John
Ernst Steinbeck Junior ha
scritto questo romanzo subito dopo la grande crisi statunitense del 1929: se lo
andiamo a rileggere ora, nel pieno della crisi italiana odierna, possiamo
trovarci dentro dei parallelismi deprimenti tra le due situazioni. Ma non
disperiamo, che i nostri illuminati governanti continuano a dirci che tutto sta
andando bene e la ripresa è alle porte!
In un romanzo di 120 pagine John Steinbeck mette in scena con
piglio teatrale la vicenda di Lennie
e George, due poveri braccianti che
migrano da un lavoro di fatica a un altro sempre con la speranza di un futuro
migliore. Lennie è dipinto come un omone dalla forza erculea e dal cervello
debole, George come l’amico affezionato che si prende cura dell’ingenuo
compagno e cerca di evitargli i guai che potrebbero derivargli dal non saper
controllare la sua forza. Nel corso delle peregrinazioni alla ricerca di un
lavoro che permetta loro di guadagnare abbastanza per poter rendere reale il
loro sogno ― una casetta, un orto, quattro animali da allevare, un coniglio da
carezzare ― i due amici si scontrano con la realtà della miseria umana, con le
bassezze, con la cattiveria, la prepotenza e la prevaricazione, e
l’ineluttabilità di certe scelte che conducono ad un finale tragico attraverso
un crescendo che viene lasciato presagire con angoscia.
La bravura di Steinbeck è
stata quella di creare una tensione crescente innescata solamente dai fatti che
si succedono e dal comportamento dei personaggi, una tensione che monta pian
piano del lettore facendogli temere, come infatti succede, che si possa
arrivare al dramma. Il tutto utilizzando un linguaggio semplicissimo, con nulla
di ricercato, con dialoghi che si susseguono tra gente semplice, di poche
pretese e magnificamente caratterizzata. In un susseguirsi di fatti semplici il
lettore è preso da vicende intense e commoventi, ma sente che la tragedia è
incombente, che qualcosa di irrefrenabile è stato innescato e porterà ad un
finale che vorrebbe non dover leggere.
Uomini
e topi è un romanzo che
tutti dovrebbero assaporare e sul quale tutti dovrebbero riflettere.
Purtroppo una pecca del
romanzo, a ottant’anni dalla pubblicazione, è la traduzione in italiano che nel
1937 ne è stata fatta da quel sia pur grandissimo scrittore che è stato Cesare Pavese. Probabilmente anche a
causa delle imposizioni e delle censure operate dal regime fascista, Pavese ha
usato un linguaggio politicamente corretto per l’epoca, ma che al giorno d’oggi
non trova più riscontro e per questo appare obsoleto e molte volte perfino
impreciso. Insieme a vere e proprie perle in cui il nostro autore lascia
emergere tutta la sua vena poetica, a partire dallo stesso incipit, si incontrano periodi che non rendono il tono originale,
con significati del tutto travisati come ad esempio “mascalzone” per “son of a bitch - figlio di puttana” o
l’ancora più stucchevole “lazzarone” a tradurre l’epiteto “bastard - bastardo”, rendendo di molto meno incisiva l’intenzione
dell’autore. Un editore illuminato dovrebbe prendersi la briga di farlo
ritradurre, le nuove generazioni ci guadagnerebbero.
Così come qui da noi ora,
anche subito dopo il 1929 negli Usa c’erano una miriade di persone che non
sapevano dove sbattere la testa, al punto che in molti hanno scelto di sbatterla
direttamente sul marciapiede dopo un volo di qualche piano. Le scelte dei
governanti americani di allora, seppure opinabili, in effetti hanno permesso il
risollevamento di una situazione disastrata nel giro di pochi anni, mentre qui
continuiamo a trastullarci con discutibili placebo e diciamo che va tutto bene.
E aumentiamo le tasse.
E non abbiamo nemmeno degli
Steinbeck che possano far vedere a tutti com’è veramente la realtà.
Il Lettore
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