Finalmente ecco il Pulitzer che avevo cominciato diverso
tempo fa e che per sopraggiunte nuove letture non riuscivo a terminare. È il
primo romanzo di J.R. Moehringer,
dopo aver letto il quale André Agassi
ha chiesto all’autore: la tua autobiografia
mi è proprio piaciuta, non è che scriveresti anche la mia?
Detto fatto. È così che è
nato Open, una “autobiografia su
commissione” che si trova ancora adesso nelle classifiche dei libri più
venduti. Se ne volete sapere qualcosa di più lo trovate qui.
Leggendo Il bar delle grandi speranze mi si è chiarito anche un mistero che
non riuscivo a risolvere: a suo tempo avevo cercato in rete quale fosse il nome
per esteso di J.R. Moehringer, non
riuscendo a trovare a quali nomi di battesimo corrispondessero le iniziali J.R.
È spiegato nel romanzo: quelle
iniziali non significano proprio nulla, da un iniziale John Joseph l’autore stesso ha deciso di farsi chiamare da un certo
punto della propria vita in poi proprio J.R.,
o JR senza punti, con queste sole
iniziali, un po’ come il J.R. Ewing
di Dallas. La faccenda è anche più
complicata, ma il tutto lo spiega bene J.R. nel libro insieme alla presenza o
all’assenza dei punti, e sarebbe troppo lungo farne un riassunto qui.
Dal momento che questo libro
è stato scritto da Moehringer che non aveva ancora trent’anni e rivisto più
volte in seguito, definirlo un’autobiografia, anche se lo è, risulta un po’
azzardato vista la brevità dell’esistenza vissuta fino a quel punto, ma in
effetti è stato scritto anche con il piglio del romanzo, perciò mi sembra più
giusto definirlo un romanzo di
formazione in cui l’autore parla
di se stesso.
Moehringer racconta di sé
dall’età di circa dieci anni: il piccolo J.R.
cresce con la madre e la stramba famiglia di lei dopo essere stato abbandonato
dal padre a pochi mesi di vita, e nonostante abiti con una numerosa folla di
nonni, zii e cugini, sente che la figura
paterna gli manca proprio tanto e comincia ad andarne alla ricerca. Oltre
al padre, man mano incontra una serie di uomini che per diverse ragioni gli
faranno da mentori nel suo cammino
verso l’età adulta, dai divertimenti adolescenziali ai lavori saltuari, dagli
studi al college all’inizio di una
carriera giornalistica rivolta verso il desiderio di fare dello scrivere lo scopo della propria vita.
E lo zoccolo duro del gruppo
di questi uomini lo troverà all’interno di un bar della sua cittadina natale, alle porte di New York, un bar che
per l’autore costituirà una vera e propria tana
in cui acquattarsi nei momenti di crisi, e saranno parecchi, un rifugio sicuro
nel quale di volta in volta trovare, oltre all’alcool, anche un buon consiglio
o un’opportuna strapazzata, o una spalla su cui piangere.
Un gruppo di uomini dai quali
trarrà anche l’insegnamento, oltre a quelli di vita e di come ci si ubriaca, sul come si deve scrivere, e passerà da un proprio stile complicato
ricco di paroloni inseriti ad effetto a uno stile semplice, sobrio e nello
stesso tempo evoluto, quello stile che in breve tempo gli farà vincere il Premio Pulitzer a trentasei anni per un
suo reportage su un’isolata comunità
fluviale in Alabama.
Il
bar delle grandi speranze
è un bel libro, con una bella storia di crescita, denso di sentimenti e di
passaggi toccanti soprattutto verso la fine quando l’autore tira le fila della
propria esistenza. Mi è piaciuto, e dopo diverse decine di pagine in cui ha
stentato a decollare nel mio interesse, verso la metà mi ha preso e l’ho
terminato in un battibaleno. Mi è piaciuto,
ripeto, ma non mi ha entusiasmato come è successo a moltissimi lettori compresa
colei che me lo ha prestato, e che ringrazio calorosamente.
La ragione è semplice: pur
essendo un ottimo libro che rasenta il capolavoro,
sia per i fatti e le storie narrate che per lo stile col quale è condotto, ritengo
sia troppo denso di cultura americana
per poter soddisfare pienamente una persona che non è cresciuta negli Stati Uniti. Un po’ quello che sostenevo per
il libro di David Sedaris che ho
recensito qui. Per uno che non è
cresciuto ad hamburger e baseball (se c’è uno sport che mi annoia
più del calcio, se mai fosse possibile, è questo), che non ha frequentato colleges, corse di cavalli o le vie di
Manhattan, e per il quale le ubriacature giornaliere non costituiscono la norma, il sentir parlare in continuazione di
tutti i minimi particolari di questi temi non ha contribuito a far lievitare l’interesse
per le vicissitudini del protagonista.
Pagine e pagine sulle
tecniche di quel tal giocatore, sul perché un cocktail è più adatto di un altro in una certa situazione o sul
perché i Mets perdono in
continuazione mi fanno lo stesso effetto di una disquisizione su Totti: interesse zero, curiosità men che meno.
Problema mio.
Ma del resto, se questo è il
modo di vivere del ceto medio maschile americano, perennemente ubriaco, allora
Moehringer non ha fatto altro che descrivere una situazione comune, per loro, e
l’ha fatto davvero bene. Riconosco comunque che per una qualsiasi altra persona
ciò potrebbe non essere un difetto, e in altre pagine l’autore si rifà alla grande
soddisfacendo anche chi americano non è. In ogni modo sono arrivato in fondo al
libro con piacere per il modo di
raccontare semplice e preciso, che ti fa incuriosire meramente per le altre
storie e per le avventure tragicomiche di questo J.R. Moehringer che vuole diventare uno scrittore.
E il bello è che alla fine ci riesce.
Il Lettore
Lettore, Moehringer
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