Uno degli aspetti della mia
vita di cui non vado molto fiero è quello di essere stato un cacciatore. Va
bene, è successo tra i miei dodici e i quindici anni, quindi più di
quarant’anni fa e in quell’età in cui si capisce ben poco, e non avevo
(ovviamente) nemmeno la licenza, ma le mie alzatacce alle tre di notte insieme
a mio padre le ho fatte, e di prede innocenti ne ho riportate a casa. Purtroppo.
Di quel breve periodo mi è rimasto un rimorso sedimentato, ma anche il piacere
di imbracciare un fucile, che in seguito ho sviluppato in un’ottima capacità di
centrare bersagli inanimati come sagome lontane nei poligoni di tiro o paglioni
nei campi di tiro con l’arco. E al di là della fatica, tra i pochi ricordi
piacevoli dell’anno passato sotto le armi ci sono quelli di sparare con il Garand 7.62 e anche il portarmi a
spasso la mitragliatrice pesante Browning
M2 calibro .50.
Questo per far capire come
questo libro non avrebbe potuto non piacermi.
Questa di Charles Henderson è la biografia romanzata
di Carlos Hathcock, il prototipo e
il più famoso dei tiratori scelti
dell’esercito americano. Dei cosiddetti cecchini,
degli American Snipers, Carlos Hathcock è quello vero.
Poi, dopo che Chris Kyle ha scritto la sua autobiografia (American sniper: The Autobiography of The Most American Sniper in U.S.
Military History) basandosi su questo libro di Henderson e ricalcando la
figura di Hathcock, e dopo che Clint
Eastwood ne ha tratto il film American sniper che è diventato
famoso in tutto il mondo, allora Kyle ha soppiantato Hathcock come “il più
letale” mai esistito. Merito della pubblicità, della risonanza mediatica,
dell’afflusso di quattrini e, non ultimo, del fatto che Kyle è stato realmente
ammazzato da un commilitone dopo aver dato il libro alle stampe (Hathcock è
morto di sclerosi multipla a 56 anni).
Chris
Kyle era un membro dei Navy
Seals e ha operato in Iraq, Carlos
Hathcock era un Marine che ha combattuto in Vietnam, subito dopo la decisione
dei comandi statunitensi di migliorare il rendimento delle unità operative
ottimizzando le capacità di essere letali. Alla fine della seconda guerra
mondiale ci si era accorti di come la media di vittime tra i nemici fosse di
una ogni 15.000 (quindicimila!) proiettili esplosi. Su questa base gli alti
papaveri decisero che c’era troppo spreco e intrapresero una campagna votata al
risparmio sul peso: sostituirono il Garand
(calibro 7.62 ― e le dismissioni furono vendute all’esercito italiano… NdF) con
l’M16 (calibro 5.56), in modo da
consentire al fantaccino di potersi caricare di più munizioni, e istituirono
dei corsi specialistici, tanto per cominciare tra i Marines, per insegnare ai
più dotati a sparare ancora meglio. Il motto che adottarono fu: one
shot, one kill. Erano nati gli american
snipers. Questo per portarsi dietro meno pallottole.
Al di là del messaggio
esplicito di entrambi i libri e del film, che altro non è se non quello dell’esaltazione
dell’eroe americano e per questo criticabile quanto si vuole, nella biografia
di Henderson si può riscontrare una minore enfatizzazione di questo concetto,
con un tentativo di guardare alla vita di Hathcock anche da un punto di vista
più umano. L’autore cerca più volte di spiegare come quello che faceva il
protagonista non fosse altro che un “lavoro”. Lavoro che lo ha portato ad
uccidere più di cento esseri umani, per citare solo quelli “riconosciuti”.
Nemici quanto si vuole, era
una guerra eccetera eccetera, ma lasciamo perdere queste considerazioni
buoniste che qui valutiamo il libro, e i giudizi etici o morali delle ragioni e
delle conseguenze di una guerra le lasciamo ad altre sedi.
Henderson parte dall’infanzia
rurale di Hathcock e cerca di spiegare come le sue doti fisiche e mentali lo
hanno fatto arrivare ad essere uno tra i più temuti nemici dei vietnamiti,
capace di strisciare nel fango per tre giorni interi coprendo la distanza di un
solo chilometro per essere nel posto giusto al momento giusto, o di centrare un
bersaglio alla inimmaginabile distanza di 2200 metri (provate a colpire una
mela situata a “soli” 100 metri da voi, poi ne riparliamo). E la scena del
tiratore che uccide il cecchino nemico infilando il proiettile proprio al
centro dell’ottica montata sul suo fucile, scena che avrete visto diverse volte
(in almeno sette film, e poi fumetti, cartoni animati e serie televisive), è
stata ripresa da un episodio accaduto proprio ad Hathcock. Penna
bianca (era il suo soprannome tra i vietcong)
era il soldato americano con la taglia più alta in assoluto sopra la testa. E
l’autore prosegue poi con il dopo-Vietnam, con gli svariati problemi sia di
salute che psicologici dei quali Hathcock è stato affetto, fino a dare il
quadro completo di una vita vissuta all’insegna della non-normalità.
Un bel libro, scritto bene e
interessante dall’inizio alla fine che mostra un occhio di riguardo nel voler
far apparire Hathcock non tanto un uomo qualunque, quanto un uomo coerente e
sensibile, e degno di considerazione nonostante la sua occupazione retribuita
fosse quella di uccidere gente. Capace anche di gesti altruistici, come quando
l’anfibio sul quale viaggiava esplose su una mina e lui salvò dalla morte sette
soldati che viaggiavano con lui, pur avendo il 90% del corpo ricoperto da
ustioni gravi che gli causarono la fine della carriera militare e parecchi anni
di sofferenze. La bravura di Henderson sta nel fatto che, senza indulgere
nell’esaltazione, riesce a renderti simpatico il protagonista nonostante quello
che egli faccia sia esecrabile.
Il Lettore
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