Passo davanti alla mia libreria tutti i giorni. Più volte al giorno. Trascorro in casa la
gran parte del mio tempo, circondato dalla mia libreria, ed è inevitabile che
io ci transiti davanti ogniqualvolta mi alzo dalla sedia per andare in
qualsiasi altro luogo. Quando sono seduto davanti al computer volto le spalle
allo scaffale in cui sono riposti i libri di e su Ernest Hemingway. Tutti insieme occupano esattamente 78 centimetri
di scaffale.
Sopra di essi trovano
collocazione Tom Clancy e Frederick Forsyth (142 centimetri per
39 volumi, non sindachiamo sui rispettivi valori); sotto, un termosifone
inutilizzato al quale fa da tetto una mensola in arenaria grigia sotterrata
dalle cianfrusaglie. Quando vado verso la cucina non posso fare a meno di
trovarmi Hemingway all’altezza degli occhi. Quante volte al giorno? Trenta?
Quaranta? E non ci faccio mai caso: è lì, lo so, un dato di fatto, uno di
quegli elementi che conferiscono stabilità alla vita. È lì; c’è tutto
l’Hemingway pubblicato in italiano, compresi i romanzi postumi, comprese tre o
quattro biografie, un volume fotografico, le poesie, gli articoli pubblicati
sui giornali, le lettere private, tre o quattro testi di critica hemingwayana e
altrettanti romanzi in lingua originale (se vi interessasse, sono 34 libri in
tutto).
Ho letto l’intera collezione
almeno tre decine di anni fa.
Ma d’un tratto…
È come il quadro appeso alla
parete che d’improvviso si stacca, chiodo e tutto, e precipita fracassandosi a
terra senza che nulla abbia potuto far presagire che ciò accadesse. Perché?
Perché proprio in quel momento e non in un altro? Perché in quel momento, e non
in un altro dei tanti, lo sguardo mi si è appigliato sulla costa di questo Torrenti di primavera (stretto tra Verdi colline d’Africa e l’edizione
economica Bantam di The old man and the sea), e mi è presa l’irrefrenabile
voglia di afferrarlo e rileggerlo? Solo perché ci ho fatto mente locale? Perché
in una frazione di attimo ho letto il titolo e ho realizzato di non ricordarne
il contenuto? Per riassaporare lo stile di quello che è stato uno dei caposaldi
della mia giovinezza?
Fatto sta che l’ho preso, e
l’ho riletto, e lo stile di Hemingway mi ha fornito lo stesso piacere di un tempo.
Dopo le stroncature degli ultimi post,
era ora che rileggessi qualcosa di piacevole. La cosa preoccupante è che davvero non mi ricordavo di cosa
trattasse questo libretto.
Una volta Hemingway disse a Fernanda Pivano che il suo problema più
grosso era stato quello di liberarsi dell’influsso di Sherwood Anderson. Tra le varie cose che Hemingway ha fatto per
esorcizzare quella spada di Damocle della sua scrittura c’è anche questo
romanzo breve, scritto in dieci giorni per puro divertimento (scrive romanzi
brevi per divertimento Alessandro
Baricco, non avrebbe dovuto farlo il nostro Ernest?), un esercizio
intellettuale con una leggera carica ironica che satireggia il famoso Riso nero di Anderson sul quale
Hemingway nel corso della narrazione scherza più volte: “Dietro il banco Bruce, il barista negro, piegato in avanti, era stato a
osservare le conchiglie passare di mano in mano. La sua faccia scura luccicava.
D’un tratto, senza preavviso, ruppe in un’acuta, incontrollabile risata. Il
riso nero del negro”.
Tipico esempio di
divertimento d’autore, unito alle frequenti Note d’Autore avulse dalla narrazione delle quali il racconto è
costellato. È E.H. stesso a dirci che il testo è stato scritto in appena dieci
giorni, che una parte è meglio di un’altra, che il capitolo che ci stiamo
apprestando a leggere è più veloce del precedente, che ha scritto quel determinato
capitolo dopo un piacevole pranzo insieme a John Dos Passos, che lo stesso Sherwood
Anderson lo è passato a trovare in un pomeriggio di ozio; e come al solito
non si risparmia le frecciatine sarcastiche su Francis Scott Fitzgerald e i commenti quasi riverenti sull’amica Gertrude Stein.
La trama quasi paradossale (è
o non è un divertimento?) tira in ballo le esistenze di povera gente,
un’umanità derelitta ma sempre speranzosa in un futuro migliore, che si muove quasi
a caso nei gelidi stati del nord degli USA subito dopo il termine della Prima Guerra Mondiale. Svolgendo i
dialoghi tra ex-combattenti, “papà” Hemingway ne approfitta per lanciare una
delle prime fra le tante condanne
che ha scritto nei confronti della guerra e delle sue atrocità, tre anni prima
della pubblicazione di Addio alle armi
e quattordici prima di Per chi suona la
campana.
Lo stile preconizza la
ricerca per la quale E.H. diverrà famoso: periodi brevi e staccati, molti dei
quali del tutto senza verbi, che velocizzano la lettura e forniscono istantanee
di situazioni determinanti; dialoghi estremamente realistici; libere
intromissioni autoriali e brevi flussi di coscienza dei personaggi di volta in
volta in primo piano; senza considerare i commenti ad autori e opere letterarie
come continuerà a fare in Verdi colline
d’Africa.
E fa parte del divertimento
l’inserire spesso dei “tormentoni” ricorrenti come: “Fuori, attraverso la finestra, giunse l’eco di un grido di guerra
indiano”, che non ha alcuna attinenza con la trama del libro né anticipa un
qualche avvenimento: sta lì, senti questo lontano grido di guerra indiano alla
fine di quasi ogni capitolo e poi resta lettera morta, un inserimento il cui
scopo è solo quello di creare un’atmosfera.
Non credo che perlomeno a
breve mi riprenderà la voglia di rileggere altri romanzi del nostro. Gli altri
me li ricordo ancora. A volte penso che ho letto Hemingway troppo presto: anche
questo autore è uno di quelli che bisognerebbe leggere con più esperienza sopra
le spalle, per poterne apprezzare meglio le tante sfaccettature. Ma se cercate
un esempio di stile da maestro, se state cercando di costruire un dialogo che
regga, allora riprendete in mano uno dei suoi romanzi, uno a caso, mettetevi a
leggere, e imparate.
Il Lettore & lo Scrittore
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