Attualmente ho in lettura due romanzi impegnativi e abbastanza
lunghi da non poterli terminare in pochi giorni, e di conseguenza sono
costretto a procrastinare la pubblicazione dei relativi post fino al momento in cui li avrò terminati e avrò trovato il
tempo per scriverne. Per non farvi aspettare troppo ho ripescato questo volume ―
tra l’altro devo decidermi a renderlo alla legittima proprietaria ―che avevo
letto qualche tempo fa.
O meglio, avevo tentato, di leggere…
Alcune critiche mosse a Domenico Starnone lo accusano di aver
irrimediabilmente rovinato questo
romanzo nella terza e quarta parte.
Figuriamoci! Terza e quarta parte? Alla terza e quarta parte io non ci sono
nemmeno arrivato vicino! Mi immagino solo come quelle sezioni dovrebbero
essere, per rendere giustificate le critiche, ma non voglio nemmeno pensarci.
L’intenzione di Starnone era
quella di ricostruire la vita di un
anziano intellettuale napoletano trapiantato a Roma solamente attraverso le
proprie esperienze sessuali dall’adolescenza alla vecchiaia e le numerose donne
che hanno incrociato la sua esistenza. A voler attingere alla retorica, di un
tema del genere se ne potrebbe parlare all’infinito, da ogni punto di vista, e
in effetti in molti ne hanno trattato andando a ripescare paroloni e pensieri
stereotipati per giustificare un romanzo che altro non è, secondo me che provo
un senso di nausea al solo sentir
esplicitare concetti retorici, che una palla
megagalattica. Ne sono indicibilmente tediose
pure le critiche, soprattutto quelle positive (pubblicitarie?), pensate un po’!
Sono bastate poche decine di
pagine per far crescere il mio disinteresse
fino a livelli insopportabili che
hanno causato la prematura chiusura del volume non trovandolo, all’epoca,
nemmeno abbastanza coinvolgente da scriverci subito un post sopra.
E sì che la prosa è buona, moderatamente ricercata ma senza
strafare; e sì che c’è anche molto sesso,
di quello che non ti eccita ma ricco di psicologia (dagli con la retorica…); e
sì che ci sono molte parolacce che
dovrebbero renderlo stuzzicante, ma il fatto è che il tutto è confezionato in
un modo che lo rende noiosissimo e
non ti invoglia minimamente nella prosecuzione da una pagina all’altra.
Avrei già dovuto capirlo
dalla smorfia con la quale l’amica
che me lo ha prestato ha accompagnato il porgermelo, alla mia domanda su come
l’avesse trovato, e le smorfie di una docente universitaria qualche significato
concreto ce lo avranno pure. Come a dire: ne ho sentito anche parlare bene, ma…
Ma… Autobiografia erotica di
Aristide Gambìa è una sega immane. La parolaccia la mia amica
non l’ha detta, ma l’ha pensata (sia pure forse in termini eticamente corretti,
da “universitaria”). Io invece l’ho usata anche per essere coerente con il linguaggio dell’autore che di parolacce ne usa
molte, a partire dall’incipit: “Aristide Gambia pensava a volte, in
particolare nei periodi di malinconia, che se avesse obbedito meno al buon
senso e più alle furibonde esigenze del cazzo avrebbe scopato tutti i giorni a
ogni ora dentro qualsiasi buco consenziente, soprattutto nella fica tra le
cosce delle femmine, brodosa o secca, stretta o larga, sporca o profumata.”
Pensiero comune alla
stragrande maggioranza degli uomini, tanto per restare sul retorico. E questo incipit forte è messo lì apposta per stuzzicarti, per scandalizzarti, per
invogliarti a proseguire che tu sia concorde o meno con quel pensiero.
Peccato che poi…
Come cantavano Mina e Alberto Lupo: Parole… Parole…
Parole…
Il Lettore
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