Ovviamente l’indizio nascosto nello Squizzalibro di domenica era la frase: Il quadro di un certo tipo di società…
che richiama il titolo del romanzo che a sua volta è costituito dal nome di un
famoso quadro dell’olandese Carel Fabritius il quale, a detta dei
più grandi pittori della sua epoca, è stato il più grande pittore di tutti i
tempi.
Questo libro occupa un
posto particolare nella mia personale casistica libraria: è il primo libro che ho letto interamente
sul telefono cellulare. Devo dire
che non è stato poi nemmeno tanto ostico – lo schermo dell’essequattro non è
poi così piccolo e dopo i primi minuti ci si fa subito l’abitudine – e l’enorme
comodità di averlo sempre a portata di mano ti permette di dedicarti alla
lettura in qualsiasi luogo e in tutti i ritagli di tempo.
E di ritagli ce ne
vogliono, per leggersi tutte le novecento
pagine del romanzo. È per questo che l’ho voluto finire a tutti i costi, solo
per dire che ho letto per intero un romanzo sul telefono (ahh, contento tu…).
Certo, avrei potuto
scegliere di meglio…
Il
cardellino ha vinto il Premio Pulitzer 2014, e se me ne
domandaste la ragione potrei rispondervi: perché
l’autrice è raccomandata, oppure: perché
l’ha data a qualcuno della giuria, senza temere di allontanarmi di molto
dalla verità, perché di ragioni sostanziali per le quali un romanzo del genere
possa aver vinto un premio importante come il Pulitzer, io nel romanzo non ne
ho trovate. Anzi.
Non che la scrittura faccia
schifo, me ne guarderei bene dal dirlo. Del resto, se così fosse stato lo avrei
davvero abbandonato prima del termine. Donna
Tartt possiede uno stile interessante, dai lunghi periodi ricchi di
subordinate che però scorrono molto fluidamente e permettono una lettura
agevole. Ma lunga. Luunga. Luuunga. Luuunghiiissiiimaaa. Talmente prolissa che
nelle prime cento pagine non hai idea di dove voglia andare a parare, ma sei
coinvolto dallo stile pacato, dilatato, discorsivo, ricchissimo di particolari
e di chiarimenti sugli stati d’animo dei protagonisti, di spunti interessanti
sulla storia dell’arte e sui pregi dell’antiquariato e di dotte analisi sui
trattamenti psicologici post-traumatici.
Ma da qui a meritare di vincere
quel premio…
La storia è quella di Theo Decker, un tredicenne a cui muore
la madre (ma per dircelo l’autrice ci impiega cento pagine) e succedono un po’
di vicissitudini che lo fanno assomigliare di volta in volta a un personaggio
di Dickens, poi di Salinger e quindi di Kerouac, con un po’ di Bukowski e un
pizzico di Tarantino, ma questo del tutto fuori luogo. Ciò in cui secondo me la
Tartt ha peccato è l’organizzazione della struttura del romanzo, il cui ritmo è
interrotto da variazioni che di volta in volta lo peggiorano.
Non puoi scrivere 600
(seicento!) pagine raccontando per filo e per segno ogni ora della giornata del
protagonista, tutti i suoi pensieri e quante volte al giorno si soffia il naso
(per ripulirlo dalla coca…), e poi di colpo saltare otto anni e riassumerli in
due parole! Non puoi impiegare pagine su pagine per descrivere i minimi
particolari di una festa di matrimonio e utilizzare lo stesso ritmo per una
scena d’azione. Non puoi soffermarti per pagine e pagine su una conversazione
telefonica in cui si sviscerano tutti i più reconditi aspetti burocratici per
il rilascio di un passaporto sostituivo! Ma chissenefrega! Così come stufa il
tormentone della tossico-dipendenza del protagonista. Dopo un po’ basta,
l’abbiamo capito, e non è che sia proprio edificante!
Il cambio di registro poco
dopo la metà mi ha dato molto fastidio: se prima il romanzo era lento ma
possedeva un certo fascino, dopo il salto di otto anni è diventato francamente
insopportabile, peggiorando man mano nel proseguire verso la fine. Ma
all’autrice non glielo avrà fatto notare nessuno? E sì che ha avuto anni interi
per sentire pareri. Com’è possibile che nessuno le abbia messo la pulce
nell’orecchio, prima della pubblicazione, di aver scritto sì alcune pagine
molto belle, ma anche molte pagine noiosissime o dialoghi inutili che si
trascinano per troppo tempo?
Per me i pregi si fermano
all’adolescenza di Theo, e tutta la parte da pagina 600 in poi se non proprio
da buttare è in netto calando. Ma dando uno sguardo in rete si trovano anche
molte recensioni entusiastiche che inneggiano proprio al finale (che come
ripeto ho trovato noiosissimo), e ciò è l’ennesima conferma di quanto tutto ciò
che si dica è soggettivo.
Alcuni personaggi, come Hobie, sono interessanti e ben
delineati; altri alla fine ti stufano, come Boris, e altri ancora sarebbero stati da approfondire, come Horst, per le potenzialità che avrebbero
potuto offrire. Di alcuni poi non si sa più che fine facciano e anche questo è
un difetto non trascurabile.
Se anche la Tartt avesse
voluto inserire nel romanzo qualche profonda morale, questa si sarebbe ormai
perduta nella logorrèa esasperante di cui ha condito il tutto. Da questo
romanzo un bravo editor riuscirebbe a tagliare almeno tre o
quattrocento pagine, rendendolo sicuramente migliore.
Il Lettore
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