Tornando da un pranzo a casa
del mio editore preferito mi sono portato via tre volumi della sua libreria che
mi avevano incuriosito e ho cominciato a leggere questo Non è stagione pur non essendo il primo della saga del Vicequestore Rocco Schiavone. Ma di questo personaggio di Antonio Manzini ne avevo sentito parlare non fosse altro perché tra
breve dovrebbero mandare in onda lo sceneggiato televisivo che ne hanno tratto
e che con tutta probabilità non
guarderò, ma uno deve tenersi aggiornato, no? Che cosa potrei rispondere
altrimenti a chi mi domandasse che cosa ne penso?
Adesso potrei dire loro che
appena iniziato il romanzo avrei già voluto scaraventarlo dalla finestra, e non l’ho fatto solo perché primo il
libro non è mio, e secondo perché abitando a piano terra non si sarebbe fatto abbastanza
male.
Non si può mettere una castroneria già alla seconda pagina e pretendere che passi inosservata,
vi pare? “Il motore sbiellato e la
marmitta bucata suonavano come ferraglie lasciate cadere da una rampa di scale.”
I due personaggi con cui inizia il romanzo stanno viaggiando su un furgone che a quanto pare ha dei
problemi meccanici, e passi la marmitta bucata, ma se un motore è sbiellato la macchina non cammina
proprio; lo dice la parola stessa: sbiellato = con le bielle rotte, e in queste
condizioni un motore non gira, fine dei giochi, kaputt, non è che si limita a sferragliare continuando ad andare
avanti. A me questa leggerezza
nell’usare la terminologia fa talmente girare le palle che ci potrei far
decollare un elicottero, ma quando l’ho fatto notare alla mia adorabile
mogliettina lei mi ha subito tacciato di eccessiva pignoleria, e ti pareva, così ho proseguito nella lettura per
soffocare l’istinto di lanciare lei,
dalla finestra, che tanto anche lei non si sarebbe fatta molto male.
Che poi alla fine il romanzo
è anche leggibile, a non voler essere pignoli,
ma pure nel seguito è colmo di imprecisioni di questo genere e di tratti che,
se a definirli confusi poi divento pedante, non sono raccontati con
sufficiente chiarezza.
A partire dal protagonista, stereotipo assoluto, poliziotto
bravo (ovviamente) ma (ovviamente) con grossi problemi personali e passato
misterioso, che l’autore fa di tutto per far vedere quant’è antipatico e
scostante con lo scopo in realtà di rendertelo
simpatico, e alla fine è riuscito benissimo a farmelo diventare antipatico e scostante. E pure
deficiente. Come lo definireste voi uno che continua a indossare esclusivamente
scarpe Clarks e ogni volta che
piovono due gocce le deve buttare
via perché si infradiciano? Questa non è una gag ricorrente, è una dimostrazione di idiozia pura. Sei ad Aosta, cazzo, non nel deserto di Atacama, un
paio di scarponcini da montagna no? E lasciamo perdere le scopiazzature caratteriali prese direttamente da Salvo Montalbano, perché allora saremmo
costretti a parlare anche di ulteriori scopiazzature, cominciando dagli altri
poliziotti cretini in pieno stile Catarella
per finire con le visioni di persone morte in pieno stile Ricciardi. E poi a me quelli che scroccano le sigarette a getto
continuo stanno sui coglioni per definizione.
Ma la vicenda può anche incuriosire, e dal momento che volevo
vedere che fine facesse la ragazza rapita sulla quale Schiavone è chiamato a
investigare ho proseguito nella lettura, aggirando
i luoghi comuni, scansando le incongruenze
e fischiettando facendo finta di non
vedere sui passaggi non tanto plausibili pur di arrivare alla fine.
Conclusione? Il romanzo si
lascia anche leggere, ma lo stile di
Antonio Manzini non mi è piaciuto proprio: la superficialità e l’imprecisione la
fanno da padrone, e visto il numero di persone che parlano straordinariamente bene di questo libro questa è un’ennesima
conferma alla constatazione che il 90% delle persone si lascia abbindolare con
poco e quindi per avere successo bisogna scrivere stronzate. Non mi è
piaciuto come si è risolta la faccenda, non
mi è piaciuto l’inserimento della tragica vicenda finale e non mi è piaciuto il fatto che dopo aver tartassato in
continuazione il lettore con stralci del rapimento visto dagli occhi della
ragazza sequestrata quest’ultima scompare dalla scena e non se ne sa più nulla.
Non credo che leggerò altre
avventure del Dott. Schiavone, né tantomeno guarderò la serie televisiva: Clarks? Mai messe, io sono uno di quelli
che portano gli scarponcini da ottobre a maggio.
E tanto per continuare a
essere pignolo, a pagina 162 c’è un altro
furgone in viaggio (che quello dell’inizio ormai è dal rottamatore) nel quale
il passeggero “…sentì il furgone
acquistare velocità. Sempre di più, sempre di più. Scalava di marcia e correva sempre di più." Avete notato? È
diventato un difetto cronico.
Nel dizionario della lingua italiana il verbo “scalare” ha tanti
significati, tra i quali un’accezione per “diminuire, ridurre”. Soprattutto poi
nel gergo automobilistico lo “scalare” è il decrementare le marce per consentire di alzare il numero di giri o
per attivare il freno motore. Non si “scala” di marcia quando già stai aumentando la velocità, casomai innesti
la marcia superiore. Tanto per continuare
a essere pignoli.
O Manzini oltre all’ignorare
cosa sia un vocabolario non saprà nemmeno guidare l’automobile?
Il Lettore
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