mercoledì 24 settembre 2014

In viaggio con la zia

Come diceva qualcun altro, leggere Graham Greene è sempre un bel leggere. Mi è capitato tra le mani per caso questo In viaggio con la zia, e quando il mio sesto senso letterario mi ha suggerito di iniziarlo non mi sono fatto pregare: una volta girata l’ultima pagina, appena il giorno dopo, ho ringraziato me stesso per essermi dato ascolto.


Pochi giorni fa riportavo il verso della poesia di Browning (vedi) dal quale  Gianrico Carofiglio ha tratto il titolo del suo romanzo Il bordo vertiginoso delle cose. Questo verso era molto caro a Graham Greene perché rispecchiava buona parte della tematica esplorata nei suoi romanzi: lo considerava una metafora del sottile crinale che separa il bene dal male, la legalità dall’anarchia, la vita dalla morte, un’esistenza grigia da un’esistenza movimentata; e nessuno è al sicuro nelle proprie scelte, perché può sempre intervenire qualcosa di inaspettato a modificare in maniera sostanziale una realtà consolidata. In meglio? In peggio? Definitivamente? Non lo potremo mai dire.
È ciò che succede al protagonista Henry Pulling in questo romanzo dal quale il regista George Cukor ha tratto un film di successo con Alec McCowen nel ruolo di Pulling e Maggie Smith in quello di zia Augusta, interpretazione che le è valsa l’Oscar come miglior attrice protagonista.
Henry Pulling è un bancario in pensione che conduce una vita piatta e monotona. Il funerale della madre, mai amata davvero, è l’occasione in cui incontra la sorella di lei, quella settantacinquenne zia Augusta mai conosciuta in precedenza per ragioni che si scopriranno andando avanti nel racconto. Per Pulling l’incontro è scioccante, perché la zia e il suo modo di vivere rappresentano esattamente l’opposto di quella routine monocorde alla quale lui si è abituato nel corso di un’intera esistenza, tanto che sarà ben presto costretto a riconsiderare tutte le convinzioni sulle quali aveva basato l’intero suo modo di vivere.
L’arzilla zietta conduce l’attempato “nipote” in una girandola di avventure non propriamente di specchiata legalità trascinandolo da un capo all’altro del pianeta, e bisogna togliersi il cappello di fronte a un Graham Greene che fa raccontare il tutto a Pulling in modo perfetto, con uno stile e un’ironia britannica densi di un understatement del quale P. G. Wodehouse sarebbe stato pienamente soddisfatto. Nella prima parte del libro la figura di Henry Pulling ricorda molto quella dello Stevens di Quel che resta del giorno (vedi): una figura talmente convinta dei concetti in cui crede da respingere in blocco qualsiasi evidenza contraria ai suoi principi, o perlomeno da fare finta di non accorgersene. Ma andando avanti accadono fatti che incrinano quelle certezze tanto da portarlo sul bordo vertiginoso delle cose, fino a riconsiderare tutto ciò su cui aveva impostato il suo futuro.
Veramente un bel libro: piacevole, ironico, scorrevole, pieno di significati più o meno nascosti e concetti lasciati scoprire al lettore piano piano, senza che l’autore li dica, con un mirabile ricorso all’ellisse. Tanto tempo fa di Graham Greene avevo letto Il nostro agente all’Avana e quindi, direttamente in inglese per merito dello stile semplice e lineare, i racconti di Twenty-One Stories, ma questo mi è piaciuto molto di più.
Forse vi sarete domandati perché due paragrafi fa ho messo la parola nipote tra virgolette. La risposta è: per rimarcare una delle ellissi adoperate da Greene. Che significa? Leggete il libro e lo scoprirete.
Il Lettore

Nessun commento:

Posta un commento