Come diceva qualcun altro,
leggere Graham Greene è sempre un bel leggere. Mi è capitato tra le mani
per caso questo In viaggio con la zia,
e quando il mio sesto senso letterario
mi ha suggerito di iniziarlo non mi sono fatto pregare: una volta girata
l’ultima pagina, appena il giorno dopo, ho ringraziato me stesso per essermi
dato ascolto.
Pochi giorni fa riportavo
il verso della poesia di Browning (vedi) dal quale Gianrico
Carofiglio ha tratto il titolo del suo romanzo Il bordo vertiginoso delle cose. Questo verso era molto caro a Graham Greene perché rispecchiava buona
parte della tematica esplorata nei suoi romanzi: lo considerava una metafora
del sottile crinale che separa il bene dal male, la legalità dall’anarchia, la
vita dalla morte, un’esistenza grigia da un’esistenza movimentata; e nessuno è
al sicuro nelle proprie scelte, perché può sempre intervenire qualcosa di
inaspettato a modificare in maniera sostanziale una realtà consolidata. In
meglio? In peggio? Definitivamente? Non lo potremo mai dire.
È ciò che succede al
protagonista Henry Pulling in questo
romanzo dal quale il regista George
Cukor ha tratto un film di successo con Alec McCowen nel ruolo di Pulling e Maggie Smith in quello di zia
Augusta, interpretazione che le è valsa l’Oscar come miglior attrice
protagonista.
Henry
Pulling è un bancario in
pensione che conduce una vita piatta e monotona. Il funerale della madre, mai
amata davvero, è l’occasione in cui incontra la sorella di lei, quella
settantacinquenne zia Augusta mai
conosciuta in precedenza per ragioni che si scopriranno andando avanti nel
racconto. Per Pulling l’incontro è scioccante,
perché la zia e il suo modo di vivere rappresentano esattamente l’opposto di
quella routine monocorde alla quale
lui si è abituato nel corso di un’intera esistenza, tanto che sarà ben presto
costretto a riconsiderare tutte le convinzioni sulle quali aveva basato
l’intero suo modo di vivere.
L’arzilla zietta conduce
l’attempato “nipote” in una girandola di avventure non propriamente di
specchiata legalità trascinandolo da un capo all’altro del pianeta, e bisogna
togliersi il cappello di fronte a un Graham
Greene che fa raccontare il tutto a Pulling in modo perfetto, con uno stile
e un’ironia britannica densi di un understatement
del quale P. G. Wodehouse sarebbe
stato pienamente soddisfatto. Nella prima parte del libro la figura di Henry Pulling ricorda molto quella
dello Stevens di Quel che resta del giorno (vedi): una
figura talmente convinta dei concetti in cui crede da respingere in blocco
qualsiasi evidenza contraria ai suoi principi, o perlomeno da fare finta di non
accorgersene. Ma andando avanti accadono fatti che incrinano quelle certezze
tanto da portarlo sul bordo vertiginoso
delle cose, fino a riconsiderare tutto ciò su cui aveva impostato il suo
futuro.
Veramente un bel libro:
piacevole, ironico, scorrevole, pieno di significati più o meno nascosti e
concetti lasciati scoprire al lettore piano piano, senza che l’autore li dica,
con un mirabile ricorso all’ellisse. Tanto tempo fa di Graham Greene avevo letto Il
nostro agente all’Avana e quindi, direttamente in inglese per merito dello
stile semplice e lineare, i racconti di Twenty-One
Stories, ma questo mi è piaciuto molto di più.
Forse vi sarete domandati
perché due paragrafi fa ho messo la parola nipote tra virgolette. La risposta
è: per rimarcare una delle ellissi adoperate da Greene. Che significa? Leggete
il libro e lo scoprirete.
Il Lettore
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