Per restare in tema di pipponi, dopo la Allende eccone un
altro interminabile e noiosissimo che purtroppo avrà ingannato ben bene tutti quelli, compreso il sottoscritto, ai quali l’originario Canale Mussolini era
piaciuto molto.
Se il Canale primigenio di Antonio Pennacchi l’avevo divorato in
brevissimo tempo (era il 2011, se non erro), intrigato dalle vicissitudini
della famiglia Peruzzi e dagli
sconvolgimenti topografic-agricol-sociali indotti nell’Agro Pontino nel corso
degli anni ’30 del secolo passato, questo seguito non sono riuscito neanche a finire di leggerlo, tanto risulta
lontano dal romanzo di cui costituisce la prosecuzione.
Distante anni luce, una delusione tremenda.
Se nel Canale Mussolini originario le vicende dell’Agro Pontino in epoca
fascista facevano da sfondo al filone principale costituito dalle avventure
dell’esule famiglia Peruzzi, e ciò
completava in modo soddisfacente l’interesse suscitato nel lettore per lo
scoprire l’evoluzione di quelle vicende, in questo Parte Seconda succede il contrario:
l’autore racconta uno sfacelo di fatti, aneddoti, storielle, particolari
relativi alla trasformazione dell’area nel corso e dopo la guerra mischiate ai
quali, in secondo piano, ci sono alcuni fatti della famiglia Peruzzi. Come a
dire che stavolta Pennacchi ha sbagliato
bersaglio. Il rovesciamento delle priorità fa sì che venga a mancare la tensione narrativa e
trasforma la narrazione in un’arida enumerazione di fatti ed episodi che ben
presto stufa e alla fine lascia il tempo che trova.
Tanto per fare un esempio, la trattazione dell’evoluzione
nel tempo della topografia urbana di Littoria
(Latina: qui i fascisti hanno fatto erigere questo, qui gli americani hanno
distrutto quest’altro, qui poi hanno ricostruito quest’altro ancora…) potrebbe
interessare giusto quelli che ci abitano o i geometri del Comune, ma quanto a sprone per continuare la lettura
ne possiede quanto le vicende delle rane che abitano i pochi stagni rimasti
intorno alla città.
I particolari che Pennacchi racconta
saranno anche curiosi e moderatamente interessanti, presi singolarmente, ma
costituiscono una miriade di fatti,
personaggi e singole storielle che ti portano ben presto alla confusione più
totale nella quale, ammesso che ci fosse, ben presto ne perdi il filo logico
conduttore.
In molti hanno anche
criticato l’uso consistente del dialetto
veneto nei dialoghi, ma quello a me non ha dato fastidio: basta entrarci
dentro e dopo le prime frasi che possono lasciare un po’ sbalestrati ci si
abitua e si legge bene anche se siamo più abituati al siciliano o al pisano.
Nel primo Canale Mussolini l’autore aveva saputo
infondere della magia, del fascino nel ripercorrere la tragedia delle povere
famiglie contadine traferite dal Veneto al Lazio, ma la cosa non gli è minimamente
riuscito di ripeterla in questo prosieguo. Viene da pensare, malignamente, che
dal momento che Antonio Pennacchi
aveva raccolto una marea di materiale per scrivere il primo libro, l’editore
non abbia voluto mandarlo sprecato e abbia avuto la bella pensata di tirare su
un po’ di quattrini anche con quello. Che cattivo che sono.
Fatto sta che ne ho protratto
la lettura per diverse sere avanzando di non più di una pagina ogni volta prima
di caderci addormentato sopra, fino
a che ho deciso che non ne valeva proprio la pena di continuare.
Ciao ciao Pennacchi, passiamo
a un Premio Pulitzer che è meglio.
Il Lettore profondamente
deluso
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