martedì 18 novembre 2014

Il cardellino

Ovviamente l’indizio nascosto nello Squizzalibro di domenica era la frase: Il quadro di un certo tipo di società… che richiama il titolo del romanzo che a sua volta è costituito dal nome di un famoso quadro dell’olandese Carel Fabritius il quale, a detta dei più grandi pittori della sua epoca, è stato il più grande pittore di tutti i tempi.
Questo libro occupa un posto particolare nella mia personale casistica libraria: è il primo libro che ho letto interamente sul telefono cellulare. Devo dire che non è stato poi nemmeno tanto ostico – lo schermo dell’essequattro non è poi così piccolo e dopo i primi minuti ci si fa subito l’abitudine – e l’enorme comodità di averlo sempre a portata di mano ti permette di dedicarti alla lettura in qualsiasi luogo e in tutti i ritagli di tempo.
E di ritagli ce ne vogliono, per leggersi tutte le novecento pagine del romanzo. È per questo che l’ho voluto finire a tutti i costi, solo per dire che ho letto per intero un romanzo sul telefono (ahh, contento tu…).
Certo, avrei potuto scegliere di meglio…



Il cardellino ha vinto il Premio Pulitzer 2014, e se me ne domandaste la ragione potrei rispondervi: perché l’autrice è raccomandata, oppure: perché l’ha data a qualcuno della giuria, senza temere di allontanarmi di molto dalla verità, perché di ragioni sostanziali per le quali un romanzo del genere possa aver vinto un premio importante come il Pulitzer, io nel romanzo non ne ho trovate. Anzi.

Non che la scrittura faccia schifo, me ne guarderei bene dal dirlo. Del resto, se così fosse stato lo avrei davvero abbandonato prima del termine. Donna Tartt possiede uno stile interessante, dai lunghi periodi ricchi di subordinate che però scorrono molto fluidamente e permettono una lettura agevole. Ma lunga. Luunga. Luuunga. Luuunghiiissiiimaaa. Talmente prolissa che nelle prime cento pagine non hai idea di dove voglia andare a parare, ma sei coinvolto dallo stile pacato, dilatato, discorsivo, ricchissimo di particolari e di chiarimenti sugli stati d’animo dei protagonisti, di spunti interessanti sulla storia dell’arte e sui pregi dell’antiquariato e di dotte analisi sui trattamenti psicologici post-traumatici.
Ma da qui a meritare di vincere quel premio…
La storia è quella di Theo Decker, un tredicenne a cui muore la madre (ma per dircelo l’autrice ci impiega cento pagine) e succedono un po’ di vicissitudini che lo fanno assomigliare di volta in volta a un personaggio di Dickens, poi di Salinger e quindi di Kerouac, con un po’ di Bukowski e un pizzico di Tarantino, ma questo del tutto fuori luogo. Ciò in cui secondo me la Tartt ha peccato è l’organizzazione della struttura del romanzo, il cui ritmo è interrotto da variazioni che di volta in volta lo peggiorano.
Non puoi scrivere 600 (seicento!) pagine raccontando per filo e per segno ogni ora della giornata del protagonista, tutti i suoi pensieri e quante volte al giorno si soffia il naso (per ripulirlo dalla coca…), e poi di colpo saltare otto anni e riassumerli in due parole! Non puoi impiegare pagine su pagine per descrivere i minimi particolari di una festa di matrimonio e utilizzare lo stesso ritmo per una scena d’azione. Non puoi soffermarti per pagine e pagine su una conversazione telefonica in cui si sviscerano tutti i più reconditi aspetti burocratici per il rilascio di un passaporto sostituivo! Ma chissenefrega! Così come stufa il tormentone della tossico-dipendenza del protagonista. Dopo un po’ basta, l’abbiamo capito, e non è che sia proprio edificante!
Il cambio di registro poco dopo la metà mi ha dato molto fastidio: se prima il romanzo era lento ma possedeva un certo fascino, dopo il salto di otto anni è diventato francamente insopportabile, peggiorando man mano nel proseguire verso la fine. Ma all’autrice non glielo avrà fatto notare nessuno? E sì che ha avuto anni interi per sentire pareri. Com’è possibile che nessuno le abbia messo la pulce nell’orecchio, prima della pubblicazione, di aver scritto sì alcune pagine molto belle, ma anche molte pagine noiosissime o dialoghi inutili che si trascinano per troppo tempo?
Per me i pregi si fermano all’adolescenza di Theo, e tutta la parte da pagina 600 in poi se non proprio da buttare è in netto calando. Ma dando uno sguardo in rete si trovano anche molte recensioni entusiastiche che inneggiano proprio al finale (che come ripeto ho trovato noiosissimo), e ciò è l’ennesima conferma di quanto tutto ciò che si dica è soggettivo.
Alcuni personaggi, come Hobie, sono interessanti e ben delineati; altri alla fine ti stufano, come Boris, e altri ancora sarebbero stati da approfondire, come Horst, per le potenzialità che avrebbero potuto offrire. Di alcuni poi non si sa più che fine facciano e anche questo è un difetto non trascurabile.
Se anche la Tartt avesse voluto inserire nel romanzo qualche profonda morale, questa si sarebbe ormai perduta nella logorrèa esasperante di cui ha condito il tutto. Da questo romanzo un bravo editor  riuscirebbe a tagliare almeno tre o quattrocento pagine, rendendolo sicuramente migliore.
Il Lettore 

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