Qualche sera fa, l’affetto
che provo per una mia amica mi ha fatto accettare di partecipare alla festa di
compleanno di suo figlio, festa che ben presto si è trasformata in un evento
situato nettamente oltre i confini della mia capacità di sopportazione.
Nonostante i cibi squisiti,
principalmente due sono stati i fattori che hanno determinato il montare dentro
di me della spinta ad andarmene al più presto: l’allucinante pandemonio creato
dai ragazzi e la prerogativa delle mamme di saper parlare unicamente dei propri
pargoli e di come vanno a scuola. Insopportabili entrambi.
Ma non potevo scappare, e
di conseguenza mi sono messo a spulciare la ben fornita biblioteca dei padroni
di casa fregandomene di far finta di sottostare ad un corretto comportamento
sociale, fino a che non ho incontrato
questo titolo che mi ha incuriosito:
Non conoscevo Coetzee e gli
animali mi interessano, di conseguenza ho preso il libro, ho cercato un
angolino tranquillo (!) della casa e mi sono messo a leggere.
Dopo poco più di un’ora
l’avevo terminato.
Lo scrittore John Maxwell Coetzee, sudafricano,
premio Nobel per la letteratura nel 2003, come persona dovrebbe essere un tipo
molto particolare. Lo scrittore Rian
Alan dice di lui: “Coetzee ha un'incredibile autodisciplina e dedizione al suo
lavoro. Non beve, non fuma, non mangia carne. Percorre lunghe distanze in
bicicletta per tenersi in forma e ogni mattina passa almeno un'ora alla
scrivania. Un collega di lavoro dice di averlo visto ridere solo una volta in
dieci anni. Un conoscente ha partecipato a diverse cene in cui Coetzee non ha
detto nemmeno una parola” (fonte:
Wikipedia).
Mi è proprio
simpatico. E poi scrive bene.
Anche se questo
La vita degli animali è un libro
veramente fuori dagli schemi: sotto le finte sembianze di un romanzo Coetzee ha
messo in scena un inno al vegetarianesimo
e un vero e proprio atto di accusa nei confronti del consumo di carne animale.
Il suo protagonista, Elizabeth Costello,
un’anziana e famosa scrittrice, è invitata a tenere una conferenza sugli
animali nell’Università dove insegna il figlio, conferenza che lei trasformerà
ben presto in un atto d’accusa nei confronti dell’industria zootecnica e del
consumo di carne, sconcertando i presenti abituati al politically correct. In pratica il libro è il suo discorso, e il
suo discorso il libro.
Le tematiche trattate
dalla protagonista spaziano tra le varie filosofie di pensiero che si sono
succedute nel tempo e le analizzano, fino a sfociare nel paragone tra
l’industria zootecnica e i lager
nazisti paragonando gli animali condotti al macello agli ebrei portati nelle
camere a gas.
L’argomento è
forte, particolarmente sentito da coloro, come me, a cui stanno a cuore le
sorti degli animali e ciononostante non si sforzano di rinunciare alla carne
pur ammettendo e condividendo sia la validità logico-razionale delle
motivazioni che il coinvolgimento emotivo. Un libro interessante, scritto
benissimo, che spazia dalle considerazioni sulla coscienza animale all’analisi
del concetto teologico di come la sistematica uccisione quotidiana di milioni
di animali rappresenti il peccato originale che si rinnova intorno a noi; al
quale seguono (ma quelle non ho fatto in tempo a leggerle) quattro riflessioni
sul tema di scienziati, filosofi ed etologi.
Un interessante
risvolto psicologico è come la protagonista, alla fine del libro, sia schiacciata
tra il bisogno fisiologico di esternare le sue convinzioni, e l’angoscia
provocata dall’evidente incomprensione che le rivolgono i suoi ascoltatori.
Mi ha fatto
venire voglia di leggere anche altri libri di Coetzee, magari provare un
romanzo vero e proprio.
Il Lettore
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