lunedì 21 ottobre 2013

Argento vivo

Nello Squizzalibro di ieri mi sono sbagliato e faccio ammenda: Argento vivo non è il sesto ma il settimo romanzo di Marco Malvaldi, che ha scritto inoltre un saggio sulle catastrofi annunciate, insieme a Roberto Vacca, e una specie di itinerario psicologico della sua città, Pisa (non pensate però che io abbia voluto ingannarvi per non farvi indovinare, mi sono sbagliato in buona fede).

Ad eccezione degli ultimi due, ho letto in ordine cronologico tutto il resto che è stato pubblicato dall’autore toscano, a partire da quel La briscola in cinque con cui è diventato subito famoso per finire con Milioni di milioni. In ogni libro ne ho apprezzato l’umorismo da toscanaccio e la facilità di lettura.


Nel corso dei vari cimenti romanzeschi Malvaldi si è divertito (perché sono convinto che lui si diverte veramente, mentre scrive) ad intrecciare storie gialle imperniate in un bar di provincia, storie gialle in ambiente storico e storie gialle in paesini innevati, e questo Argento vivo è forse la sua prima storia con la quale esce dall’archetipo del giallo leggero per raccontare una specie di commedia degli equivoci intrecciata sulle conseguenze paradossali che capitano ad un gruppo variegato di personaggi in seguito al furto di un computer. Sarà perché l’autore stesso alla fine del libro confessa di non averla ideata lui, la trama, ma di averla “rubata” alla sua compagna di vita.
Il romanzo è leggero e piacevole, scorre via fino alla fine con facilità di lettura e lascia un senso di soddisfazione per aver passato qualche ora in serenità lasciando da parte i problemi della vita. Ho trovato interessanti anche le parti in cui Malvaldi inserisce un romanzo nel romanzo, sia pure frammentate e scritte con uno stile che forse assomiglia un po’ troppo a quello del corpo principale.
Ho gradito anche, sia pure analizzandolo criticamente durante la lettura, il trucco usato dall’autore di inserire richiami e/o allitterazioni e/o domande e risposte tra la fine di un blocco e l’inizio del successivo. Mi spiego:  Malvaldi divide ogni capitolo in una serie di scene (blocchi, separati tra loro da una riga vuota) che si svolgono in luoghi diversi dell’azione a raccontare cosa succede a personaggi diversi. Nella frase finale di ogni blocco, cioè di ogni scena, Malvaldi inserisce un qualche sintagma le cui unità sintattiche vengono poi riprese, talora con diversa semantica, nelle prime frasi del blocco successivo. Per esempio:
“… ha bisogno di una macchina nuova.
stacco, riga vuota
Volkswagen Lupo, anno 2000…”
Oppure:
“… riferimenti, cliccare qui.
stacco, riga vuota
-E non abbiamo il minimo riferimento, quindi (dice un altro personaggio in un’altra scena).”
Oppure:
“-Non è certo questo che mi può spaventare.
stacco, riga vuota
-Sono spaventato a morte (dice un altro personaggio in un’altra scena).”
Eccetera.
Questo trucco (lo vogliamo chiamare tecnica?), usato spesso anche nella sceneggiatura di fumetti, fornisce al lettore una concatenazione naturale tra le varie scene e rafforza, quando viene usata  un’allitterazione, l’attenzione posta su un lato della vicenda.
Insieme a questo aspetto quasi da esercizio stilistico, nel romanzo di Malvaldi spiccano come sempre l’umorismo toscano e quelle profonde verità di vita che l’autore elargisce come dogmi inconfutabili:
“Una telefonata che arriva tra le otto e le nove di sera,  qualsiasi notizia che l’interlocutore ritenga necessario comunicarvi all’ora di cena, mentre state arrotolando il meritato bucatino, è quasi sicuramente una rottura di coglioni.”
Come non condividere?
Il Lettore

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