Perché recensisco ora questo
libro dopo… vediamo… almeno trentacinque anni che l’ho letto (e apprezzato)?
Perché l’altro giorno l’hanno citato in una di quelle cagate di classifiche che fanno nei giornali on line inserendolo tra i dieci libri che tutti fingono di aver letto.
Insieme a questo c’erano Il giovane Holden (sopravvalutato, e
fin qui ci può stare); Siddharta
(giudicato noiosissimo (!)); Il vecchio
e il mare (che l’autore della lista rimpiange di aver letto (!!)); La morte a Venezia (non sapendo a cosa
attaccarsi per parlarne male l’autore della lista se la prende con chi
pronuncia il nome dell’autore all’inglese) e alcuni altri.
Anche il romanzo di Robert Maynard Pirsig è giudicato
noiosissimo (!) al punto che l’autore dell’articolo, sedicente giornalista, ammette
di non averlo mai nemmeno terminato.
‘N
ti gusti ‘n ce se sputa,
diciamo qui a Perugia, ed è del tutto vero, del resto nemmeno io sono mai
riuscito ad andare oltre la ventesima pagina de I promessi sposi, ed è vero anche che Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta è uno dei
libri più millantati perché è considerato un cult book, preso come stemma, portato in palma di mano da una
generazione di beatnik, hippies e sessantottini in un periodo in cui le
motociclette e la filosofia Zen erano molto di moda, ma il sentirlo denigrare
alla stregua di un mattone qualsiasi mi ha fatto male. A me è piaciuto, l’ho
letto con interesse e ne ho tratto degli insegnamenti, l’ho consigliato a
qualche amico, e penso che chiunque ne parli male non abbia nemmeno fatto la
fatica di tentare di capire cosa ci fosse scritto dentro.
Ricordo che lo presi appena
pubblicato in Italia, affascinato dal titolo (bellissimo!) e non sapendo ancora
cosa fosse lo Zen, perché all’epoca ero un motociclista appassionato e puro (nel senso che non possedevo
alcuna automobile e me ne andavo in giro estate e inverno, col sole, la pioggia
e la neve sulla mia Honda 450
bicilindrica), e sarò sincero, lì per lì ho pensato che parlasse più che
altro di motociclette. Beata gioventù ignorante!
Pur accorgendomi ben presto
che non era propriamente così, ho proseguito comunque nella lettura e mi sono
lasciato trasportare in quel doppio
viaggio che il protagonista effettua attraverso gli Stati Uniti e
all’interno di se stesso.
È vero, il ritmo è lento, e la modalità di lettura cambia
man mano che si procede nel libro: da un inizio quasi leggero, nel quale i
problemi contingenti fanno sorgere la necessità di partire per tentare di
risolverli, si vedono questi problemi cambiare aspetto, fino a immergersi in
una vera e propria ricerca di risposte alle domande che prima o poi tutti ci
facciamo nella vita, su livelli differenti e con un grado diverso di
profondità, e per le quali ognuno arriva a trovare soluzioni diverse da quelle
di qualsiasi altro.
I problemi relativi alla
manutenzione della motocicletta vengono risolti in modi diversi a seconda della
moto e del carattere del suo pilota: in genere, se si rompe una levetta su una BMW da 15.000 euro (difficile…), il suo
proprietario pretenderà un perfetto e costosissimo ricambio originale pervenuto
dalla Germania, ma se la stessa cosa succede su una Triumph di 15 anni non sarà difficile che il guasto si possa
accomodare con un pezzo di ferro sagomato per l’occasione. E così per i
problemi psicologici di ognuno di noi.
Il protagonista, durante il
viaggio in moto con il figlio, lascia volare il pensiero su questi
interrogativi ed elabora la sua interpretazione della teoria della Metafisica della Qualità, cioè la
ricerca della propria personalità in rapporto con il principio ontologico delle
basi dell’essere, interrogandosi sui principi basilari della vita in una
fusione tra pensiero occidentale e pensiero orientale.
“Il Buddha, il Divino, dimora nel circuito di un calcolatore o negli
ingranaggi del cambio di una moto con lo stesso agio che in cima a una montagna
o nei petali di un fiore” dice Fedro, l’alter
ego del protagonista del libro, e questa frase mi riporta a un altro libro
che ho molto amato qualche tempo più tardi: Il Tao della fisica, nel quale gli stessi concetti vengono
analizzati in maniera più scientifica da Fritjof
Capra, e la stessa commistione tra mentalità occidentale e filosofie
orientali ho potuto apprezzarla anche in Lo
Zen e il tiro con l’arco, un altro stupendo cult book di Eugene Herrigel.
È della ricerca del Divino
che tratta il romanzo, della ricerca dell’Enthousiasmós,
cioè l’entusiasmo da mettere in tutte le cose che si fanno, per mezzo di un
viaggio entro se stessi sotto forma di chautauqua, cioè di conversazioni
rappresentate in teatri ambulanti nelle quali si confrontavano opinioni sui più
svariati argomenti.
Fedro tenta di risolvere i problemi suoi e
quelli del figlio con la riflessione, partendo dalle necessità oggettive del
mezzo su cui stanno viaggiando e sugli aspetti dei luoghi che stanno
attraversando, e per sopravvivere a se stessi in modo dignitoso cerca di farlo
con tutto l’enthousiasmós che gli è possibile.
Per quanto ad un impatto
superficiale possa apparire ingannevolmente
noioso, e ripeto: ingannevolmente, non penso che un testo del genere possa
essere liquidato con la leggerezza da incompetente che adopera l’autore
dell’articolo.
Anzi, scrivere questo post mi
ha fatto venire una certa voglia di rileggerlo… dopo quasi quarant’anni… quasi
quasi…
Il Lettore
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