Anche in questo caso, se
proprio un difetto vogliamo andarcelo a trovare, in questo romanzo di Clifford Simak del 1963, possiamo puntare un occhio
bonario sull’ingenuità con cui l’autore guarda alla possibilità dello scontro
nucleare tra superpotenze che in quel periodo angosciava mezzo mondo. Basta.
Per il resto, il romanzo rimane ancora oggi uno dei massimi capolavori di
fantascienza che siano mai stati scritti: soddisferebbe anche quei lettori che
non amano questo genere di letteratura.
Clifford
Donald Simak è
considerato uno dei massimi autori di Science fiction di sempre, anche se non
ha avuto il seguito di mostri sacri come Isaac
Asimov, Ray Bradbury o Arthur Clarke, ma con le sue opere ha
saputo dare origine ad una cerchia consistente di appassionati che ne hanno fatto un vero e
proprio autore di culto. Un po’ quello che è successo anche a Walter Tevis o Richard Matheson.
Questo perché nello
scrivere Simak ha sempre tenuto presente temi degni di attenzione, come lo scontro
uomo/natura e la dicotomia esistente tra progresso e tecnologia da una parte e
valori umani dall’altra, e li ha stesi con la finezza che gli è propria
dotandoli di quella consistente carica di fascino che ha reso famosi romanzi
come Anni senza fine, Mastodonia, Pellegrinaggio vietato, Fuga
dal futuro e altri.
Anche se il titolo può far
pensare ad un classico dell’horror, La casa dalle finestre nere si dipana
sulla base del concetto di un possibile contatto di noi terrestri con civiltà
aliene, dipinte in questo caso da Simak con un positivismo di fondo che infonde
una nota di roseo ottimismo alla storia e alle sue conclusioni. Nel romanzo le
figure dei personaggi sono tratteggiate con un garbo squisito che sfocia a
volte nella poesia, rendendo la lettura semplice e fresca e suscitando continui
spunti di curiosità.
La tensione narrativa è
innescata dall’autore fin dal primo capitolo, nel quale non appare il
protagonista ma due personaggi che si interrogano sulle possibili ragioni per
le quali un certo Enoch Wallace, stando
ai documenti, sembra avere la rispettabile età di 130 anni con l’aspetto di un
uomo di 30. È vero che Wallace è un tipo tranquillo e conduce una vita da
eremita senza infastidire nessuno, ma simili discrepanze prima o poi saltano
fuori, soprattutto agli occhi di un governo che come tutti i governi non si fa
mai gli affari propri e deve continuamente rompere le scatole ai cittadini
tranquilli. Il far entrare in scena il protagonista solo nel quinto capitolo
ricalca quella tecnica che Umberto Eco
descrive benissimo nella sua analisi critica della prima tavola del fumetto Steve Canyon di Milton Caniff, apparsa in Apocalittici
e Integrati: aumentare la curiosità del lettore attraverso un “ritardare l’aspettativa”, cioè
inquadrare il protagonista dapprima attraverso riferimenti di comprimari, e quindi
farlo apparire solo in seguito.
È una tecnica interessante:
si dà inizio alla storia definendo un gruppo di personaggi e tramite essi si
accenna al protagonista e si promette un seguito, creando in definitiva una suspence anche senza colpi di scena e
suscitando nel lettore l’avidità di sapere come la storia prosegua.
E quando finalmente la
vicenda è vista dagli occhi di Wallace il lettore viene a conoscenza della
soluzione agli enigmi che assillano i personaggi di contorno: il protagonista è
il responsabile di una “stazione di transito” intergalattica, una specie di
punto di appoggio per viaggiatori interstellari nel quale fanno scalo alieni
che si spostano da un pianeta all’altro, prendendosi un momento di riposo sulla
Terra come noi potremmo scendere a prendere un caffè a Roma Termini mentre
stiamo andando a Napoli. Già questo è un ottimo punto di partenza per poter
caratterizzare personaggi e civiltà aliene, senza contare che, come in tutte le
trame che si rispettano, la vicenda sarà complicata dall’insorgenza di un
grosso problema e dai tentativi per una soddisfacente risoluzione.
Gran romanzo, mi ha fatto
venire voglia di rileggere anche gli altri di Simak.
Il Lettore
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