giovedì 20 ottobre 2016

Non è stagione

Tornando da un pranzo a casa del mio editore preferito mi sono portato via tre volumi della sua libreria che mi avevano incuriosito e ho cominciato a leggere questo Non è stagione pur non essendo il primo della saga del Vicequestore Rocco Schiavone. Ma di questo personaggio di Antonio Manzini ne avevo sentito parlare non fosse altro perché tra breve dovrebbero mandare in onda lo sceneggiato televisivo che ne hanno tratto e che con tutta probabilità non guarderò, ma uno deve tenersi aggiornato, no? Che cosa potrei rispondere altrimenti a chi mi domandasse che cosa ne penso?
Adesso potrei dire loro che appena iniziato il romanzo avrei già voluto scaraventarlo dalla finestra, e non l’ho fatto solo perché primo il libro non è mio, e secondo perché abitando a piano terra non si sarebbe fatto abbastanza male.




Non si può mettere una castroneria già alla seconda pagina e pretendere che passi inosservata, vi pare? “Il motore sbiellato e la marmitta bucata suonavano come ferraglie lasciate cadere da una rampa di scale.” I due personaggi con cui inizia il romanzo stanno viaggiando su un furgone che a quanto pare ha dei problemi meccanici, e passi la marmitta bucata, ma se un motore è sbiellato la macchina non cammina proprio; lo dice la parola stessa: sbiellato = con le bielle rotte, e in queste condizioni un motore non gira, fine dei giochi, kaputt, non è che si limita a sferragliare continuando ad andare avanti. A me questa leggerezza nell’usare la terminologia fa talmente girare le palle che ci potrei far decollare un elicottero, ma quando l’ho fatto notare alla mia adorabile mogliettina lei mi ha subito tacciato di eccessiva pignoleria, e ti pareva, così ho proseguito nella lettura per soffocare l’istinto di lanciare lei, dalla finestra, che tanto anche lei non si sarebbe fatta molto male.
Che poi alla fine il romanzo è anche leggibile, a non voler essere pignoli, ma pure nel seguito è colmo di imprecisioni di questo genere e di tratti che, se a definirli confusi poi divento pedante, non sono raccontati con sufficiente chiarezza.
A partire dal protagonista, stereotipo assoluto, poliziotto bravo (ovviamente) ma (ovviamente) con grossi problemi personali e passato misterioso, che l’autore fa di tutto per far vedere quant’è antipatico e scostante con lo scopo in realtà di rendertelo simpatico, e alla fine è riuscito benissimo a farmelo diventare antipatico e scostante. E pure deficiente. Come lo definireste voi uno che continua a indossare esclusivamente scarpe Clarks e ogni volta che piovono due gocce le deve buttare via perché si infradiciano? Questa non è una gag ricorrente, è una dimostrazione di idiozia pura. Sei ad Aosta, cazzo, non nel deserto di Atacama, un paio di scarponcini da montagna no? E lasciamo perdere le scopiazzature caratteriali prese direttamente da Salvo Montalbano, perché allora saremmo costretti a parlare anche di ulteriori scopiazzature, cominciando dagli altri poliziotti cretini in pieno stile Catarella per finire con le visioni di persone morte in pieno stile Ricciardi. E poi a me quelli che scroccano le sigarette a getto continuo stanno sui coglioni per definizione.
Ma la vicenda può anche incuriosire, e dal momento che volevo vedere che fine facesse la ragazza rapita sulla quale Schiavone è chiamato a investigare ho proseguito nella lettura, aggirando i luoghi comuni, scansando le incongruenze e fischiettando facendo finta di non vedere sui passaggi non tanto plausibili pur di arrivare alla fine.
Conclusione? Il romanzo si lascia anche leggere, ma lo stile di Antonio Manzini non mi è piaciuto proprio: la superficialità e l’imprecisione la fanno da padrone, e visto il numero di persone che parlano straordinariamente bene di questo libro questa è un’ennesima conferma alla constatazione che il 90% delle persone si lascia abbindolare con poco e quindi per avere successo bisogna scrivere stronzate. Non mi è piaciuto come si è risolta la faccenda, non mi è piaciuto l’inserimento della tragica vicenda finale e non mi è piaciuto il fatto che dopo aver tartassato in continuazione il lettore con stralci del rapimento visto dagli occhi della ragazza sequestrata quest’ultima scompare dalla scena e non se ne sa più nulla.
Non credo che leggerò altre avventure del Dott. Schiavone, né tantomeno guarderò la serie televisiva: Clarks? Mai messe, io sono uno di quelli che portano gli scarponcini da ottobre a maggio.
E tanto per continuare a essere pignolo, a pagina 162 c’è un altro furgone in viaggio (che quello dell’inizio ormai è dal rottamatore) nel quale il passeggero “…sentì il furgone acquistare velocità. Sempre di più, sempre di più. Scalava di marcia e correva sempre di più." Avete notato? È diventato un difetto cronico.
Nel dizionario della lingua italiana il verbo “scalare” ha tanti significati, tra i quali un’accezione per “diminuire, ridurre”. Soprattutto poi nel gergo automobilistico lo “scalare” è il decrementare le marce per consentire di alzare il numero di giri o per attivare il freno motore. Non si “scala” di marcia quando già stai aumentando la velocità, casomai innesti la marcia superiore. Tanto per continuare a essere pignoli.
O Manzini oltre all’ignorare cosa sia un vocabolario non saprà nemmeno guidare l’automobile?
Il Lettore 

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