domenica 25 settembre 2016

Everyman

Dal momento che con tutta probabilità sarà uno dei prossimi Premi Nobel per la Letteratura ― è in lista già da una decina d’anni insieme ad Haruki Murakami e non si capisce perché finora questo premio non l’abbiano assegnato a nessuno dei due preferendo anno dopo anno degli illustri sconosciuti ― e che io ancora non avevo mai letto nulla di suo, era parecchio tempo che intendevo leggere uno dei romanzi di Philip Roth, e quando ne ho visti alcuni nella libreria di un’amica ho avuto solo l’imbarazzo della scelta.
Lì per lì mi sono sentito intimorito dalla mole di Pastorale americana e dal fatto che fa parte di una trilogia, così ho preferito portarmi a casa questo Everyman del 2006, molto più breve, tanto per assaggiare.




Ma che scoperta! Ci sono parecchi scrittori che scrivono bene, ma sono veramente pochi quelli che scrivono magnificamente bene.
Con uno stile sublime, in poco più di 120 pagine Philip Roth dipana la storia di un pubblicitario di successo dalla nascita alla morte, senza mai farne sapere neppure il nome (cosa di cui mi sono accorto solo una volta terminato il libro), focalizzando l’attenzione sul decadimento fisico e psicologico del protagonista che lo conduce pian piano, come succede per ogni uomo, alla fine dell’esistenza.
La vecchiaia non è una battaglia: la vecchiaia è un massacro” ci avverte impietosamente l’autore a pagina 106.
Come potrete immaginare, non è per nulla un libro allegro, del tutto inadatto ai depressi. Ma com’è scritto! Roth sa concatenare parole e frasi da vero professionista, formandoci delle verità assolute che ognuno potrà tragicamente riconoscere nel proprio vissuto personale o in quello delle persone che gli sono o gli sono state vicine, tenendo sempre ben presente che dalla battaglia con la morte non si esce mai vincitori.
“Erano ossa e basta, ossa dentro una bara, ma le loro ossa erano le sue ossa, e lui andò a mettersi più vicino a quelle ossa che poteva, come se la vicinanza potesse unirlo a loro e mitigare l’isolamento scaturito dalla perdita del futuro e ricollegarlo a tutto quello che se n’era andato. (…) La carne si dilegua, ma le ossa durano. Le ossa erano l’unico conforto che esistesse per uno che non credeva nell’aldilà e sapeva con certezza che Dio era un’invenzione e che questa era l’unica vita che avrebbe mai avuto.
In 120 pagine Roth riesce a mettere dentro tutta la vita del protagonista con tutti i suoi errori, i rimpianti, le amarezze, il primo incontro con la morte e le numerose operazioni chirurgiche alle quali ha dovuto sottoporsi, i desideri, le angosce e i sentimenti, e tratteggia un quadro esaustivo anche dei genitori, del fratello, delle sue ex mogli e dei figli, riuscendo a far apparire reale e dotato di spessore ognuno di loro. Come solo un grande scrittore sa fare.
Certo non è un libro facile e spensierato: è un romanzo crudo e denso di realtà, di quella che fa male, e che prima o poi, chi in un modo chi in un altro, tutti noi ci troviamo a vivere dal momento che siamo nati. Ma lascia anche il messaggio che della morte non bisogna avere paura: in un attimo ci sei e nell’attimo dopo non ci sarai più, basta, finita lì. Quello che sarebbe da temere, penso io, è solo il percorso necessario per arrivare a quell’attimo dopo.
Ma cerchiamo di tornare allegri che è meglio. Nonostante l’argomento forte è un libro che vi consiglio, non fosse altro per rendersi conto di come scrive uno situato un gradino sopra. Il prossimo mese verranno assegnati i Nobel 2016 per la Letteratura: penso che Roth o Murakami lo meriterebbero in assoluto. Sarò sincero, non mi farebbe piacere vederlo assegnato a un altro perfetto sconosciuto.
Il Lettore 

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