martedì 10 maggio 2016

L’amante giapponese

Nel corso degli anni mi si è sviluppata una certa repulsione nei confronti degli autori sudamericani (il fatto che in un libro tutti i protagonisti si chiamino Aureliano Buendìa supera la mia capacità di sopportazione), cosa assolutamente non condivisa dal mio editor che al contrario li adora.
Molti suoi tentativi di costringermi a leggere questo o quell’altro non sono andati in porto, ma se io sono cocciuto da una parte lei è cocciuta dall’altra e continua a insistere, e alla fine, anche per salvaguardare il ménage familiare, ho fatto buon viso a cattivo gioco e ho acconsentito a leggere questo romanzo che lei sosteneva essere molto carino (ma questo significa poco, lo dice di tutti i sudamericani).




E, tanto per confermare i miei timori, il romanzo di Isabel Allende ha cominciato ben presto a farmi girare le palle perché, alla faccia del titolo, per diverse decine di pagine non c’è alcuna traccia di qualsivoglia Amante giapponese, e uno comincia a domandarsi il perché di un titolo del genere se la vicenda tratta invece delle problematiche di un ospizio per anziani (un sacco allegro: schiattano una moltitudine di vecchietti…). E non è nemmeno colpa di una traduzione impropria: il titolo originale recita infatti El amante japonés.
Ma quando sei lì lì per rinunciarci… ecco che salta fuori questo Ichimei Fukuda che comincia a dare un senso perlomeno al titolo… Salta fuori perché un’ospite dell’anticamera del Paradiso dell’ospizio si comporta in modo strano, e quando i congiunti indagano sul perché delle sue stranezze scoprono che l’ultraottantenne Alma Belasco ha un amante pressoché coetaneo, quel giapponese lì, appunto, con il quale sta insieme da una vita senza che nessun’altro di quelli che le sono stati vicino abbia mai sospettato nulla.
Alma Belasco è un’anziana signora ricca e famosa, originaria della Polonia dalla quale i genitori l’hanno fatta fuggire prima di rimanere vittime delle persecuzioni naziste, e che si è fatta un nome importante nel campo dell’arte e della moda. Una donna volitiva e indipendente, che alla sua età gira in Smart (una via di mezzo tra una bicicletta e una carrozzina a rotelle, dice lei) perché così le sembra di non poter uccidere nessun pedone.
Isabel Allende parte così con il narrare della vita di Alma e di come alla fine sia capitata volontariamente in un ospizio, per continuare con il raccontare la vita di tutti i componenti della famiglia Belasco (per quattro generazioni!) che l’ha adottata e poi inglobata, della badante slava che la segue nell’istituto e che poi (forse, ma non è dato di saperlo) finirà per diventare la moglie di suo nipote, per proseguire con la vita dell’amante Ichi e di tutti i componenti della sua famiglia giapponese, e alla fine ti lascia con un palmo di naso perché smette di punto in bianco di narrare biografie e il libro è finito e tu ti domandi ma come? Finito così? E l’amante che fine ha fatto? E lei neanche muore?
In pratica, alla fine di un pippone interminabile in cui analizza nei minimi particolari una quindicina di esistenze, alla resa dei conti l’autrice non ti dice nemmeno che fine fanno i protagonisti principali. Per carità, uno se lo immagina (schiattano); ma probabilmente questa è la ragione (una delle) per cui questo romanzo è stato giudicato coram populo come uno dei peggiori della scrittrice peruvian-cilena-statunitense (checché ne dica la consorte).
Per me, nulla di sorprendente.
Ad essere del tutto sincero alcune parti interessanti le ho incontrate, perché di contorno alle biografie vi sono inquadramenti storici importanti che mi hanno anche rivelato cose che non sapevo, come la trattazione particolareggiata delle deportazioni dei nippo-statunitensi all’interno degli Stati Uniti nel corso della seconda guerra mondiale. E per dare un contentino alla consorte ammetterò che il romanzo è colmo di sentimento, da quelli personali a partire dall’amore sublime e resistente al tempo tra Alma e Ichi, all’amore tra gli altri membri delle famiglie, all’amore per le piante, per gli animali e per l’umanità in genere, e a tratti questo amore è anche raccontato in maniera decente.
Però alla fine, nonostante lo stile discorsivo della Allende sia leggibilissimo e chiaro, rimane una narrazione in cui si nota troppa carne al fuoco e portata avanti con un tono di sottofondo freddo e impersonale, mi viene in mente di dire da anatomopatologo, per poi concludere il libro di punto in bianco con un niente: tutti i personaggi, perlomeno quelli ancora viventi al tempo presente della narrazione, vengono lasciati a loro stessi senza specificare per nessuno la fine che fa, e questo veramente lascia molto perplessi. La mia consorte dirà (già la sento…): non ce n’era bisogno di dire che fine facessero…
E questo potrebbe anche essere giustificabile, ma resta il fatto che passerà molto, ma mooooolto tempo, prima che io possa anche solo pensare di riprendere in mano un altro scrittore sudamericano…
Il Lettore razzista (letterariamente parlando)

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