mercoledì 31 dicembre 2014

Il signore delle vigne

È l’ultimo giorno dell’anno, e sarò veramente contento domani di mettere un cinque al posto del quattro: checché ne dicano Renzi e Facebook, con tutti i loro tentativi di farci credere che abbiamo passato mesi meravigliosi, questo è stato veramente un anno di merda. Auguri per il prossimo. Ma veniamo a noi.
Com’era che si intitolava quel film con… quell’attore… sì, quello australiano… no, neozelandese… che piace alle donne… che è stato nominato miglior attore per aver sostenuto il ruolo del genio schizofrenico… ah, sì, Russell Crowe, e il film era Un’ottima annata, diretto da quell’altro genio di Ridley Scott.
Ecco, si sarebbe potuto dire che il film di Scott avrebbe potuto essere stato tratto da questo libro di Noah Gordon (e non da quello di Peter Mayle come è in realtà), con qualche libertà d’artista, se non fosse che il film è uscito nelle sale nel 2006 e il libro è stato pubblicato nel 2007. Ma più o meno il succo (tanto per restare in tema) è quello.



Di Noah Gordon avevo già letto, diversi anni fa,  MedicusLo Sciamano e Il medico di Saragozza, in pratica tutti i libri con i quali è diventato famoso, e li avevo trovati molto piacevoli. Sono tutti romanzi in cui la tematica principale è la medicina: sono storie di uomini in diverse epoche e diverse ambientazioni che in una forma o nell’altra hanno dedicato la propria vita a curare il prossimo.

Anche questo Il signore delle vigne è la storia di un uomo con una passione, che in questo caso non è la medicina ma l’uva. Siamo nella Spagna della seconda metà del diciannovesimo secolo, una nazione dilaniata da guerre civili e lotte per il potere, e Josep Alvarez è un povero contadino che suo malgrado si trova invischiato in pericolose tresche politiche che lo costringono a scappare per qualche anno in Francia, dove impara a raffinare l’arte della coltivazione delle vigne. Una volta tornato nel paese natìo, Josep transita per diverse peripezie fino a coronare il suo sogno di riuscire ad ottenere del buon vino dai rachitici vitigni del suo arido pezzetto di terra.
Un buon romanzo, forse con situazioni più o meno già viste o lette da qualche altra parte e senza nulla di particolarmente eclatante, che si legge comunque molto bene per merito di uno stile votato all’essenziale e una profonda conoscenza della contestualizzazione. Il modo di vivere, i costumi e le usanze della Catalogna del 1870 sono perfettamente credibili e le ambientazioni rigorose, così come del resto il quadro storico e sociale dell’epoca. L’altra sera l’ho letto per tre ore sotto il piumone senza che fossi stroncato dal sonno, e questo è un chiaro indice di un testo che vale.
Ma l’essenzialità della scrittura ha portato anche un leggero difetto, più una sensazione che altro: ho notato cioè una sottile freddezza, un accenno di estraniazione dello scrittore dalla pagina, un frenare passioni e coinvolgimento in favore di una narrazione distaccata e del tutto mirata alla storia. In pratica una scrittura da professionista puro, i sentimenti del quale sono attentamente nascosti e mai rivelati. Considerando che il romanzo è stato scritto alla ragguardevole età di ottant’anni, direi che l’autore ha avuto un considerevole lasso di tempo per fare esperienza.
Se lo vogliamo chiamare difetto…
Il Lettore

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