Ieri ho ricevuto un bel cazziatone dal mio editor: “Un insegnante di
scrittura creativa non ci fa una bella figura a lasciare delle ripetizioni nei
suoi post!”. E questo detto con quella sottile vena di profonda soddisfazione (sarcasmo?
perfidia?) tipica di mia moglie quando (a ragione) mi può criticare per qualcosa. Del
tutto vero, chiedo venia. “Correggilo
subito.” No, non lo farò, non cambierò il primo o il secondo “gradevole”
che ho doppiato a distanza di una sola riga nella recensione precedente, e
questo perlomeno per giustificare le parole che sto scrivendo ora in modo che
tutti possano rendersi conto che anche i
migliori possono sbagliare…
Non cerco scuse per l’errore,
se non la stanchezza e la miriade di cose da fare che non mi hanno consentito
di rileggere più volte e più a fondo il testo prima di cliccare sul tasto “pubblica”.
Quando si hanno almeno venti
finestre aperte sullo schermo (sette o otto del Forum su Explorer, due del blog
su Chrome, un paio di Excel, tre o quattro Word, tre di programmi professionali,
OneNote, Gmail, tre di Adobe Reader e un paio di Powerpoint), allora capita che
possa sfuggire qualcosa. Imploro perdono, e aspetto l’occasione giusta per la vendetta…
Ed è proprio la vendetta, o
meglio, la rinuncia alla vendetta (questa è una ripetizione voluta…) uno dei
temi portanti del libro di Massimo Carlotto di cui parlerò oggi.
Il
corriere colombiano fa parte
dei romanzi i cui protagonisti seriali sono Marco Buratti, alias l’Alligatore,
e i suoi fidati compagni Beniamino Rossini
e Max La Memoria, un trio consolidato di “investigatori” sui generis che si impelaga in indagini
di quelle che gli organi di polizia non possono affrontare, inchieste che
sarebbe difficile portare avanti con metodi legali. I tre stavolta sono
impegnati nel cercare un metodo per far uscire dal carcere una persona accusata
di un delitto che non ha commesso, e nel corso delle loro ricerche si confrontano
con trafficanti di droga colombiani, poliziotti corrotti e operazioni segrete dei
reparti speciali delle forze dell’ordine, oltre che con parecchi rappresentanti
di quella varia umanità, in genere fuori dalla retta via, che costella i
romanzi di Massimo Carlotto.
Che come al solito mette in
campo uno stile sobrio e dal ritmo velocissimo, fondato sull’essenziale, e nel
quale si ritrovano tutte le particolarità del carattere dei suoi personaggi
principali. Come dice lo stesso autore
nella postfazione, la trama è basata su un episodio reale che gli ha permesso
di scandagliare il tema del tradimento e del “codice d’onore” della
criminalità, e questo mi ha fatto venire in mente le esagerazioni di Educazione siberiana, nel quale Lilin
amplifica fino alla parodia quella che è la condotta “morale in un mondo di
amorali” presente da sempre anche tra i delinquenti nostrani. E anche in questo
ambito si può riscontrare il segno di una civiltà che sta cambiando troppo in
fretta: i valori “deontologici” che venivano rispettati tra i “vecchi” fuorilegge
sembrano non essere più validi tra i “nuovi”, l’esasperata ricerca del guadagno
facile fa calpestare qualsiasi arcaico senso dell’onore.
Nella criminalità così come
in parecchi altri campi.
Un buon romanzo, forse non
tra i migliori di Carlotto a cui si può imputare di aver messo in azione troppi
personaggi tra i quali si fa un po’ di confusione, ma che comunque si legge
bene e con un crescente senso di curiosità per vedere come i protagonisti
riusciranno a dipanare una vicenda intricata.
Il Lettore
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