Che cosa accadrebbe se
all’improvviso tutta l’umanità, per
ragioni inspiegabili, diventasse cieca?
Semplice: che l’umanità non esisterebbe più.
È questa la domanda che si
pone Josè Saramago in questo che è
uno dei suoi libri più conosciuti. Di punto in bianco le persone cominciano a
non essere più capaci di vedere,
senza alcuna causa apparente. Le autorità pensano dapprima a una malattia
contagiosa e cercano di risolvere il problema internando tutti i ciechi
nell’ipotesi che possano trasmettere quello che loro pensano sia un morbo, ma
ben presto la situazione si fa insostenibile. All’interno dei ghetti le persone
“contagiate” perdono ben presto ogni dignità
umana e si trasformano nell’animale
che si trova nascosto dentro ognuno di noi.
Scritto con uno stile continuo
quasi da flusso di coscienza, in cui i dialoghi
sono separati solo da virgole all’interno di ogni periodo e contrassegnati
dall’iniziale maiuscola di ogni frase, Cecità
è un romanzo estremamente crudo che
narra di uomini che in presenza di un grave problema tornano a un puro stato animalesco, che cercano di sopraffarsi
a vicenda in ogni modo, per quanto è possibile a un cieco, o perlomeno di
sopravvivere, abbandonando qualsiasi progresso fatto in passato sulla strada
della civiltà, costretti a sguazzare nei propri escrementi e nei fetidi odori
di tutti coloro che hanno intorno, e che arrivano a considerare la morte come una liberazione.
Leggendolo, mi ha ricordato i
concetti che avevo espresso in questo post a proposito dei Premi Nobel per
la Letteratura: se intendi aspirare a vincere
il Nobel devi scrivere di e sulle tragedie
più terribili. Ancora meglio anzi se ci metti anche qualcosa sulla religione, o
sul rifiuto della religione: Il Vangelo
secondo Gesù Cristo ha contribuito non poco a far assegnare questo Premio a
Josè Saramago nel 1998.
Tutti i personaggi rinchiusi
nel ghetto prima o poi cadono nell’abiezione,
chi più chi meno, costretti e rassegnati a dover attendere l’elemosina di un
governo che si comporta da tiranno e che non esita a sparare e uccidere chi
tenta di scappare da quelli che non sono altro che luoghi di detenzione. Ben
presto tutta la comunità cade nell’anarchia
in una totale perdita di ogni residuo di umanità.
Qualche citazione dal libro
renderà più chiara l’idea di ciò che Saramago ha voluto rappresentare:
“Se
non siamo capaci di vivere globalmente come persone, almeno facciamo di tutto
per non vivere globalmente come animali.”
“Cecità
è vivere in un mondo dove non vi sia più speranza.”
“Con
le budella in pace chiunque può avere delle idee, discutere, per esempio, se
esista un rapporto diretto fra gli occhi e i sentimenti, o se il senso di
responsabilità sia la naturale conseguenza di una buona visione, ma quando la
tortura incalza, quando il corpo ci fa impazzire di dolore e angoscia, allora
sì, si vede che povero animale siamo.”
“È
di questa pasta che siamo fatti, metà di indifferenza e metà di cattiveria.”
“Non
si può mai sapere in anticipo di cosa siano capaci le persone, bisogna
aspettare, dar tempo al tempo, è il tempo che comanda, il tempo è il compagno
che sta giocando di fronte a noi, e ha in mano tutte le carte del mazzo, a noi
ci tocca inventarci le briscole con la vita, la nostra.”
In parole povere Saramago mette
i protagonisti di fronte a una situazione in cui sono costretti a ritornare a
uno stato bestiale per sopravvivere, e di come la cosiddetta civiltà, o la
barbarie stessa, dipendano in gran parte dalle circostanze nelle quali sei
costretto a vivere.
Gran romanzo, tostissimo e
deprimente e per questo non facile da consumare, ma sicuramente una di quelle
letture che lasciano il segno.
Il Lettore
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