Dal momento che con tutta
probabilità sarà uno dei prossimi Premi
Nobel per la Letteratura ― è in lista già da una decina d’anni insieme ad Haruki Murakami e non si capisce perché
finora questo premio non l’abbiano assegnato a nessuno dei due preferendo anno
dopo anno degli illustri sconosciuti ― e che io ancora non avevo mai letto
nulla di suo, era parecchio tempo che intendevo leggere uno dei romanzi di Philip Roth, e quando ne ho visti alcuni
nella libreria di un’amica ho avuto solo l’imbarazzo della scelta.
Lì per lì mi sono sentito
intimorito dalla mole di Pastorale
americana e dal fatto che fa parte di una trilogia, così ho preferito portarmi
a casa questo Everyman del 2006,
molto più breve, tanto per assaggiare.
Ma che scoperta! Ci sono
parecchi scrittori che scrivono bene, ma sono veramente pochi quelli che
scrivono magnificamente bene.
Con uno stile sublime, in poco più di 120 pagine Philip Roth dipana la storia di un
pubblicitario di successo dalla nascita alla morte, senza mai farne sapere
neppure il nome (cosa di cui mi sono accorto solo una volta terminato il libro),
focalizzando l’attenzione sul decadimento
fisico e psicologico del protagonista che lo conduce pian piano, come succede
per ogni uomo, alla fine dell’esistenza.
“La vecchiaia non è una battaglia: la vecchiaia è un massacro” ci
avverte impietosamente l’autore a pagina 106.
Come potrete immaginare, non
è per nulla un libro allegro, del tutto inadatto
ai depressi. Ma com’è scritto! Roth sa concatenare parole e frasi da vero
professionista, formandoci delle verità assolute che ognuno potrà tragicamente riconoscere
nel proprio vissuto personale o in quello delle persone che gli sono o gli sono
state vicine, tenendo sempre ben presente che dalla battaglia con la morte non si esce mai vincitori.
“Erano
ossa e basta, ossa dentro una bara, ma le loro ossa erano le sue ossa, e lui
andò a mettersi più vicino a quelle ossa che poteva, come se la vicinanza
potesse unirlo a loro e mitigare l’isolamento scaturito dalla perdita del
futuro e ricollegarlo a tutto quello che se n’era andato. (…) La carne si
dilegua, ma le ossa durano. Le ossa erano l’unico conforto che esistesse per
uno che non credeva nell’aldilà e sapeva con certezza che Dio era un’invenzione
e che questa era l’unica vita che avrebbe mai avuto.”
In 120 pagine Roth riesce a
mettere dentro tutta la vita del
protagonista con tutti i suoi errori, i rimpianti, le amarezze, il primo incontro
con la morte e le numerose operazioni chirurgiche alle quali ha dovuto
sottoporsi, i desideri, le angosce e i sentimenti, e tratteggia un quadro esaustivo
anche dei genitori, del fratello, delle sue ex mogli e dei figli, riuscendo a
far apparire reale e dotato di
spessore ognuno di loro. Come solo un grande scrittore sa fare.
Certo non è un libro facile e
spensierato: è un romanzo crudo e denso
di realtà, di quella che fa male, e che prima o poi, chi in un modo chi in un
altro, tutti noi ci troviamo a vivere dal momento che siamo nati. Ma lascia
anche il messaggio che della morte
non bisogna avere paura: in un attimo ci sei e nell’attimo dopo non ci sarai
più, basta, finita lì. Quello che sarebbe da temere, penso io, è solo il
percorso necessario per arrivare a quell’attimo
dopo.
Ma cerchiamo di tornare allegri che è meglio. Nonostante l’argomento
forte è un libro che vi consiglio,
non fosse altro per rendersi conto di come scrive uno situato un gradino sopra. Il prossimo mese
verranno assegnati i Nobel 2016 per la Letteratura: penso che Roth o Murakami lo
meriterebbero in assoluto. Sarò sincero, non mi farebbe piacere vederlo
assegnato a un altro perfetto sconosciuto.
Il Lettore
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