“Vittime è il mio thriller più terrificante” si
parla addosso lo stesso Jonathan
Kellerman in copertina. Ma dove? Maddeché? Tutt’al più potranno rimanerne “terrificati”
coloro che non hanno mai letto un thriller
in vita loro e vivono la loro vita tra coniglietti batuffolosi e pettirossi
cinguettanti. E qualche giornalistucolo rincara la dose pubblicitaria sul retro
di copertina paragonando l’autore a Thomas
Harris o Jeffrey Deaver. Ma
quando mai! A parte che per quanto mi riguarda paragonare qualcuno a Deaver non
significa certo fargli un complimento, opinione personale, ma perlomeno Harris
ha scritto un libro che ha costituito un punto
fermo nella storia dei thriller.
Questo al massimo potrebbe
essere utile come ferma porta.
Il grande Alfred Hitchcock riusciva a
terrorizzarti solo con lo stridere di una porta che si apriva; Ridley Scott ha fatto intravedere il
suo terrificante alieno per la prima volta solo in poche fugaci apparizioni; perfino
Koji Suzuki è riuscito a fare andare
nel panico il lettore al solo squillare del telefono.
Quando l’autore non va a scuola dai maestri. Della
serie: mettiamoci qualche sbudellamento
per fare più colpo. Con la “agghiacciante” serie di omicidi di questo romanzo, omicidi in cui le vittime vengono uccise
e poi aperte fino a tirarne fuori tutti gli intestini per poi formarci una
ghirlanda intorno alla testa del malcapitato, Jonathan Kellerman raggiunge il solo scopo che alla quarta volta che
succede ne hai piene le balle e
cominci a sperare che l’assassino si decida a prendere di mira gli investigatori così almeno la facciamo
finita una volta per tutte.
In questo romanzo Kellerman
ricopia la stessa struttura e lo stesso stile che aveva utilizzato in L’inganno: gli stessi investigatori Milo Sturgis e Alex Delaware vanno alla ricerca di questo buontempone che riduce
le vittime nel modo che ho detto, solo che contrariamente al libro precedente,
in questo caso è Sturgis che non fa una benemerita minchia, mentre l’apporto di
Delaware consiste in una serie infinita di masturbazioni
mentali che miracolo!, alla fine si rivelano tutte esatte. Ma guarda un po’. Come
azzeccare tutti i numeri al superenalotto.
Un esempio terra terra: un
testimone dice che l’assassino veste un cappotto.
Sarà freddo, penserete. Ma siamo a Los Angeles, dove non fa mai freddo. Che
cosa vi viene in mente allora? Vorrà nascondere un qualche attrezzo, vorrà
mimetizzare la propria silhouette, avrà bisogno di tasche capienti, ci avrà cucito
dentro un giubbotto antiproiettile, di ragioni per portare un cappotto dove fa
caldo ce ne sono una miriade. No, dopo infinite masturbazioni (mentali) Delaware
decide che l’unico motivo per portare un cappotto deve essere che l’assassino
sente patologicamente freddo per un disturbo alla tiroide (!), e indirizza le
indagini in quella direzione. Ma su che film? Ora io non sono un laureato in medicina, ed è
possibile che per un medico questa
sia l’unica ragione possibile per
portare un cappotto quando fa caldo, ma lasciatemene dubitare un pochino.
Inoltre, a parte queste (numerose)
perle di assenza di plausibilità, se
nell’altro romanzo l’imperniare tutte le indagini su continui dialoghi con un’infinità di persone era
riuscito all’autore piuttosto bene, il replicare la tecnica trasforma questo
caso in una noia infinita, e quando arrivi alla risoluzione ne sei veramente contento non tanto perché scoprono il serial killer, quanto perché proprio non ne puoi più.
Per non parlare dei parecchi refusi che ho incontrato nel testo ad
indicare una cura editoriale pari a zero e qualche passaggio “strano” che ti importuna ma non sai individuarne esattamente
il perché, cosa che può dipendere da una momentanea pazzia dell’autore, da una traduzione inesatta o vattelapesca.
Come quando Kellerman
descrive una donna come “ossuta e
rubiconda”. Ora, io ci ho provato parecchio a cercare di immaginarmi una
donna allo stesso tempo ossuta e rubiconda, ma i miei sforzi non hanno
raggiunto un risultato accettabile.
Va bene. Kellerman: parentesi
chiusa, passiamo ad altro.
Il Lettore
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