Ciò
che emerge dai romanzi di
Maurizio de Giovanni è un’umanità variegata che si palesa attraverso una
miriade di aspetti tra i quali spiccano una malinconia di fondo e
un’ineluttabilità del dramma del vivere quotidiano che rendono il tono di ogni
avventura del Commissario Luigi Alfredo
Ricciardi denso di tristezza. A mio parere De Giovanni è al momento uno dei
migliori autori italiani in circolazione.
L’ambientazione della trama
di La condanna del sangue – La primavera
del Commissario Ricciardi, nella Napoli del ventennio fascista, satura di povertà, odori forti, differenze
sociali, delitti e prevaricazioni politiche, non aiuta a risollevare il lettore
dal senso di disperazione attraverso il quale De Giovanni lo conduce per mano,
anzi, gli permette di mettere la propria nella mano del Ricciardi e da lui
stesso farsi condurre in silenzio tra i vicoli dei Quartieri Spagnoli o tra le
ville in costruzione del Vomero, condannati entrambi dalla maledizione del Fatto (cioè della peculiarità di poter
vedere i morti di morte violenta cristallizzati nell’attimo immediatamente
antecedente al trapasso) che incombe sul Commissario.
E il lettore si lascia
condurre, ammaliato da una prosa limpida e scorrevole che dipana ogni vicenda
fino alla sua conclusione alternando elementi investigativi a faccende
personali che mettono in luce tutte le sfaccettature del caleidoscopio di
sentimenti di cui sono permeate le miserie umane, in una ridda di sentimenti
sia nobili sia meschini, con l’ombra sempre costante della morte che incombe
sui personaggi. Ricciardi, Maione, Bambinella, Enrica, Modo, e perfino le
spalle come Lucia, Camarda e Cesarano, Ponte e il Questore Garzo sono
caratterizzati in modo mirabile soprattutto attraverso i loro comportamenti,
entrano da subito nella consapevolezza del lettore e la loro vita quotidiana si
fonde insieme a gioie e tragedie con l’intreccio poliziesco sul quale il
romanzo è imperniato. Un romanzo più che un giallo, nel quale la ricerca del
colpevole passa in secondo piano nelle aspettative del lettore che resta
appagato dalla lettura stessa.
È il terzo lavoro che leggo
delle vicende di Ricciardi, e come i due precedenti mi ha lasciato pienamente
soddisfatto, sia pure con quel lieve senso di tristezza per lo più innescato
dalla figura del Commissario, e con la curiosità – positiva – di poter venire a
conoscenza nelle prossime puntate dell’evoluzione delle sue vicende personali,
che l’autore lascia intenzionalmente in sospeso. Le trame di De Giovanni sono
più che passabili, ma quello che affascina di più il lettore sono stile,
ambientazione e personaggi.
Mentre questa recensione
attendeva di venire pubblicata ho trovato il tempo di leggere anche il
successivo Per mano mia. Il Natale del
Commissario Ricciardi.
Bene, una conferma. Un
libro saturo di sostanza, in cui il Fatto viene messo un po’ più in secondo
piano rispetto ai primi volumi, e nel quale prende ancora più corpo la figura
del Brigadiere Maione, uno dei migliori coprotagonisti che mi è mai capitato di
incontrare.
Il Lettore
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