lunedì 13 marzo 2017

Di là dal fiume e tra gli alberi

Per leggere certi libri bisogna raggiungere una certa età.
Questo romanzo dal titolo splendido era l’unica cosa che mi era rimasta da leggere di tutta la produzione hemingwayana, compresi i romanzi postumi, gli articoli, le lettere e le poesie, per non parlare delle biografie che hanno scritto su di lui. E non è che non ci avessi provato. In passato lo avevo preso in mano e iniziato più volte, fermandomi sempre dopo poche pagine perché non lo avevo mai ritenuto abbastanza interessante da consentirmi di proseguire. Nonostante lo desiderassi.
Stavolta sono arrivato in fondo. Posso dire finalmente di aver letto tutto Hemingway.




Ernest Hemingway mette tutto il personaggio “se stesso” in questo libro che nel 1950 viene dato alle stampe dopo dieci anni di silenzio seguiti all’uscita di Per chi suona la campana. Dieci anni in cui ha scritto per i giornali, ha partecipato alla Seconda Guerra Mondiale, ha scorrazzato per l’Oceano Atlantico sulla sua barca a caccia di sottomarini tedeschi e ha effettuato battute di caccia in Africa.
E ce lo mette nel personaggio di un ex generale ― retrocesso al grado di colonnello ― dell’esercito americano che ha partecipato sia alla Prima che alla Seconda Guerra Mondiale e che sta facendo un viaggio in Italia subito dopo la fine di quest’ultima. Richard Cantwell è stato ferito più volte, oltre che con i tedeschi ha combattuto con la gerarchia militare e con l’idiozia umana, e si ritrova deluso e amareggiato e con il cuore che ha già subìto qualche infarto. Nonostante le sue condizioni di salute siano precarie vuole rivedere la città che ama, Venezia, e andare a caccia di anatre in laguna, oltre che passare un po’ di tempo, quello che egli pensa sia l’ultimo, con la donna di cui è innamorato, la diciannovenne Renata.
Di là dal fiume e tra gli alberi è un romanzo che al momento della sua pubblicazione è stato molto criticato soprattutto perché i lettori si aspettavano, dopo dieci anni di attesa, di ritrovare lo stesso Hemingway di Per chi suona la campana, e invece hanno letto di un vecchio soldato triste e innamorato, demotivato, demoralizzato, rassegnato ad attendere la propria morte, in una vicenda nella quale non accade assolutamente nulla e si dipana tra infiniti dialoghi tra Cantwell e Renata nelle calli e negli alberghi di Venezia, persi entrambi in un amore che sanno essere senza futuro.
Non succede nulla, è vero, ma Dio!, come l’ha saputo scrivere!
Ernest Hemingway ha adoperato l’esatto contrario dell’enfatizzazione: ha portato la semplicità di scrittura ai massimi livelli in un inno alla concisione e all’omissione. Leggere i suoi dialoghi è puro piacere, mai scontati o banali, semplici, brevi ed essenziali, con la ripetitività del concetto di amore a marcare l’importanza del sentimento. L’intero romanzo stesso è un atto d’amore, oltre che per la reale Adriana Ivancich (la Renata del romanzo), per Venezia e per l’Italia tutta nella quale lo scrittore si trovava così bene. Una Venezia descritta da maestro: “Mentre camminavano col vento alle spalle e i capelli di lei che sventolavano meglio di qualsiasi bandiera, la ragazza gli chiese, stringendosi a lui: «Mi ami ancora nella luce fredda e cruda del mattino veneziano? È proprio fredda e cruda, vero?» «Ti amo ed è proprio fredda e cruda.» Alla faccia di quegli editor che non sopportano le ripetizioni.
Esplorando i temi dell’amore, della guerra, dell’invecchiamento e della solitudine nell’avvicinarsi della morte, Hemingway ha riempito il libro di simboli e allegorie non esplicitati ma solamente lasciati intuire al lettore. Sembra che voglia dire: se ci arrivi bene, altrimenti chissenefrega, io non sto qui per doverti spiegare.
Quattro anni dopo la pubblicazione di questo romanzo queste stesse tecniche “semplici”, riconfermate in Il vecchio e il mare,  gli frutteranno il Premio Nobel per la letteratura.
È vero che nel romanzo praticamente non c’è azione, ad eccezione di qualche breve racconto di guerra e della caccia alle anatre finale (questa scena non me la sono goduta molto perché sono arrivato ad essere decisamente contro il concetto stesso di caccia, ma c’è da apprezzare comunque il modo in cui E.H., pur essendo stato un accanito cacciatore, tratta con infinita tenerezza gli animali come prede), ma nonostante l’apparente piattezza questo è uno dei libri che una volta letti non si scordano più.
I personaggi di Richard Cantwell e di Renata restano impressi nella memoria in modo indelebile e ci si trova spesso, anche dopo giorni, a rimuginare su qualche passaggio del romanzo  e sulle simbologie che l’autore ha voluto inserirci.
Sarà che una volta passati i cinquanta alla morte cominci a pensarci seriamente, e forse è per questo motivo che un romanzo del genere va letto solo dopo aver lasciato passare un congruo lasso di tempo dalla tappa del mezzo secolo.
Il Lettore 

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