Nello Squizzalibro di ieri
mi sono sbagliato e faccio ammenda: Argento
vivo non è il sesto ma il settimo romanzo di Marco Malvaldi, che ha scritto inoltre un saggio sulle catastrofi
annunciate, insieme a Roberto Vacca,
e una specie di itinerario psicologico della sua città, Pisa (non pensate però
che io abbia voluto ingannarvi per non farvi indovinare, mi sono sbagliato in
buona fede).
Ad eccezione degli ultimi
due, ho letto in ordine cronologico tutto il resto che è stato pubblicato dall’autore
toscano, a partire da quel La briscola
in cinque con cui è diventato subito famoso per finire con Milioni di milioni. In ogni libro ne ho
apprezzato l’umorismo da toscanaccio e la facilità di lettura.
Nel corso dei vari cimenti
romanzeschi Malvaldi si è divertito (perché sono convinto che lui si diverte
veramente, mentre scrive) ad intrecciare storie gialle imperniate in un bar di
provincia, storie gialle in ambiente storico e storie gialle in paesini
innevati, e questo Argento vivo è
forse la sua prima storia con la quale esce dall’archetipo del giallo leggero
per raccontare una specie di commedia degli equivoci intrecciata sulle
conseguenze paradossali che capitano ad un gruppo variegato di personaggi in
seguito al furto di un computer. Sarà perché l’autore stesso alla fine del
libro confessa di non averla ideata lui, la trama, ma di averla “rubata” alla
sua compagna di vita.
Il romanzo è leggero e
piacevole, scorre via fino alla fine con facilità di lettura e lascia un senso
di soddisfazione per aver passato qualche ora in serenità lasciando da parte i
problemi della vita. Ho trovato interessanti anche le parti in cui Malvaldi
inserisce un romanzo nel romanzo, sia pure frammentate e scritte con uno stile
che forse assomiglia un po’ troppo a quello del corpo principale.
Ho gradito anche, sia pure
analizzandolo criticamente durante la lettura, il trucco usato dall’autore di
inserire richiami e/o allitterazioni e/o domande e risposte tra la fine di un
blocco e l’inizio del successivo. Mi spiego:
Malvaldi divide ogni capitolo in una serie di scene (blocchi, separati
tra loro da una riga vuota) che si svolgono in luoghi diversi dell’azione a
raccontare cosa succede a personaggi diversi. Nella frase finale di ogni blocco,
cioè di ogni scena, Malvaldi inserisce un qualche sintagma le cui unità
sintattiche vengono poi riprese, talora con diversa semantica, nelle prime
frasi del blocco successivo. Per esempio:
“…
ha bisogno di una macchina nuova.
stacco, riga vuota
Volkswagen
Lupo, anno 2000…”
Oppure:
“…
riferimenti, cliccare qui.
stacco, riga vuota
-E
non abbiamo il minimo riferimento, quindi (dice un altro personaggio in un’altra scena).”
Oppure:
“-Non è certo questo che mi può spaventare.
stacco, riga vuota
-Sono spaventato a morte (dice un altro personaggio in un’altra
scena).”
Eccetera.
Questo trucco (lo vogliamo
chiamare tecnica?), usato spesso anche nella sceneggiatura di fumetti, fornisce
al lettore una concatenazione naturale tra le varie scene e rafforza, quando
viene usata un’allitterazione, l’attenzione
posta su un lato della vicenda.
Insieme a questo aspetto
quasi da esercizio stilistico, nel romanzo di Malvaldi spiccano come sempre
l’umorismo toscano e quelle profonde verità di vita che l’autore elargisce come
dogmi inconfutabili:
“Una
telefonata che arriva tra le otto e le nove di sera, qualsiasi notizia che l’interlocutore ritenga
necessario comunicarvi all’ora di cena, mentre state arrotolando il meritato
bucatino, è quasi sicuramente una rottura di coglioni.”
Come non condividere?
Il Lettore
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