martedì 28 gennaio 2014

La casa dalle finestre nere

Anche in questo caso, se proprio un difetto vogliamo andarcelo a trovare, in questo romanzo di Clifford Simak del 1963, possiamo puntare un occhio bonario sull’ingenuità con cui l’autore guarda alla possibilità dello scontro nucleare tra superpotenze che in quel periodo angosciava mezzo mondo. Basta. Per il resto, il romanzo rimane ancora oggi uno dei massimi capolavori di fantascienza che siano mai stati scritti: soddisferebbe anche quei lettori che non amano questo genere di letteratura.


Clifford Donald Simak è considerato uno dei massimi autori di Science fiction di sempre, anche se non ha avuto il seguito di mostri sacri come Isaac Asimov, Ray Bradbury o Arthur Clarke, ma con le sue opere ha saputo dare origine ad una cerchia consistente di  appassionati che ne hanno fatto un vero e proprio autore di culto. Un po’ quello che è successo anche a Walter Tevis o Richard Matheson.
Questo perché nello scrivere Simak ha sempre tenuto presente temi degni di attenzione, come lo scontro uomo/natura e la dicotomia esistente tra progresso e tecnologia da una parte e valori umani dall’altra, e li ha stesi con la finezza che gli è propria dotandoli di quella consistente carica di fascino che ha reso famosi romanzi come Anni senza fine, Mastodonia, Pellegrinaggio vietato, Fuga dal futuro e altri.
Anche se il titolo può far pensare ad un classico dell’horror, La casa dalle finestre nere si dipana sulla base del concetto di un possibile contatto di noi terrestri con civiltà aliene, dipinte in questo caso da Simak con un positivismo di fondo che infonde una nota di roseo ottimismo alla storia e alle sue conclusioni. Nel romanzo le figure dei personaggi sono tratteggiate con un garbo squisito che sfocia a volte nella poesia, rendendo la lettura semplice e fresca e suscitando continui spunti di curiosità.
La tensione narrativa è innescata dall’autore fin dal primo capitolo, nel quale non appare il protagonista ma due personaggi che si interrogano sulle possibili ragioni per le quali un certo Enoch Wallace, stando ai documenti, sembra avere la rispettabile età di 130 anni con l’aspetto di un uomo di 30. È vero che Wallace è un tipo tranquillo e conduce una vita da eremita senza infastidire nessuno, ma simili discrepanze prima o poi saltano fuori, soprattutto agli occhi di un governo che come tutti i governi non si fa mai gli affari propri e deve continuamente rompere le scatole ai cittadini tranquilli. Il far entrare in scena il protagonista solo nel quinto capitolo ricalca quella tecnica che Umberto Eco descrive benissimo nella sua analisi critica della prima tavola del fumetto Steve Canyon di Milton Caniff, apparsa in Apocalittici e Integrati: aumentare la curiosità del lettore attraverso un “ritardare l’aspettativa”, cioè inquadrare il protagonista dapprima attraverso riferimenti di comprimari, e quindi farlo apparire solo in seguito.
È una tecnica interessante: si dà inizio alla storia definendo un gruppo di personaggi e tramite essi si accenna al protagonista e si promette un seguito, creando in definitiva una suspence anche senza colpi di scena e suscitando nel lettore l’avidità di sapere come la storia prosegua.
E quando finalmente la vicenda è vista dagli occhi di Wallace il lettore viene a conoscenza della soluzione agli enigmi che assillano i personaggi di contorno: il protagonista è il responsabile di una “stazione di transito” intergalattica, una specie di punto di appoggio per viaggiatori interstellari nel quale fanno scalo alieni che si spostano da un pianeta all’altro, prendendosi un momento di riposo sulla Terra come noi potremmo scendere a prendere un caffè a Roma Termini mentre stiamo andando a Napoli. Già questo è un ottimo punto di partenza per poter caratterizzare personaggi e civiltà aliene, senza contare che, come in tutte le trame che si rispettano, la vicenda sarà complicata dall’insorgenza di un grosso problema e dai tentativi per una soddisfacente risoluzione.
Gran romanzo, mi ha fatto venire voglia di rileggere anche gli altri di Simak.
Il Lettore

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