canzoni (che, parliamoci chiaro, una cosa è ascoltare una canzone, con tanto di musica e voci, tutt’altra è leggerne il testo senza musica e avulso da un contesto) e il resto capitoli sparsi di una vita in divenire, da prima della nascita a un qualsiasi punto senza un futuro (e in vendita a 13 euri, ben 9 per l’epub), a me personalmente, leggendola, ha fatto solo incazzare.
Romanzo? Spettacolo musicale?
Roba.
Non saprei in che altro modo definirla.
Il Lettore incazz inquietato (ma politicamente corretto)

venerdì 20 ottobre 2017

Il mestiere dello scrittore

E che ci vuole a scrivere un romanzo?
Tutti possono farlo: “… basta procurarsi una biro e un quaderno, scrivere delle frasi (…) e se si ha una certa capacità di inventare delle storie in qualche modo si riesce a buttar giù qualcosa, senza bisogno di allenamento professionale. Qualcosa che bene o male prenderà la forma di un romanzo. Non è necessario aver frequentato lettere all’università. Non sono richieste competenze specifiche”, dice Haruki Murakami.
Facile, no?
È in questo modo che Murakami tranquillizza tutti fin dalle prime pagine di questa sua ultima opera. Potete farlo anche voi, del resto vi hanno insegnato a scrivere alle elementari, no?
Poi però, forse perché si è accorto di essere andato un po’ oltre, ci mette qualche pezza sopra.




In questo Il mestiere dello scrittore Murakami ripercorre la sua carriera di scrittore professionista fin dagli inizi, in una sorta di autobiografia lavorativa, raccontandoci come e quando ha scritto alcuni dei suoi capolavori e le difficoltà (e le soddisfazioni) a cui è andato incontro.
Da Ascolta la canzone nel vento, passando per L’arte di correre e Norvegian Wood fino a Gli assalti alle panetterie del 2016 (che fra l’altro sarà oggetto di uno dei prossimi post, pazientate ma non aspettatevi chissà che), con il procedere del libro completa la sua dichiarazione primigenia arricchendola di “se” e di “forse”, di tenacia, di costanza, di disciplina e forma fisica e di tanto e tanto culo (sì, c’è bisogno anche di questo, e lui lo ammette tranquillamente), che gli hanno permesso di diventare ciò che è diventato, cioè una di quelle poche persone in lizza per un Nobel.
Una lucida analisi delle difficoltà dello scrivere, badando bene a sottolineare le differenze che intercorrono tra il pubblicare qualcosa una tantum e il continuare a vivere di scrittura per decine di anni facendone un mestiere vero e proprio.
Senza dimenticare ogni tanto di fare qualche riflessione profonda sull’essenza dello scrivere: “… il nutrimento necessario al romanzo – e riportarlo con le sue mani nella sfera più alta della coscienza. Poi trasformarlo in un testo che abbia una forma e un senso”. Oppure: “Più la storia è intensa, più le tenebre sotterranee si fanno dense e pesanti. Lo scrittore deve trovare in quelle tenebre ciò di cui ha bisogno”.
Ma non è che il libro sia un semplice manuale di scrittura (o per aspiranti scrittori, che non è la stessa cosa). Come ha già fatto in L’arte di correre, Murakami ci informa di quali sono stati i suoi pensieri dominanti nell’arco di 35 anni, delle motivazioni che l’hanno sostenuto e delle necessità a cui è andato incontro per poter proseguire nel suo percorso.
Il libro è molto interessante e si legge con piacere. A patto che ti piacciano i saggi. Ho trovato il tono un po’ dimesso, quasi imbarazzato, quasi volesse scusarsi in continuazione con il lettore per aver messo in piazza i propri pensieri, con i quali si prodiga in comprensioni e giustificazioni anche per coloro ai quali i suoi libri non piacciono.
Se sei abituato a correre maratone, cosa ti ci vuole per scrivere un romanzo? Solo un pochino di tempo in più di quelle tre o quattro ore, giusto qualche mesetto.
Se sei resistente del tuo, cosa vuoi che sia?
Il Lettore 

martedì 17 ottobre 2017

Origin

Dopo aver già venduto 200 milioni di copie dei suoi libri, indagando sui misteri più misteriosi dell’umanità (Leonardo da Vinci e Gesù Cristo, bombe atomiche su San Pietro, dischi volanti tra i ghiacci del polo, intelligenza artificiale e simbologia massonica) di che cosa potrebbe scrivere un bravo scrittore (e dagli con le ripetizioni!) per rinfocolare la curiosità e continuare a macinare carta in tipografia? Ma delle origini della vita, naturalmente. Tutto il resto sarebbe banale e scontato.
Da dove veniamo? Dove andiamo? Sono le domande che ci hanno sempre assillato e alle quali nessuno ha mai saputo dare una risposta.
Fortunatamente abbiamo un Dan Brown che si pone le stesse domande e trova anche le risposte. Da dove veniamo? Tranquillo, te lo dico io. Dove andiamo? Idem, per me anche il futuro non ha segreti.
E giù le rotative a sfornare copie su copie.




Copie di un libro del quale, incidentalmente, la versione cartacea costa ben 25 euro e in formato digitale te lo vendono alla pazzesca cifra di 16.
A sua difesa devo dire che perlomeno non è male: si legge bene ed è sufficientemente avvincente da non farti staccare fino a che non hai scoperto come va a finire. Anche se ben presto ti immagini chi è il misterioso protagonista “cattivo” della situazione. E il bello è che ci prendi.
Edmond Kirsch è un geniale scienziato informatico sul punto di rivelare una scoperta sensazionale che potrebbe mettere in crisi tutte le più seguite religioni del mondo. Ma viene assassinato in diretta tv proprio un attimo prima di divulgare la scoperta, e Robert Langdon (o toh, c’è anche l’esimio professore?) si prodiga in una caccia forsennata, insieme alla futura probabile regina di Spagna, per permettere al mondo di venire a conoscenza di quella scoperta.
Mi pare di averla già sentita, questa storia. Già! Ora che ci penso, è la stessa trama de Il Codice Da Vinci! Con poche variazioni. In effetti, la struttura del libro è identica a quella del romanzo più famoso di Brown, come lo stesso è il protagonista. Ci sono persone assassinate e una bella gnocca di contorno, un segreto da scoprire e rivelazioni fantasmagoriche, c’è scienza, religione, contestualizzazioni affascinanti e notizie interessanti da conoscere, cioè tutti gli ingredienti per farlo diventare un altro bestseller.
E Dan Brown è stato bravo a confezionare il pacco.
Sullo sfondo di una vicenda improntata all’azione l’autore ha insistito su quello che in fondo è un inno alla scienza, un’apologia dell’ateismo razionale contro le credenze irrazionali di tutte le religioni che si sono succedute dall’inizio dei tempi, e create per tentare di attenuare la paura congenita dell’uomo nei confronti dell’aldilà. Per provare a giustificare in qualche modo la nostra presenza su questa terra, per dare un senso a tutti noi.
Ma dal momento che siamo qui per parlare del libro non mi dilungherò su questo argomento. Tra l’altro, al momento sto leggendo in contemporanea un altro volume, non un romanzo ma un saggio, imperniato proprio sugli stessi concetti di scienza e religione, in questo caso trattati in modo serio da una delle personalità più in vista del ventesimo secolo, e quindi ritornerò a breve sulla faccenda. Abbiate pazienza.
Dicevo il libro di Brown. A me è piaciuto, sia pure con alcuni aspetti criticabili, uno dei quali è la prolissità: allo scopo di spiegare nei minimi particolari tutti i lati del confronto scienza/religione, nonché i più nascosti aspetti delle più recenti scoperte scientifiche, nonché i lati più curiosi della storia di Spagna, nonché i luoghi più affascinanti dell’arte spagnola e francese, nonché le tecniche informatiche più innovative… (tiro il fiato…), Brown la fa veramente lunga, fin quasi al punto di spazientirti, rimandando di continuo le rivelazioni a cui ti aveva preparato e che tu vorresti sapere subito. Grande professionalità, perché poi queste rivelazioni arrivano, senza lasciarti con il dubbio su nulla e chiarendo man mano tutti gli interrogativi che ti aveva suscitato in precedenza. E risolvendo il tutto con spiegazioni esaustive e plausibilissime, anche se alcune di queste sono basate su una domanda fondamentale: ci devo credere o no?, lasciando al lettore la libertà di decidere ognuno secondo le proprie convinzioni.
E alla fine, dopo aver dipinto ogni sorta di scenari pessimistici, il romanzo si chiude con una rosea ventata di ottimismo.
Ottimo, sei portato a pensare, almeno questi soldi non li ho buttati via del tutto.
Il Lettore 

venerdì 13 ottobre 2017

Gourmet

Cambiamo collana (e anche mezzo espressivo passando dal romanzo al fumetto), ma rimaniamo sempre in argomento gastronomia.
Il maestro Jiro Taniguchi, riconosciuto come uno dei grandissimi del fumetto nipponico e da poco scomparso, ha disegnato questo Gourmet su testi del saggista Masayuki Qusumi, e l’opera del 1998 è diventata ben presto un classico che ha raggiunto l’occidente nel 2003.




Goro Inogashira (quello che vedete nella copertina qui sopra), è il protagonista, un agente di commercio qualunque sulla trentina, una persona qualsiasi senza caratteristiche particolari. Molto solitario e di poche parole (tanto è vero che il titolo originario è Kodoku no GurumeIl buongustaio solitario), apprezza il mangiare bene e dal momento che è sempre in giro per lavoro si ferma a pranzare sempre in posti nuovi e per lo più sconosciuti, alla ricerca di pietanze che lo soddisfino.
Basta, come trama tutto qui. Tutto qui? Vi domanderete.  Esatto, tutto qui. Non succede nulla, non vi è una vicenda da sviluppare, ogni raccontino tratta della stessa medesima cosa: lui si ferma a pranzo da qualche parte e mangia sempre cibi nuovi, che siano a lui già conosciuti o meno. Punto. E come ha fatto ad avere successo? Vi domanderete ancora.
Perché Taniguchi era veramente un maestro, dotato di una finezza sopraffina e di una sensibilità straordinaria, con una ricercatezza dei particolari veramente fuori della norma. Il fumetto è un’apologia della pacatezza, della tranquillità, della normalità e del quieto vivere, condito dei gusti e dei sapori multiformi dei cibi giapponesi dei quali il protagonista va alla continua ricerca, preferendo i locali più semplici e a buon prezzo ma che possiedano quel quid in più che glieli faccia ricordare con piacere.
Un po’ di tempo fa mi è capitato di vedere su Rai 5, uno dei pochissimi canali che propongono un palinsesto perlomeno decente, un documentario in cui lo stesso Jiro Taniguchi ripercorreva gli stessi itinerari gastronomici del suo protagonista, cambiando solo la contestualizzazione trovandosi a Parigi invece che in Giappone. Nel documentario Taniguchi appariva tale e quale come il suo protagonista: un piccolo signore pacato e buongustaio a confronto con rinomati chef francesi che replicavano la cucina della sua terra d’origine. Allora mi è presa subito la voglia di leggere questa sua opera e la prima volta che ho incontrato il Gran Capo Ferro alla Biblioteca delle Nuvole me la sono fatta ritrovare e consegnare (solo lui è capace di miracoli come questo: gli dici un autore o un titolo e lui te lo ripesca immediatamente tra i cinquecento metri e passa di scaffalature fitte di qualsiasi tipo di albi).



Il libro è molto lento e non vi succede nulla, ma si fa apprezzare un po’ per la varietà dei cibi che sono protagonisti di ogni racconto e che ti fanno venire voglia di fare un saltino in Giappone, un po’ per i disegni in un bianco e nero arioso, dal tratto di pennino fine e ricchissimi di particolari il cui esame rallenta ancora di più la lettura, e un po’ per le atmosfere rilassanti, tranquille che riesce ad evocare.
I raccontini sono tutti dalle 2 alle 4 pagine, ogni tavola si sviluppa per lo più su quattro righe variando le dimensioni dei riquadri con zoommate singole ad inquadrare ogni piatto descritto e lo stile è molto occidentalizzato, dando la preferenza a rappresentazioni antropomorfiche dalle quali sono esclusi i tratti somatici tipicamente orientaleggianti.
Un bel volume, lento ma bello. Ora ne devo leggere un altro dello stesso autore che ho preso insieme a questo. Vi terrò informati.
Il Lettore 

martedì 10 ottobre 2017

L’estate fredda

L’estate fredda di cui narra Gianrico Carofiglio è quella del 1992, quella in cui furono assassinati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Nel libro si parla anche delle loro morti quando la notizia arriva agli inquirenti del giallo in questione, ma la vicenda del romanzo è ambientata in Puglia, non in Sicilia, all’interno di una mafia pugliese che anche se più “sgarruppata” della sua consorella isolana non per questo è meno deleteria.




Un bel romanzo, il cui pregio più rilevante è quello di aver dato vita a un protagonista, il maresciallo Pietro Fenoglio, dello stesso spessore dell’avvocato Guido Guerrieri. Un personaggio interessante, che Gianrico Carofiglio sicuramente approfondirà in divenire.
All’interno di una lotta tra bande nella criminalità pugliese accade un episodio tragico nel quale chi ne fa le spese è un bambino figlio di uno dei capi della criminalità organizzata. Del fatto viene incolpato uno dei luogotenenti del padre della vittima, che si riconverte nel ruolo del pentito collaboratore di giustizia e cerca di convincere gli inquirenti che lui non c’entra proprio nulla con la vicenda.
Come ormai di consueto nello stile di Carofiglio, la prima metà del romanzo è costituita dal resoconto di tutte le malefatte che Vito Lopez ha compiuto agli ordini di Don Grimaldi e che confessa alla polizia e al magistrato, il tutto redatto con lo stile formale tipico dell’atto giudiziario: domanda, risposta, domanda risposta. Dal momento che tutta la confessione dura parecchie pagine la cosa si fa un po’ noiosetta. Capisco come Carofiglio abbia voluto rendere anche il linguaggio tipico della magistratura (e c’è riuscito benissimo), e in fondo descrive bene molti meccanismi propri della malavita, ma avrebbe potuto impiegare un numero di pagine più congruo senza farla tanto lunga. Fortunatamente a circa metà libro l’autore cambia registro e iniziano le indagini vere e proprie per scoprire la verità sulla morte del bambino.
Il ritmo accelera e rende la lettura più piacevole: il maresciallo Fenoglio si troverà di fronte a una verità scomoda di quelle che ribadiscono come il concetto di onestà intellettuale e rettitudine abbia una gamma infinita di grigi, e dovrà decidere come comportarsi per restare tranquillo con la propria coscienza.
Come protagonista preferisco Guerrieri, ma in fondo anche questo Fenoglio non mi è sembrato male.
Il Lettore 

domenica 8 ottobre 2017

Lo Squizzalibro di domenica 8 ottobre 2017 (senza quiz)

Senza quiz perché la domandina di oggi è di una facilità irrisoria e non contempla nemmeno un libro, per cui vi fornisco subito la soluzione.
Chi si è aggiudicato quest’anno il Premio Nobel per la letteratura?



Qualche dritta:
1 – Una volta tanto è un autore conosciuto. Non come il francese Patrick Modiano o la bielorussa Svetlana Alexievich, e una volta tanto fa letteratura e non canzonette. Si vede che gli svedesi alla fine si sono sentiti in colpa e hanno deciso di tornare in carreggiata.
2 – L’autore che ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura del 2017 è di nazionalità giapponese. Ma, a differenza di quanto si sarebbe portati a dire, il suo nome non è Haruki Murakami. E a dire il vero non sapevo nemmeno che fosse nella rosa dei papabili, ma ci stà. Per dirla tutta è giapponese ma naturalizzato inglese ormai da molto tempo.
3 – E scrive altrettanto bene quanto Murakami, ma è famoso a livello planetario più che altro per il film che è stato tratto da una delle sue opere, risalente al 1989, che incidentalmente è stato uno dei primissimi romanzi che ho recensito in questo blog. Lo potete trovare qui. Il film ha vinto una caterva di premi, meritatissimi come il successo del libro.
4 – In questo blog ho recensito anche un altro dei suoi romanzi, dalla tematica veramente atroce. Come conferma a quanto scrivevo da qualche altra parte, se non ricordo male in merito a un Premio Nobel cinese, se non ammazzi qualcuno nel modo più crudele possibile puoi pure scordarti di vincere il premio. E la recensione a questo secondo romanzo potete trovarla qui.
5 – Va be’, senza farla lunga più di tanto, per quelli che in questi ultimi due giorni non hanno letto i giornali fornirò (per una volta) anche la soluzione del quiz: il vincitore del Premio Nobel per la Letteratura del 2017 è Kazuo Ishiguro.


Un nome così incontestabile ci voleva proprio, se non altro per far riacquistare credibilità alla commissione del premio dopo tutte le polemiche che si sono tirati addosso per la scelta di Bob Dylan lo scorso anno.
Immagino che ne sarà rimasto sommamente contento anche Sir Anthony Hopkins.
Freereader

venerdì 6 ottobre 2017

A Londra con mia figlia (e Harry Styles)

L’altro giorno mi ha chiamato il mio pusher musicale dicendomi, visto che il precedente mi era piaciuto molto, che se avessi voluto leggerlo aveva sottomano un altro libro di Piersandro Pallavicini.
Non mi sono lasciato sfuggire l’occasione e ho combinato un appuntamento all’impronta, nel quale, scambiandoci chiacchiere sui nostri comuni hobbies (da quelli del tutto leciti a quelli dalla vaga impronta illegale, ma qui mi fermo) mi ha consegnato questo A Londra con mia figlia (e Harry Styles) affermando che se possibile lo aveva fatto ridere ancora più di quanto era successo con l’Ottolina.
Preso il libro, ho dato prova della mia assoluta ignoranza in materia di tendenze giovanili e di “musica” attuale e me ne sono uscito con l’ingenua domanda: “Ma chi cazzo è Harry Styles?”




La casa editrice Edt ha dato vita alla collana “Allacarta” nella quale “scrittori contemporanei raccontano il mondo attraverso il cibo. Ogni viaggio una storia. Ogni storia, un piatto.” Parole loro.
Piersandro Pallavicini ha quindi raccontato di Londra e dei viaggi che ci ha fatto con sua figlia Francesca. Lui alla ricerca di vecchi vinili e di una full immersion nella capitale della musica progressive degli anni ’70, cioè la Musica con la M maiuscola; lei con l’aspirazione di riuscire a incontrare il suo inarrivabile idolo (Harry Styles, appunto); entrambi nella speranza di riscontrare un cambiamento nella deprimente cucina inglese.
Al mattino le uova e il bacon della nostra landlady grondavano di strutto, guardare nella padella dove cucinava dava la stessa vertigine che spingere lo sguardo dentro una fossa biologica” rammenta Pallavicini riferendosi alla cucina della sua padrona di casa nel suo primo viaggio in Inghilterra. E in effetti lo scrittore ha notato diversi cambiamenti rispetto alla Londra di alcuni anni fa: tra le cose più importanti sottolinea che incredibilmente ha mangiato bene, e con costernazione ha dovuto arrendersi al fatto che i polverosi negozi di dischi nei quali scovare qualche rarità sono calati di numero.
Pallavicini fa un resoconto dettagliato di tutti i ristoranti che ha frequentato nel corso di quest’ultimo viaggio a Londra, dai più economici ai più cari, dai pubs ai ristorantini greasy spoon di Soho, che noi chiameremmo bettole, dal ristorante sul roof della Tate Modern a quello situato al 31°piano dell’Aqua Shard, dove il gusto del cibo di un ristorante di lusso è condito dal panorama della Londra sotto di te, descrivendone ogni piatto e riportandone persino il costo. Il tutto è supportato dalla costante analisi del rapporto padre-figlia, dodicenne che odia i pomodori e sempre in modalità sfotti-padre, alle cui impietose considerazioni sull’anzianità di “papi” Pallavicini ribatte pungendola sul vivo: “Nelle foto di un paio di anni fa Harry Styles era cotonato come la Lady di ferro, e da quando me ne sono accorto la somiglianza tra Styles e la Thatcher è diventata un mio tormentone bonariamente sfottitorio contro il suo idolo”.
La analisi gastronomiche sono continuamente intervallate da disamine musicali di canzoni e complessi che hanno marcato la vita dell’autore, fino ad abbinare degli specifici brani ai momenti più salienti del suo viaggio. Ovviamente tutti brani degli anni ’60 e ’70, che sottolineano quasi ogni passo che Pallavicini compie in quello che era il centro nevralgico assoluto della musica che adora. Come non commuoversi, sapendo che stai transitando per gli stessi luoghi dove hanno vissuto persone che hai idolatrato? A passare sotto la casa in cui ha abitato Roger Waters mentre stava componendo The dark side of the moon?
La commozione, fino alle lacrime, che prende sostando in contemplazione davanti al garage che un tempo era il Marquee club, sullo stesso marciapiede dove sicuramente più di una volta avranno trascorso la notte chiacchierando Peter Gabriel o Peter Hammill, nonché tutti i Led Zeppelin.
Si sente, quando uno scrive delle cose che ama.
Un libretto piacevole, veloce, redatto con l’umorismo simpatico proprio dell’autore. Ottimo per chi deve visitare Londra ed è interessato ai luoghi dove poter mangiare.
Ah, poi Francesca ci sarà riuscita a incontrare il suo idolo? Harry Styles, appunto (che incidentalmente sarebbe uno, il più celebre, dei componenti degli One Direction, personalmente mai visti né sentiti, NdF)?
Questo non ve lo dico, scopritevelo da soli.
Il Lettore 

lunedì 2 ottobre 2017

La profezia del libro perduto

Porca miseria! Solo dopo averlo terminato ho scoperto che questo romanzo fa parte di una trilogia, e non ho sottomano gli altri due! Non avevo fatto minimamente caso alla parola “saga” in copertina, altrimenti è molto probabile che non l’avrei nemmeno iniziato.
E il disappunto è perché il libro mi è piaciuto, e anche se è autoconclusivo — nel senso che non lascia con interrogativi irrisolti — la vicenda di più ampio respiro si presta a molte prosecuzioni che fanno insorgere curiosità che non potrò soddisfare, perlomeno a breve.




Un buon thriller, scritto molto bene anche se Martin Rua si è lasciato un po’ prendere la mano dal sensazionalismo per poter vendere di più. A parte il fatto che ha chiamato in causa i discendenti diretti di Nostradamus — anch’essi dotati della preveggenza dell’avo —, ed è ricorso all’invenzione scontata di tre terribili assassini svedesi affetti da porfiria (per poter apparire più folli e feroci) e sotto l’influsso di droghe (in modo da essere insensibili e inarrestabili), che torturano, stuprano, mutilano, uccidono e chi più ne ha ne metta, a parte il sensazionalismo, dicevo, il romanzo si legge molto bene ed è pienamente soddisfacente.
Un misterioso scrittore pubblica, sotto lo pseudonimo di Luc Ravel, i primi due volumi di una saga che riscuote un enorme successo, ma prima che la conclusione della vicenda venga data alle stampe il suo agente letterario, l’unica persona che abbia contatti con lo scrittore, viene barbaramente ucciso. Ovviamente l’agente letterario è una bella donna e per di più ebrea, così può essere tirato in ballo anche il terrorismo internazionale a matrice araba. Si scatena così una corsa forsennata per cercare di scoprire l’identità dell’autore del libro e di rintracciare il manoscritto inedito: i “cattivi” allo scopo di distruggerlo perché potrebbe rivelare scomode verità politiche all’interno del governo francese, i “buoni” per pubblicarlo e rendere di dominio pubblico quelle verità, nonché per scoprire i responsabili dell’assassinio dell’agente letterario.
Un buon lavoro. I personaggi sono ben caratterizzati a partire dal primo responsabile delle indagini, il commissario François Ozouf, un poliziotto molto “reale” che con il proseguire del romanzo lascia il posto del protagonista ad altre figure non meno bene delineate; la risoluzione è coerente con le aspettative e la vicenda è interessante.
A parte i sensazionalismi, dicevo. Da Avignone a Parigi, da Marsiglia a Venezia, dal 1500 ai giorni nostri si sussegue un turbinìo di eventi in parte storici e in parte esoterici che tirano in ballo, oltre a Michel de Nostradamus, altre personalità leggendarie del calibro di Marsilio Ficino, per finire con lo scavare nei meandri della politica francese attuale e nelle lotte al terrorismo da parte dei servizi segreti, senza dimenticare di infilarci anche qualche storia d’amore. Un po’ di tutto, insomma, tutti gli ingredienti giusti per poter vendere.
La cosa positiva è che l’autore è riuscito a scriverlo in modo che fosse un piacere leggerlo. Speriamo bene per i seguiti (quando riuscirò a trovarli).
Il Lettore