mercoledì 27 maggio 2015

Racconti romani

Oggi recensiamo un Grande della letteratura italiana, uno degli scrittori più famosi degli ultimi decenni.
In casa di Alberto Pincherle Moravia la letteratura e la voglia di scrivere non sono mai mancate, dalla sua adolescenza fino alle unioni con scrittrici del calibro di Elsa Morante, Dacia Maraini e Carmen Llera, e il risultato si vede sotto forma di più di trenta romanzi e innumerevoli articoli, racconti, saggi e inchieste. Per essere sincero, le opere di Moravia che avevo letto parecchi anni fa ― La noia, Gli indifferenti, Io e lui ― al tempo non mi avevano entusiasmato, poi l’altro giorno mi è capitata sotto mano questa raccolta…




Se nel 1952 il film Umberto D., di Vittorio De Sica, segna la fine del neorealismo, dovrà passare un intero millenovecentocinquantatre prima che Pane, amore e fantasia, di Luigi Comencini, dia l’avvio alla successiva corrente artistica, quella commedia all’italiana che, degradata e corrotta, ci sorbiamo ancora oggi in occasione del Natale. Ma a cavallo tra i due film, all’inizio del 1954, viene pubblicato questo libro di Alberto Moravia, questi Racconti romani che finiranno col rappresentare sia lo scisma che il trait d’union letterario nel succedersi delle due correnti.
I Racconti romani sono costituiti da qualche decina di novelle tutte narrate in prima persona da personaggi di volta in volta diversi, sono ambientate tutte a Roma o nelle immediate adiacenze, i protagonisti principali sono tutti romani e la lunghezza di ognuna è sempre compresa tra le quattro e le sette cartelle. Alberto Moravia ha pescato i suoi narratori da un popolo appartenente ai ceti più svariati con una preferenza per le condizioni medio basse della scala sociale: dai modesti impiegatucci, operai, artigiani, tassisti, giù giù scendendo fino ai morti di fame e agli emarginati, ad ognuno dei quali succedono vicende che si possono riscontrare ancora oggi nella vita di tutti i giorni. Ogni racconto inquadra una situazione e termina con un plot a volte inaspettato, che conferisce sapore alla narrazione e spesso strappa qualche sorriso oltre che qualche senso di angoscia.
Confessa lo stesso scrittore che nello scrivere questi racconti, allo scopo di cercare di cogliere l’anima di quella Roma che stava provando a riprendersi dopo la tragedia della guerra, si è ispirato ai sonetti di Gioacchino Belli, e ciò ha dato la stura a critici e letterati per intavolare una discussione non ancora risolta sull’uso del linguaggio scritto e parlato e su quanto sia ammissibile che il dialetto entri con diritto a far parte della letteratura “colta”, o se invece tale settore sia riservato esclusivamente a chi scrive “sciacquando i panni in Arno”. Discussioni da professoroni universitari. All’epoca forse Moravia si sentiva intimidito dalle potenziali critiche che potevano venirgli mosse dai sapientoni dell’epoca, e di conseguenza si è limitato nell’uso del romanesco relegandolo a qualche dialogo o a qualche modo di dire, ma oggi accettiamo con piacere un Camilleri o un Malvaldi, e chissenefrega se i cosiddetti “puristi” storcono il naso: l’importante è che le opere, sia pure contaminate col dialetto, siano buone e faccia piacere leggerle.
Scorrere questi racconti per me è stata una vera sorpresa: li ho iniziati con una certa diffidenza pensando di trovarmi di fronte, come nei romanzi che conoscevo, ad atmosfere esistenzialiste, e invece ho riscontrato una prosa leggera, se vogliamo un po’ datata, ma calata in situazioni di vita comuni delle quali Moravia sottolinea sempre il lato umano e i rapporti interpersonali. Notando come lo scrittore ha definito le caratteristiche dei personaggi di alcune vicende, mi è venuto alla mente che con tutta probabilità Carlo Verdone, per i protagonisti dei suoi film, si è ispirato anche a queste figure: molte particolarità degli interlocutori messi in scena da Moravia sono state riprese in modo molto simile dall’attore e regista. O sarà che i romani sono sempre uguali a loro stessi? Fatto sta che queste novelle sono davvero gradevoli da leggere e consiglio di assaporarle a piccole dosi, una al giorno, per farne sedimentare il contenuto nella nostra coscienza.
Il Lettore

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