sabato 28 marzo 2015

Torrenti di primavera

Passo davanti alla mia libreria tutti i giorni. Più volte al giorno. Trascorro in casa la gran parte del mio tempo, circondato dalla mia libreria, ed è inevitabile che io ci transiti davanti ogniqualvolta mi alzo dalla sedia per andare in qualsiasi altro luogo. Quando sono seduto davanti al computer volto le spalle allo scaffale in cui sono riposti i libri di e su Ernest Hemingway. Tutti insieme occupano esattamente 78 centimetri di scaffale.
Sopra di essi trovano collocazione Tom Clancy e Frederick Forsyth (142 centimetri per 39 volumi, non sindachiamo sui rispettivi valori); sotto, un termosifone inutilizzato al quale fa da tetto una mensola in arenaria grigia sotterrata dalle cianfrusaglie. Quando vado verso la cucina non posso fare a meno di trovarmi Hemingway all’altezza degli occhi. Quante volte al giorno? Trenta? Quaranta? E non ci faccio mai caso: è lì, lo so, un dato di fatto, uno di quegli elementi che conferiscono stabilità alla vita. È lì; c’è tutto l’Hemingway pubblicato in italiano, compresi i romanzi postumi, comprese tre o quattro biografie, un volume fotografico, le poesie, gli articoli pubblicati sui giornali, le lettere private, tre o quattro testi di critica hemingwayana e altrettanti romanzi in lingua originale (se vi interessasse, sono 34 libri in tutto).
Ho letto l’intera collezione almeno tre decine di anni fa.
Ma d’un tratto…
È come il quadro appeso alla parete che d’improvviso si stacca, chiodo e tutto, e precipita fracassandosi a terra senza che nulla abbia potuto far presagire che ciò accadesse. Perché? Perché proprio in quel momento e non in un altro? Perché in quel momento, e non in un altro dei tanti, lo sguardo mi si è appigliato sulla costa di questo Torrenti di primavera (stretto tra Verdi colline d’Africa e l’edizione economica Bantam di The old man and the sea), e mi è presa l’irrefrenabile voglia di afferrarlo e rileggerlo? Solo perché ci ho fatto mente locale? Perché in una frazione di attimo ho letto il titolo e ho realizzato di non ricordarne il contenuto? Per riassaporare lo stile di quello che è stato uno dei caposaldi della mia giovinezza?
Fatto sta che l’ho preso, e l’ho riletto, e lo stile di Hemingway mi ha fornito lo stesso piacere di un tempo. Dopo le stroncature degli ultimi post, era ora che rileggessi qualcosa di piacevole. La cosa preoccupante è che davvero non mi ricordavo di cosa trattasse questo libretto.




Una volta Hemingway disse a Fernanda Pivano che il suo problema più grosso era stato quello di liberarsi dell’influsso di Sherwood Anderson. Tra le varie cose che Hemingway ha fatto per esorcizzare quella spada di Damocle della sua scrittura c’è anche questo romanzo breve, scritto in dieci giorni per puro divertimento (scrive romanzi brevi per divertimento Alessandro Baricco, non avrebbe dovuto farlo il nostro Ernest?), un esercizio intellettuale con una leggera carica ironica che satireggia il famoso Riso nero di Anderson sul quale Hemingway nel corso della narrazione scherza più volte: “Dietro il banco Bruce, il barista negro, piegato in avanti, era stato a osservare le conchiglie passare di mano in mano. La sua faccia scura luccicava. D’un tratto, senza preavviso, ruppe in un’acuta, incontrollabile risata. Il riso nero del negro”.
Tipico esempio di divertimento d’autore, unito alle frequenti Note d’Autore avulse dalla narrazione delle quali il racconto è costellato. È E.H. stesso a dirci che il testo è stato scritto in appena dieci giorni, che una parte è meglio di un’altra, che il capitolo che ci stiamo apprestando a leggere è più veloce del precedente, che ha scritto quel determinato capitolo dopo un piacevole pranzo insieme a John Dos Passos, che lo stesso Sherwood Anderson lo è passato a trovare in un pomeriggio di ozio; e come al solito non si risparmia le frecciatine sarcastiche su Francis Scott Fitzgerald e i commenti quasi riverenti sull’amica Gertrude Stein.
La trama quasi paradossale (è o non è un divertimento?) tira in ballo le esistenze di povera gente, un’umanità derelitta ma sempre speranzosa in un futuro migliore, che si muove quasi a caso nei gelidi stati del nord degli USA subito dopo il termine della Prima Guerra Mondiale. Svolgendo i dialoghi tra ex-combattenti, “papà” Hemingway ne approfitta per lanciare una delle prime fra le tante condanne che ha scritto nei confronti della guerra e delle sue atrocità, tre anni prima della pubblicazione di Addio alle armi e quattordici prima di Per chi suona la campana.
Lo stile preconizza la ricerca per la quale E.H. diverrà famoso: periodi brevi e staccati, molti dei quali del tutto senza verbi, che velocizzano la lettura e forniscono istantanee di situazioni determinanti; dialoghi estremamente realistici; libere intromissioni autoriali e brevi flussi di coscienza dei personaggi di volta in volta in primo piano; senza considerare i commenti ad autori e opere letterarie come continuerà a fare in Verdi colline d’Africa.
E fa parte del divertimento l’inserire spesso dei “tormentoni” ricorrenti come: “Fuori, attraverso la finestra, giunse l’eco di un grido di guerra indiano”, che non ha alcuna attinenza con la trama del libro né anticipa un qualche avvenimento: sta lì, senti questo lontano grido di guerra indiano alla fine di quasi ogni capitolo e poi resta lettera morta, un inserimento il cui scopo è solo quello di creare un’atmosfera.
Non credo che perlomeno a breve mi riprenderà la voglia di rileggere altri romanzi del nostro. Gli altri me li ricordo ancora. A volte penso che ho letto Hemingway troppo presto: anche questo autore è uno di quelli che bisognerebbe leggere con più esperienza sopra le spalle, per poterne apprezzare meglio le tante sfaccettature. Ma se cercate un esempio di stile da maestro, se state cercando di costruire un dialogo che regga, allora riprendete in mano uno dei suoi romanzi, uno a caso, mettetevi a leggere, e imparate.
Il Lettore & lo Scrittore 

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