martedì 28 giugno 2016

Nessun testimone

Da quando avevo letto questo mi era rimasta la voglia di scoprire se i precedenti romanzi di Elizabeth George fossero veramente migliori di quello che avevo recensito, come sostenevano molti dei suoi lettori più affezionati. Dal momento che quello mi era piaciuto, se per caso i suoi sostenitori avessero avuto ragione mi sarei dovuto trovare di fronte veramente dei bei romanzi. Così, appena mi è capitato questo Nessun testimone non ho avuto dubbi nel prenderlo, non sospettando neppure che da molti è considerato in assoluto il miglior romanzo della George.




In questo caso avevano ragione loro: ad onta delle quasi 700 pagine che possono sembrare veramente troppe per un thriller, il libro mi ha incatenato a sé fino a rendermi schiavo, non ha permesso che lo lasciassi mai da solo e per qualche giorno ha voluto accompagnarmi dovunque andassi e avessi cinque minuti di tempo per aprirlo e proseguire nella lettura.
Questa volta i consueti personaggi seriali della George sono chiamati a indagare su un serial killer che uccide giovani maschi adolescenti lasciandone i cadaveri sparsi per le strade di Londra. Il sovrintendente Thomas Lynley e i colleghi Barbara Havers e Winston Nkata, attorniati da decine di collaboratori a causa dell’estrema gravità dei fatti che ha sollevato un vero e proprio tumulto nell’opinione pubblica, lavorano incessantemente per cercare di scoprire l’assassino, e quando alla fine ci riescono la soluzione non sarà indolore per nessuno.
Scritto nel 2005, il romanzo si pone temporalmente a circa due terzi della saga delle avventure dei tre protagonisti principali, e alla fine si scoprirà che segna un punto fermo fondamentale nell’evoluzione delle loro storie personali. Anche per questo il romanzo è molto lungo: contestualmente alle indagini per gli omicidi la George racconta anche le vicissitudini personali dei tre che ovviamente finiscono per intersecare la vicenda principale. Ma questo allungare non diminuisce nel lettore l’interesse per la vicenda né provoca dei cali di tensione, anzi. La George ha saputo miscelare benissimo gli ingredienti, e quelle che possono dapprima sembrare digressioni superflue alla fine invece appaiono perfettamente congrue al contesto.
Certo c’è da leggere parecchio, ma lo stile della George è perfetto, piacevolissimo e mai noioso anche quando indugia nei particolari, e i fatti si svolgono in un crescendo di emozioni fino a sfociare in una serie di colpi di scena al cui confronto Jeffrey Deaver fa la figura del pellegrino (impara Jeffrey, è così che si inseriscono i colpi di scena, al momento giusto, non uno ad ogni pagina come fai tu).
Nello svolgere il giallo l’autrice ha privilegiato la descrizione dell’indagine poliziesca in tutte le sue sfaccettature, dal brancolare nel buio all’avvicinarsi piano piano alla soluzione del caso, condendola con gli inevitabili attriti personali che ci sono anche tra poliziotti e con il pressing operato dai mezzi di informazione alla ricerca continua di scoop che possano incrementare le vendite. E non ha tralasciato nemmeno di parlare di temi gravi e più o meno attuali come quello della pedofilia omosessuale, della ricerca di metodologie atte a contrastare lo sbandamento adolescenziale nelle metropoli e dell’integrazione razziale tra bianchi e neri ancora attuale al tempo d’oggi.
Dopo settecento pagine che si leggono in un lampo resta la sensazione di aver letto un gran bel romanzo. Ora il problema è: se questo come affermano è il romanzo migliore della George, varrà la pena continuare a cercarne gli altri già sapendo che forse non mi daranno la stessa soddisfazione di questo?
Il Lettore 

venerdì 24 giugno 2016

Fun & More Fun

Un graditissimo regalo che ho da poco ricevuto è questa Graphic Novel in due volumi, il primo uscito nel 2014 e la sua conclusione recentemente, nella quale Paolo Bacilieri ripercorre tutta la storia dell’invenzione del cruciverba dall’inizio del secolo scorso fino ad oggi, condendola sia di giallo che di cultura e dando un volto a personaggi che per qualsiasi amante dell’enigmistica sono diventati leggendari.




Ho conosciuto personalmente Paolo Bacilieri quando lo abbiamo chiamato a Montefalco a disegnare l’etichetta per l’annata 2003 del Sagrantino, e ricordo una bella persona esteriormente timida, leggermente spaesata dalla notorietà da poco raggiunta tra gli addetti ai lavori per le sue prime opere, nelle quali compariva quello che sarà il protagonista anche di questo Fun: Zeno Porno, un alter ego del disegnatore sia nei tratti somatici che caratteriali, un giovane e riflessivo sceneggiatore di fumetti coinvolto a fondo dalle problematiche del suo tempo.
Il filo portante di questo romanzo è costituito da Zeno che si trova a collaborare con un luminare della cultura (un professor Pippo Quester dalle fattezze che ricordano vagamente Umberto Eco) impegnato nello scrivere una storia del cruciverba, dalla sua ideazione ad opera di Arthur Wynne nella New York dei primi del ‘900 alla sua immediata diffusione in tutto il mondo come gioco piacevole e colto, passando per l’importanza assunta dall’enigmistica nel corso della seconda guerra mondiale per finire con la storia del gioco in casa nostra: l’arrivo, la diffusione delle cross words in italiano e per finire una succinta biografia del Cavaliere del Lavoro Gr. Uff. Dott. Ing. Giorgio Sisini e della sua creatura tuttora esistente e insuperata, La Settimana Enigmistica.



Della quale non si poteva fare a meno di parlare, sia per la primaria importanza che il giornale riveste in questo argomento sia perché l’idea di questa graphic novel è nata da una chiacchierata di Bacilieri con Stefano Bartezzaghi, figlio di quel Piero Bartezzaghi i cui fantastici schemi nella “Settimana” erano confidenzialmente chiamati dai loro solutori “i Bartezzaghi”.
Le vicende di Fun e More Fun si svolgono tra New York, i cui grattacieli hanno facciate fitte di finestre che ricordano le caselle di uno schema di parole crociate e dove Zeno nel corso delle sue ricerche tenta anche di risolvere i problemi di cuore, e una Milano che fa da sfondo a una sottotrama dai colori del thriller quando una giovane ragazza tenta di assassinare il professor Quester apparentemente senza alcuna ragione.
Fun è un fumetto molto colto, di una squisita complessità e che bisogna leggere con attenzione per captare le numerose citazioni che Paolo Bacilieri ha inserito a volte in maniera palese e altre più nascostamente nel gioco di incastri fra la trama e le frequenti incursioni nel vissuto personale, ricorrendo ad altri fumetti, a numerosi films, libri e perfino canzoni, e tirando in ballo personaggi famosi, da Truman Capote, ad esempio, che realizza di essere diventato famoso quando, risolvendo un cruciverba, si imbatte nel proprio nome, a un Georges Perec che era un appassionato di enigmistica ancora prima di scrivere il suo capolavoro La vita: istruzioni per l’uso, passando per molti altri più o meno famosi.



Il tratto è quello nitido e pulito, immediatamente comprensibile, che ha reso famoso Paolo Bacilieri portandolo ad essere una delle colonne portanti delle serie a fumetti Bonelli, mentre sia la sceneggiatura che la costruzione della gabbia di ogni singola pagina risultano complesse e ben studiate, compresa la tecnica tipica di Paolo di concatenare i balloon del parlato l’uno con l’altro per rimarcare la corretta successione tra di essi, come è visibile chiaramente nelle vignette soprastanti.
Un bel libro, anzi dovrei dire due bei libri il cui unico “difetto”, se così si può dire, è quello di obbligare il lettore a leggerli entrambi sia per consentirgli di arrivare ai giorni nostri con la storia delle parole crociate sia per farlo venire a conoscenza della risoluzione del lato thriller della narrazione. Se letto da solo, il primo volume lascia in sospeso troppi aspetti fondamentali per poter soddisfare il lettore, e solo al termine del secondo si troveranno le risposte agli interrogativi che sono sorti man mano.
Il Lettore Enigmista e Fumettologo

martedì 21 giugno 2016

Le tre minestre

Andrea Vitali questa volta esula dai suoi romanzi tipici scrivendo un racconto autobiografico imperniato sulle parenti che ha avuto vicine nel corso della sua giovinezza: tre zie che hanno avuto un ruolo sostanziale nel suo diventare uomo e che lui ha ribattezzato Le tre minestre, sfruttando l’assonanza di termini con il come esse venivano chiamate familiarmente: Le tre ministre.




Zia Cristina: Ministro degli Interni; coordina le faccende domestiche e la cucina;
Zia Colomba: Ministro dell’Agricoltura; conduce l’orto e il resto delle attività agricole e zoologiche;
Zia Paola: Ministro degli Esteri; preposta al mantenimento dei rapporti con parentela e vicinato.
L’assonanza con la minestra deriva dal fatto che questo piatto, nelle sue infinite accezioni,  era tenuto in grande considerazione per la crescita fisica e mentale di un adolescente e veniva propinato al piccolo Andrea in qualsiasi occasione.
E tanto per restare in tema di minestra, ho trovato questo racconto insipido, sciapito, come un brodetto di insulse verdure riuscito male, senza aglio o peperoncino e senza soffritto. E pure ristretto, tanto che per dare una certa corposità al volume hanno dovuto allungarlo con una serie di ricette tipiche dei luoghi natii dell’autore.
Nel ripercorrere (utilizzando diverse scorciatoie) le strade che lo hanno portato fino alla laurea in medicina, l’autore pone queste tre zie nel ruolo di protagoniste, descrivendone di ognuna le abitudini e le particolarità in una serie di raccontini imperniati principalmente sullo svolgimento del proprio ministero. Senza mai però approfondire più di tanto e tralasciando del tutto gli altri eventuali parenti a partire dai genitori che sembra non siano mai esistiti.
E i raccontini stessi sono veramente sciapi, quando non addirittura caotici e inconcludenti come ad esempio quello sul panino bianco, dapprima osannato come una rara panacea e poi lasciato morire immeritatamente in maniera insulsa. Risolverà anche un problema alle galline di zia Colomba, ma il suo destino sarebbe dovuto essere un altro.
Scritto con uno stile alquanto diverso dal solito di Vitali, questo libretto non mi è proprio piaciuto per l’intero suo noioso svolgimento e ha finito con il deludermi del tutto col finale, nel quale le zie se ne vanno al creatore in poche righe consentendo allo scrittore di laurearsi in una disciplina che all’inizio non lo attirava affatto, ma lasciandolo soprattutto libero finalmente di abbandonare le minestre per dedicarsi a piatti decisamente più soddisfacenti.
Come diceva Mafalda: “Minestra? Pfui!”.
Il Lettore 

domenica 19 giugno 2016

Lo Squizzalibro di domenica 19 giugno 2016

Psss… Ehi! Sveglia…
Cosa? Come?
È domenica… Allora! Forza!
Ma chi è?
Dai che sono le seipuntozerozero…
Ma lasciami stare…
E no, è domenica, devi pubblicare lo Squizzalibro!
Non ne ho voglia, ieri sera ho mangiato troppo. Lo farò più tardi.
No dai, sono curioso di vedere cosa ti inventerai da farci indovinare oggi, tira giù quel culo dal letto!
Ma mi lasci in pace?
Devi anche aggiornare la citazione settimanale!
Vattene, è anche brutto tempo…
E mica devi uscire! Dai, che sono curioso.
Tanto non lo indovini.
Lo dici tu! Finora ne ho beccati la maggior parte!
Sì, ci credo… il martedì son buoni tutti…
Miscredente! Dammi questi indizi che ti faccio vedere!
Uffa… ma promettimi che poi sparisci.
Giuro che dopo non ti disturbo più.  E non ti scordare di cambiare la citazione!
Ma chi me lo fa fare…



1 – Dunque… il libro da indovinare oggi non è un romanzo, ma ha un qualcosa della narrativa; non è un saggio, ma esamina alcuni aspetti di politica spicciola; non è una biografia, ma l’autore vi racconta di se stesso; non è un libro di cucina, ma vi si parla anche del cibo. Ma che minchia sarebbe, allora? Un preservativo?

2 – Non essere scurrile, per favore. Si potrebbe forse inserire nella categoria dei “divertimenti d’autore”, ma anche in quella degli ordini impartiti dall’editore agli scrittori che ha sotto contratto: “scrivimi quattro paginette per tirare su un po’ di quattrini”. Ahhh, capisco… della serie chi ci rimette siamo sempre noi lettori.
3 – Come al solito… L’autore è famosissimo e italianissimo, ma non è Camilleri. Un altro scrittore da milioni di copie vendute e dalla fecondità difficilmente contenibile, tanto che a volte esagera: anche nell’ultima recensione a un suo libro che ho fatto qualche mese fa non l’ho trattato del tutto bene, mentre invece in passato ne avevo parlato in maniera positiva. Non posso dire di più altrimenti indovinereste subito. E mica posso esaminare tutti gli scrittori italiani in ordine alfabetico!
4 – Diciamo solo che i protagonisti di questo libro sono tre, oltre all’autore stesso che non fa nulla e sta solamente a guardare e a subire ciò che i tre “politici” gli impongono di fare. Berlusconi e le sue amanti? Renzi e le banche?
5 – Niente di tutto ciò. Come leggerete dopodomani, a me questo libro non è piaciuto per niente, e da questo è nata una lite furibonda con il mio editor che mi ha consigliato di leggerlo. Lei invece lo aveva apprezzato, e non l’aveva trovato noioso come invece è parso a me. De gustibus… Questo ha dato la stura a sottili disquisizioni letterarie casareccie fatte di lanci di piatti e mattarellate volanti. Esagerato… per un libro!
Perché no? C’è chi litiga per 22 decerebrati che corrono dietro a un pallone…
Freereader

giovedì 16 giugno 2016

La regola dell’equilibrio

Cosa fanno diecimila avvocati in fondo al mare? Un buon inizio.
Lo so, è vecchia, ma è sempre la prima cosa che mi viene in mente quando sento parlare di avvocati. Oltre a spiegare uno dei perché dell’affermazione precedente, anche quest’altra è carina:
Oggi me ne hanno detta una buona sugli avvocati. Ti piacerà. Dunque, un avvocato e un ingegnere sono alle Maldive, in spiaggia, che sorseggiano un cocktail. L’avvocato dice: «Io sono qui perché la mia casa è bruciata e con lei tutto ciò che possedevo. La mia assicurazione ha pagato e ho cambiato vita». L’ingegnere risponde: «Ma guarda la coincidenza. Io sono qui perché la mia casa e tutti i miei beni sono stati distrutti da un’inondazione. La mia assicurazione ha pagato e ho cambiato vita anch’io». L’avvocato assume un’aria perplessa. «C’è una cosa che non capisco». «Cosa?» gli chiede l’ingegnere. «Come diavolo hai fatto a provocare l’inondazione?»



Il brano è tratto dalla quinta avventura di Guido Guerrieri, l’avvocato boxeur frutto della penna del magistrato Gianrico Carofiglio, uscita nel 2014 col titolo La regola dell’equilibrio. A testimoniare che l’autore possiede una buona dose di autoironia che permette al romanzo di essere anche simpatico e divertente.

Con questo libro ho bissato la quantità di tempo sottratta al sonno a causa dell’ultimo Montalbano. Letto in due sere tirando tardi entrambe le volte senza crollare con la faccia sulle pagine, ad onta dei sia pur lunghi brani in cui Carofiglio sfoggia il suo background professionale approfondendo non poco i tecnicismi giuridici e gli iter procedurali.
Al di là di questo, e considerando poi che anche queste prolisse digressioni sono interessanti e godibilissime, il romanzo si legge veramente bene grazie anche al raccontare in prima persona di Guerrieri, che esce spesso dal seminato con escursioni nel quotidiano e nelle proprie riflessioni di quarantott’enne parzialmente deluso dalla vita con esperienze alle spalle che lo permeano di un’amarezza di fondo solo parzialmente occultata dall’arguzia che lascia fuoriuscire all’esterno. In altre precedenti avventure di Guerrieri avevo trovato che molte di queste digressioni apparivano leggermente forzate, quasi fossero servite solo ad allungare il numero di pagine del libro, mentre stavolta non ho avuto la stessa impressione e il tutto mi è parso coerente, se non sempre con la trama del libro quanto con la psicologia del personaggio e i suoi dubbi.
Sì, perché il romanzo tratta essenzialmente di dubbi: su di sé, sulla vita in genere, sui trascorsi di ognuno, di scelte su cosa sia giusto o non giusto fare, e di quanto queste scelte ti costringano sempre a camminare in equilibrio sulla lama di rasoio della vita.
Guido Guerrieri è chiamato a dover difendere un amico, un giudice importante accusato di corruzione, e si accinge al compito con la consueta serietà che lo ha sempre contraddistinto. Ma il caso lo porterà a riflettere, rendendone partecipe il lettore, sui temi generali dell’etica, della deontologia professionale e di quanto quest’ultima possa essere interpretata in modo elastico fino ad entrare in conflitto con le proprie radicate convinzioni.
Fanno di contorno al caso un gruppo di personaggi che Carofiglio sa rendere interessanti: la bella investigatrice Annapaola che di notte gira con una mazza da baseball nella sacca, e il suo gatto Gatto, che come gatto (perdonate la ridondanza) assomiglia più a una lince che a un maine coon; l’amico poliziotto Carmelo, il libraio/barista Ottavio; le anziane letterate piacevoli incontri di una sera.
E resta simpatico pure Sacco, l’inanimato assorbitore di cazzotti appeso al centro della sala con il quale Guerrieri intrattiene piacevoli conversazioni fatte di sventole e riflessioni, alle quali l’attrezzo sembra partecipare con cognizione di causa, come un amico compreso del proprio ruolo.
Il Lettore 

martedì 14 giugno 2016

L’altro capo del filo

Della serie “una botta al cerchio e una alla botte”, dopo averne parlato male con Donne, a distanza di pochi giorni raddoppio la recensione di Andrea Camilleri con questo L’altro capo del filo, stavolta parlandone tutto sommato bene. Eccheccavolo. Mica posso sempre sparare a zero…
La fascetta che avvolge la copertina informa il lettore che questo è il centesimo libro di Camilleri. Cento libri pubblicati è un traguardo veramente importante, anche se non tutti sono stati meritevoli, ma non dovrebbe spingere a comprarlo a scatola chiusa come invece gli editori sperano che succeda. Io l’ho acquistato solo quando ho letto nella bandella di copertina che il protagonista è Salvo Montalbano: se il commissario non ci fosse stato lo avrei lasciato sullo scaffale della libreria. Ma poi lo avrebbe preso il mio editor.



E nonostante la presenza di un personaggio che mi è simpatico il romanzo ha cominciato immediatamente a farmi girare non poco i cabasisi perché mi è sembrato che Camilleri abbia voluto cavalcare l’onda della retorica più smaccata, mettendo in campo fin da subito la tragedia delle migrazioni e dei continui sbarchi di profughi sulle coste siciliane, parlandone a fondo, facendo interagire i personaggi con i migranti e con il mondo dell’Islam in generale, con toni platealmente buonisti e comprensivi facendo leva sui drammi personali e sulla pietà umana.
Calcando un po’ troppo la mano, secondo me. Il mio innato cinismo ne è rimasto tanticchia infastidito.
Ma sicuramente molte anime più sensibili di me rimarranno colpite dai brani di Camilleri e perfino sconvolte, perché la cosa che devo ammettere è che nonostante la retorica l’ha fatto con uno stile perfetto e con la bravura che gli ha permesso di raccontare una vicenda non consentendo mai alla tensione narrativa di calare. Considerate che ho comprato il libro, dopo una cena parecchio pesante sono andato a letto alle dieci, ho cominciato a leggere e ho smesso solo dopo mezzanotte e mezza e più di duecento pagine. Sì, lo so, una velocità di lettura sotto la mia solita media, dovuta al siciliano strettissimo nel quale il libro è scritto, che se anche lo leggo bene mi rallenta un pochino. Quello che volevo dire è che un romanzo meno interessante lo avrei lasciato molto prima abbandonandomi a Morfeo.
Solo dopo parecchie pagine e aver sviscerato la faccenda migrazioni, inizia la vicenda gialla vera e propria con annessa ammazzatina, che poi prosegue per conto proprio fino a giungere alla risoluzione dovuta ovviamente alla perspicacia del commissario.
In tutta sincerità di buchi nella struttura del romanzo ne ho trovati diversi, a partire da personaggi, umani e animali, di punto in bianco abbandonati a loro stessi mentre in una economia del romanzo ben fatta la loro presenza avrebbe dovuto continuare fino alla fine; il ricorso a tecniche di indagine non propriamente ortodosse; la rivelazione stessa dell’assassino, alla quale non posso nemmeno accennare per non rovinarvi il gusto della scoperta (ma che non lascia del tutto soddisfatti: vedi il punto 10 delle “Venti regole  per scrivere romanzi polizieschi” del giallista S.S. Van Dyne, regola in questo caso completamente infranta ― se ancora non sapete chi è l’assassino aspettate ad andare a guardare di cosa si tratta…); e altre cosettine qua e là che ad uno che ci fa caso come me fanno diminuire il valore della valutazione, non ultimo l’annientamento forzato del grande amore che stava sbocciando tra Catarella e Rinaldo.
Ma d’altra parte il romanzo si legge benissimo e con curiosità fino in fondo, vi si ritrovano tutti i personaggi seriali con la loro solita e confortante caratterizzazione che ha contribuito a farli amare dal lettore (e anche Livia sembra essere meno rompiballe del solito), vi si ritrovano l’amore per il cibo, le sciarratine con Pasquano eccetera, e se devo essere sincero, nonostante gli aspetti negativi di cui ho trattato, devo ammettere che nel complesso  l’ho trovato più soddisfacente degli altri ultimi episodi con protagonista Montalbano.
Camilleri aggiunge in postfazione che il romanzo non è tutta farina del proprio sacco, perché la sua assistente Valentina Alferj è intervenuta nella stesura sia in fase creativa che pratica in seguito alla sopraggiunta cecità dello scrittore siciliano. Me ne dispiace, ovviamente non per la presenza di lei quanto per la grave malattia di lui, ma sono convinto che questo non gli impedirà del tutto di continuare a scrivere seppur aiutato da altri.
Il Lettore 

sabato 11 giugno 2016

Donne

Se lo avessi scritto io, un resoconto delle Donne dalle quali sono rimasto colpito nel corso della mia esistenza, siano esse in carne e ossa, o letterarie, o storiche o solamente immaginate, sono sicuro che il risultato non sarebbe stato inferiore a questo ennesimo libro di Andrea Camilleri, e qualche racconto sarebbe stato anche più interessante.
Solo che il libro avrebbe venduto al massimo un centinaio di copie, a patto di aver trovato un editore che lo avesse fatto uscire. Ma fosse stata viva Elvira Sellerio, probabilmente non sarebbe stato pubblicato nemmeno questo.




Perché anche se la casa editrice non è la stessa sono certo che la Sellerio, nonostante sia la protagonista di uno dei capitoli e vista l’amicizia che li legava, avrebbe preso Camilleri sotto braccio e gli avrebbe sussurrato: “Andrea, caro amico del cuore, i soldi ormai non ti mancano più, sei proprio sicuro di volerlo pubblicare?
Perché in fondo questa è una raccolta di raccontini che non serve a nulla perché dopo averla letta non ne resta nulla, utile solo all’autore per ricordarsi, quando sarà vecchio (!), delle donne che lo hanno colpito in un qualche punto della sua vita.
Per carità, per leggere si legge, e a tratti vi si trova anche un buon Camilleri, ma solo a tratti molto diluiti. Insieme a Nefertiti, Desdemona, Giovanna d’Arco o Ilaria del Carretto, solo per nominarne alcune delle più note, Camilleri parla anche di donne conosciute per una sera e mai più riviste, o di infatuazioni giovanili e incontri più o meno piccanti in varie parti del globo, ma i resoconti lasciano il tempo che trovano né complessivamente forniscono l’idea che l’Andrea nazionale abbia voluto dipingere una figura di donna “secondo lui”, perché nel complesso non ne nasce proprio una figura di donna quanto una serie di particolari staccati che non si riesce a ricondurre a una qualsiasi tipologia. Manca del tutto un filo logico. Il professionismo nella scrittura si sente e si apprezza anche, ma più si va avanti e più ci si domanda che cosa Camilleri avesse voluto intendere mettendo insieme questa raccolta. Un semplice gioco sull’onda dei ricordi? Uno sfogo di logorrea scritturale?
Un semplice “obbedisco” alla richiesta di fare un po’ di cassetta?
Della serie “non c’è mai fine al peggio” poi (come quando sei in una situazione di merda, non hai lavoro, non hai soldi, i tuoi ideali sono andati in fumo, la moglie ti ha lasciato e i figli ti disconoscono, ed è proprio allora che si mette a piovere), sono anche riusciti a confezionargli una copertina francamente obbrobriosa.
Il Lettore 

mercoledì 8 giugno 2016

Il mondo non mi deve nulla

Della serie piccolo è bello un altro romanzetto/racconto-lungo di un centinaio di pagine minuscole con scrittura molto spaziata, perché se si fossero stampate pagine normali poi sarebbe stato brutto vendere un libro con una trentina scarsa di fogli.
Perlomeno gli americani quando scrivono opere di questa lunghezza poi le pubblicano a triplette, almeno giustificano i prezzi di copertina. Qui in Italia invece sappiamo fare della spudoratezza una virtù.




Al di là del dato di fatto, perlomeno il libretto è piacevole, si legge bene e per forza di cose in un lampo. Anche se a me non ha lasciato del tutto soddisfatto, e tra poco ve ne dirò il perché
La trama (ovviamente senza il finale): uno scalzacani di ladruncolo spiantato e grezzotto entra in un appartamento per ripulirlo e vi trova la proprietaria, una bella e raffinata sessantenne che, disillusa e stanca della vita, cerca di convincerlo a farsi uccidere da lui permettendo che si prenda tutti i propri averi come ricompensa. Da qui lo scontro fra due personalità del tutto diverse come anime, come vite vissute, come convinzioni e modi di fare e di pensare, che si muovono anche su differenti piani esistenziali.
Il racconto è scritto con il consueto stile veloce e pragmatico di Massimo Carlotto, che ti fa entrare subito nel pieno della vicenda e te ne fa visualizzare immediatamente i protagonisti con sobrie e incisive descrizioni. E il plot è intrigante: riuscirà la bella rapinata a farsi ammazzare dal rapinatore? Riuscirà quest’ultimo a superare le remore in nome dell’avidità? La conclusione del racconto ovviamente non soddisferà tutti, e il lettore solo in parte. Perlomeno me.
Al di là del dinamismo dello stile di Carlotto che consente una lettura piacevole e veloce, non mi sono piaciuti due aspetti della narrazione che giudico non da poco. Il primo è la presenza di capitoletti nei quali sono chiariti i pensieri dei protagonisti: secondo me non ce n’era alcun bisogno e l’autore sarebbe riuscito lo stesso nel proprio intento continuando a far trasparire le intenzioni attraverso le azioni, per cui mi hanno dato l’impressione di essere stati scritti con il solo scopo di allungare un qualcosa ancora troppo corto per poter essere pubblicato senza arrossire di vergogna.
Il secondo aspetto inverosimile è quello della moglie del ladro che gli telefona in continuazione mentre lui sta “lavorando” in casa d’altri. Ma quando mai! Nemmeno il più dilettante dei scassinatori, ancorché succube della consorte, permetterebbe che questa gli telefoni durante una scorreria, né peraltro terrebbe il cellulare acceso.
Altri aspetti del romanzetto sono interessanti, a partire dal legame psicologico contrastato che si crea tra i due protagonisti, ma certo è che Carlotto ci aveva abituato a romanzi dotati di una ben diversa corposità, e benché si legga bene questo ti lascia con un po’ di rimpianto per le cose migliori.
Il Lettore 

domenica 5 giugno 2016

Il bar delle grandi speranze

Finalmente ecco il Pulitzer che avevo cominciato diverso tempo fa e che per sopraggiunte nuove letture non riuscivo a terminare. È il primo romanzo di J.R. Moehringer, dopo aver letto il quale André Agassi ha chiesto all’autore: la tua autobiografia mi è proprio piaciuta, non è che scriveresti anche la mia?
Detto fatto. È così che è nato Open, una “autobiografia su commissione” che si trova ancora adesso nelle classifiche dei libri più venduti. Se ne volete sapere qualcosa di più lo trovate qui.




Leggendo Il bar delle grandi speranze mi si è chiarito anche un mistero che non riuscivo a risolvere: a suo tempo avevo cercato in rete quale fosse il nome per esteso di J.R. Moehringer, non riuscendo a trovare a quali nomi di battesimo corrispondessero le iniziali J.R.
È spiegato nel romanzo: quelle iniziali non significano proprio nulla, da un iniziale John Joseph l’autore stesso ha deciso di farsi chiamare da un certo punto della propria vita in poi proprio J.R., o JR senza punti, con queste sole iniziali, un po’ come il J.R. Ewing di Dallas. La faccenda è anche più complicata, ma il tutto lo spiega bene J.R. nel libro insieme alla presenza o all’assenza dei punti, e sarebbe troppo lungo farne un riassunto qui.
Dal momento che questo libro è stato scritto da Moehringer che non aveva ancora trent’anni e rivisto più volte in seguito, definirlo un’autobiografia, anche se lo è, risulta un po’ azzardato vista la brevità dell’esistenza vissuta fino a quel punto, ma in effetti è stato scritto anche con il piglio del romanzo, perciò mi sembra più giusto definirlo un romanzo di formazione in cui l’autore parla di se stesso.
Moehringer racconta di sé dall’età di circa dieci anni: il piccolo J.R. cresce con la madre e la stramba famiglia di lei dopo essere stato abbandonato dal padre a pochi mesi di vita, e nonostante abiti con una numerosa folla di nonni, zii e cugini, sente che la figura paterna gli manca proprio tanto e comincia ad andarne alla ricerca. Oltre al padre, man mano incontra una serie di uomini che per diverse ragioni gli faranno da mentori nel suo cammino verso l’età adulta, dai divertimenti adolescenziali ai lavori saltuari, dagli studi al college all’inizio di una carriera giornalistica rivolta verso il desiderio di fare dello scrivere lo scopo della propria vita.
E lo zoccolo duro del gruppo di questi uomini lo troverà all’interno di un bar della sua cittadina natale, alle porte di New York, un bar che per l’autore costituirà una vera e propria tana in cui acquattarsi nei momenti di crisi, e saranno parecchi, un rifugio sicuro nel quale di volta in volta trovare, oltre all’alcool, anche un buon consiglio o un’opportuna strapazzata, o una spalla su cui piangere.
Un gruppo di uomini dai quali trarrà anche l’insegnamento, oltre a quelli di vita e di come ci si  ubriaca, sul come si deve scrivere, e passerà da un proprio stile complicato ricco di paroloni inseriti ad effetto a uno stile semplice, sobrio e nello stesso tempo evoluto, quello stile che in breve tempo gli farà vincere il Premio Pulitzer a trentasei anni per un suo reportage su un’isolata comunità fluviale in Alabama.
Il bar delle grandi speranze è un bel libro, con una bella storia di crescita, denso di sentimenti e di passaggi toccanti soprattutto verso la fine quando l’autore tira le fila della propria esistenza. Mi è piaciuto, e dopo diverse decine di pagine in cui ha stentato a decollare nel mio interesse, verso la metà mi ha preso e l’ho terminato in un battibaleno. Mi è piaciuto, ripeto, ma non mi ha entusiasmato come è successo a moltissimi lettori compresa colei che me lo ha prestato, e che ringrazio calorosamente.
La ragione è semplice: pur essendo un ottimo libro che rasenta il capolavoro, sia per i fatti e le storie narrate che per lo stile col quale è condotto, ritengo sia troppo denso di cultura americana per poter soddisfare pienamente una persona che non è cresciuta negli Stati Uniti. Un po’ quello che sostenevo per il libro di David Sedaris che ho recensito qui. Per uno che non è cresciuto ad hamburger e baseball (se c’è uno sport che mi annoia più del calcio, se mai fosse possibile, è questo), che non ha frequentato colleges, corse di cavalli o le vie di Manhattan, e per il quale le ubriacature giornaliere non costituiscono la norma, il sentir parlare in continuazione di tutti i minimi particolari di questi temi non ha contribuito a far lievitare l’interesse per le vicissitudini del protagonista.
Pagine e pagine sulle tecniche di quel tal giocatore, sul perché un cocktail è più adatto di un altro in una certa situazione o sul perché i Mets perdono in continuazione mi fanno lo stesso effetto di una disquisizione su Totti: interesse zero, curiosità men che meno. Problema mio.
Ma del resto, se questo è il modo di vivere del ceto medio maschile americano, perennemente ubriaco, allora Moehringer non ha fatto altro che descrivere una situazione comune, per loro, e l’ha fatto davvero bene. Riconosco comunque che per una qualsiasi altra persona ciò potrebbe non essere un difetto, e in altre pagine l’autore si rifà alla grande soddisfacendo anche chi americano non è. In ogni modo sono arrivato in fondo al libro con piacere per il modo di raccontare semplice e preciso, che ti fa incuriosire meramente per le altre storie e per le avventure tragicomiche di questo J.R. Moehringer che vuole diventare uno scrittore.
E il bello è che alla fine ci riesce.
Il Lettore
Lettore, Moehringer

giovedì 2 giugno 2016

Il delitto del conte Neville

A concludere la serie di regalini giunti da Torino è l’ultimo romanzo ― romanzo… un po’ azzardato definirlo romanzo, caso mai racconto lungo, o short novel, o fate un po’ voi ma non avevo voglia di scrivere più di tanto, ma quel poco l’ho fatto bene ― di Amélie Nothomb, la scrittrice belga una cui apparizione fornisce un’impressione situata a metà strada tra un’atmosfera gotica e Alice nel paese delle meraviglie (vedi la foto in copertina).




Pubblicato nel 2015, Il delitto del conte Neville ricalca l’andazzo al quale la Nothomb ha abituato i suoi lettori: romanzi brevi adatti ai formati tascabili, di poche decine di pagine ognuno (questo ne conta 93), dotati però di una realizzazione impeccabile in ogni loro aspetto, a partire dalla trama, proseguendo con lo stile per finire con un salto nella metaletteratura.
Il conte Henri Neville è un nobile belga finanziariamente decaduto e da generazioni sull’orlo del lastrico, e arrivato al limite della sopravvivenza si trova costretto a vendere la sua stupenda, seppur in rovina, tenuta di campagna con annesso castello, e per salutare per sempre la propria casa con lo squisito stile che lo ha da sempre contraddistinto decide di organizzare una festa sontuosa alla quale sarà invitato il gotha della nobiltà della nazione.
Il problema è che una misteriosa cartomante, pochi giorni prima della festa, gli predirà che nel corso del ricevimento lui stesso ucciderà uno degli invitati.
Gli ingredienti per suscitare curiosità nel lettore ci sono tutti, e la Nothomb è brava a giostrarli manovrando i suoi burattini fino a indagare le singole psicologie all’interno della famiglia del conte e andando a scomodare persino Oscar Wilde nel gioco delle citazioni, per non parlare della quintessenza della tragedia greca. Accadrà davvero che l’integerrimo conte ammazzerà un proprio invitato? Sarà davvero costretto a traslocare in uno squallido condominio abbandonando il suo castello?
Lo stile della Nothomb è perfetto fino alla risoluzione della vicenda, sempre mostrando e non dicendo e lasciando che il lettore si trovi avviluppato dai fatti che si susseguono restando sempre invogliato dal vederne la risoluzione. I personaggi importanti del romanzo sono ritratti con acume e delicatezza e la ricostruzione psicologica, sia pure permeata di un certo surrealismo, è piacevole da seguire fino al colpo di scena finale che anche se non originalissimo in ogni caso soddisfa le aspettative del lettore.
Quando il mio editor mi ha chiesto se il regalino mi fosse piaciuto, alla mia risposta positiva mi è parsa sollevata (questo perché il romanzo ha soddisfatto anche lei) quasi non credesse alle proprie orecchie. Lì per lì le avrei voluto far notare che stiamo parlando, per quanto strana, di una scrittrice belga, e non di una proveniente dall’America latina.
Ma l’esperienza insegna, e sono rimasto in silenzio.
Il Lettore