Dopo il commento su Pane e tempesta, da più persone ho
ricevuto l’invito a leggere quest’altro romanzo di Stefano Benni (la cosa mi ha fatto piacere nonché stimolato, al
punto da spingermi a pensare di inserire su questo blog una rubrica nella quale
inserire i vostri consigli: devo rifletterci sopra), e io non so resistere a
questo tipo di spinte. Dal momento poi che una di queste persone è stata anche
tanto gentile da prestarmelo, non ho fatto passare molto tempo prima di
accingermi ad aprirlo.
Leggendo alcuni scrittori
mi viene voglia di imitarli, come genere o come stile, di redigere un testo che
assomigli a ciò che mi è piaciuto. Ma non è questo il caso.
Con Benni, pur apprezzando
la fantasmagorica varietà del suo lessico, non mi succede. Achille pié veloce mi è piaciuto, ma non così tanto da invogliarmi
a proseguire nella lettura del suo autore. E sì che, come mi anticipava l’amica
che me l’ha prestato, il protagonista fa di professione ciò che io provo ad
esercitare a gratis, cioè il valutatore di scrittodattili
per una casa editrice. In effetti nel libro ho ritrovato parecchie situazioni
nelle quali mi sono imbattuto anch’io, tutte inserite in chiave ironica
sfruttando il facile appiglio dell’assoluta incompetenza letteraria della
maggior parte di coloro che inviano i propri manoscritti a qualche editore.
Questo romanzo si rivela
essere molte cose: un inno alla dimensione mitologica, ma anche una disamina
della disabilità; una denuncia sociale, e insieme una gigantesca allegoria delle
condizioni attuali del nostro paese in crisi comandato, all’epoca in cui è
ambientato il romanzo, da un Nano non meglio identificato (qualsiasi
riferimento alla situazione politica attuale è puramente voluto). L’aspetto che
più mi ha interessato, sia come stile di scrittura che come contenuti, è il
rapporto che lega Ulisse ad Achille, cioè tra la normalità e la disabilità.
Benni ha voluto creare un personaggio mostruoso ma geniale, che sembra
ricalcare un Elephant Man o un Johnnie Freak o il Raymond di Rain man,
conferendogli una mente superiore in un corpo deforme, ed è riuscito
nell’intento di articolare dialoghi intelligenti e del tutto plausibili in una
situazione decisamente fuori della norma.
Ma nel resto del romanzo, a
parer mio, avrebbe forse fatto meglio a risparmiarci un contraltare di
sfaccettature oniriche, di miniautori di scrittodattili che gli escono dalle
tasche, di elenchi interminabili di esempi atti ad esplicare un qualsiasi concetto:
similitudini, metafore, paragoni che dimostrano sì la sfrenata fantasia di
Benni e la sua padronanza del lessico, ma quando sono troppi finiscono con lo
sfociare in una voluta ridondanza che a
me personalmente stufa; la bonaria presa in giro delle piccole case editrici
può anche essere interessante, ma l’insistente sottolineatura, come fosse
anch’essa una presa per i fondelli, del protrarsi di lotte sindacali passate di
moda dopo gli anni ottanta, dopo un po’ annoia; fa piacere incontrare pagine
dense di arguzia o stilisticamente perfette, come l’infuriare della “tempesta
di congiuntivi” a pag. 211 e 212, peccato che siano alternate a criticabili
passaggi didattici imperniati sul sociale, che a volte scadono in melense
ovvietà come nell’affermazione: “Questo
paese guarirà.”
Difficile, i medici bravi
se ne sono andati tutti all’estero.
Il Lettore
Nessun commento:
Posta un commento