martedì 7 aprile 2015

Uomini e topi

John Ernst Steinbeck Junior ha scritto questo romanzo subito dopo la grande crisi statunitense del 1929: se lo andiamo a rileggere ora, nel pieno della crisi italiana odierna, possiamo trovarci dentro dei parallelismi deprimenti tra le due situazioni. Ma non disperiamo, che i nostri illuminati governanti continuano a dirci che tutto sta andando bene e la ripresa è alle porte!




In un romanzo di 120 pagine John Steinbeck mette in scena con piglio teatrale la vicenda di Lennie e George, due poveri braccianti che migrano da un lavoro di fatica a un altro sempre con la speranza di un futuro migliore. Lennie è dipinto come un omone dalla forza erculea e dal cervello debole, George come l’amico affezionato che si prende cura dell’ingenuo compagno e cerca di evitargli i guai che potrebbero derivargli dal non saper controllare la sua forza. Nel corso delle peregrinazioni alla ricerca di un lavoro che permetta loro di guadagnare abbastanza per poter rendere reale il loro sogno ― una casetta, un orto, quattro animali da allevare, un coniglio da carezzare ― i due amici si scontrano con la realtà della miseria umana, con le bassezze, con la cattiveria, la prepotenza e la prevaricazione, e l’ineluttabilità di certe scelte che conducono ad un finale tragico attraverso un crescendo che viene lasciato presagire con angoscia.
La bravura di Steinbeck è stata quella di creare una tensione crescente innescata solamente dai fatti che si succedono e dal comportamento dei personaggi, una tensione che monta pian piano del lettore facendogli temere, come infatti succede, che si possa arrivare al dramma. Il tutto utilizzando un linguaggio semplicissimo, con nulla di ricercato, con dialoghi che si susseguono tra gente semplice, di poche pretese e magnificamente caratterizzata. In un susseguirsi di fatti semplici il lettore è preso da vicende intense e commoventi, ma sente che la tragedia è incombente, che qualcosa di irrefrenabile è stato innescato e porterà ad un finale che vorrebbe non dover leggere.
Uomini e topi è un romanzo che tutti dovrebbero assaporare e sul quale tutti dovrebbero riflettere.
Purtroppo una pecca del romanzo, a ottant’anni dalla pubblicazione, è la traduzione in italiano che nel 1937 ne è stata fatta da quel sia pur grandissimo scrittore che è stato Cesare Pavese. Probabilmente anche a causa delle imposizioni e delle censure operate dal regime fascista, Pavese ha usato un linguaggio politicamente corretto per l’epoca, ma che al giorno d’oggi non trova più riscontro e per questo appare obsoleto e molte volte perfino impreciso. Insieme a vere e proprie perle in cui il nostro autore lascia emergere tutta la sua vena poetica, a partire dallo stesso incipit, si incontrano periodi che non rendono il tono originale, con significati del tutto travisati come ad esempio “mascalzone” per “son of a bitch - figlio di puttana” o l’ancora più stucchevole “lazzarone” a tradurre l’epiteto “bastard - bastardo”, rendendo di molto meno incisiva l’intenzione dell’autore. Un editore illuminato dovrebbe prendersi la briga di farlo ritradurre, le nuove generazioni ci guadagnerebbero.
Così come qui da noi ora, anche subito dopo il 1929 negli Usa c’erano una miriade di persone che non sapevano dove sbattere la testa, al punto che in molti hanno scelto di sbatterla direttamente sul marciapiede dopo un volo di qualche piano. Le scelte dei governanti americani di allora, seppure opinabili, in effetti hanno permesso il risollevamento di una situazione disastrata nel giro di pochi anni, mentre qui continuiamo a trastullarci con discutibili placebo e diciamo che va tutto bene. E aumentiamo le tasse.
E non abbiamo nemmeno degli Steinbeck che possano far vedere a tutti com’è veramente la realtà.
Il Lettore 

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