Oggi recensiamo un Grande della letteratura italiana, uno
degli scrittori più famosi degli ultimi decenni.
In casa di Alberto Pincherle Moravia la
letteratura e la voglia di scrivere non sono mai mancate, dalla sua adolescenza
fino alle unioni con scrittrici del calibro di Elsa Morante, Dacia Maraini
e Carmen Llera, e il risultato si
vede sotto forma di più di trenta romanzi e innumerevoli articoli, racconti,
saggi e inchieste. Per essere sincero, le opere di Moravia che avevo letto
parecchi anni fa ― La noia, Gli indifferenti, Io e lui ― al tempo non mi avevano entusiasmato, poi l’altro giorno
mi è capitata sotto mano questa raccolta…
Se nel 1952 il film Umberto D., di Vittorio De
Sica, segna la fine del neorealismo,
dovrà passare un intero millenovecentocinquantatre prima che Pane, amore e fantasia, di Luigi Comencini, dia l’avvio alla
successiva corrente artistica, quella commedia
all’italiana che, degradata e corrotta, ci sorbiamo ancora oggi in
occasione del Natale. Ma a cavallo tra i due film, all’inizio del 1954, viene pubblicato questo libro di Alberto Moravia, questi Racconti romani che finiranno col
rappresentare sia lo scisma che il trait
d’union letterario nel succedersi delle due correnti.
I Racconti romani sono costituiti da qualche decina di novelle tutte
narrate in prima persona da personaggi di volta in volta diversi, sono
ambientate tutte a Roma o nelle
immediate adiacenze, i protagonisti principali sono tutti romani e la lunghezza
di ognuna è sempre compresa tra le quattro e le sette cartelle. Alberto Moravia ha pescato i suoi
narratori da un popolo appartenente ai ceti più svariati con una preferenza per
le condizioni medio basse della scala sociale: dai modesti impiegatucci,
operai, artigiani, tassisti, giù giù scendendo fino ai morti di fame e agli
emarginati, ad ognuno dei quali succedono vicende che si possono riscontrare
ancora oggi nella vita di tutti i giorni. Ogni racconto inquadra una situazione
e termina con un plot a volte
inaspettato, che conferisce sapore alla narrazione e spesso strappa qualche
sorriso oltre che qualche senso di angoscia.
Confessa lo stesso scrittore
che nello scrivere questi racconti, allo scopo di cercare di cogliere l’anima
di quella Roma che stava provando a
riprendersi dopo la tragedia della guerra, si è ispirato ai sonetti di Gioacchino Belli, e ciò ha dato la
stura a critici e letterati per intavolare una discussione non ancora risolta
sull’uso del linguaggio scritto e parlato e su quanto sia ammissibile che il
dialetto entri con diritto a far parte della letteratura “colta”, o se invece
tale settore sia riservato esclusivamente a chi scrive “sciacquando i panni in Arno”. Discussioni da professoroni
universitari. All’epoca forse Moravia si sentiva intimidito dalle potenziali
critiche che potevano venirgli mosse dai sapientoni dell’epoca, e di
conseguenza si è limitato nell’uso del romanesco
relegandolo a qualche dialogo o a qualche modo di dire, ma oggi accettiamo con
piacere un Camilleri o un Malvaldi, e chissenefrega se i cosiddetti “puristi”
storcono il naso: l’importante è che le opere, sia pure contaminate col
dialetto, siano buone e faccia piacere leggerle.
Scorrere questi racconti per
me è stata una vera sorpresa: li ho
iniziati con una certa diffidenza pensando di trovarmi di fronte, come nei
romanzi che conoscevo, ad atmosfere esistenzialiste, e invece ho riscontrato
una prosa leggera, se vogliamo un po’ datata, ma calata in situazioni di vita comuni
delle quali Moravia sottolinea sempre il lato umano e i rapporti
interpersonali. Notando come lo scrittore ha definito le caratteristiche dei personaggi
di alcune vicende, mi è venuto alla mente che con tutta probabilità Carlo Verdone, per i protagonisti dei
suoi film, si è ispirato anche a queste figure: molte particolarità degli interlocutori
messi in scena da Moravia sono state riprese in modo molto simile dall’attore e
regista. O sarà che i romani sono sempre uguali a loro stessi? Fatto sta che
queste novelle sono davvero gradevoli da leggere e consiglio di assaporarle a
piccole dosi, una al giorno, per farne sedimentare il contenuto nella nostra
coscienza.
Il Lettore
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