Prima del diciannovesimo
secolo di donne pittrici ne sono rimaste famose poche. Anzi, probabilmente Artemisia Gentileschi è la prima donna
che sia giunta agli apici della fama nel campo della pittura. Questo perché per secoli, e complice esecrabile la Chiesa
cattolica, la condizione della donna
è stata relegata a quella di strumento
di lavoro e di piacere per l’uomo. Una piaga sociale che non si è ancora finito
di combattere. Con questo non voglio dire che io sia favorevole all’innalzamento
delle quote rosa: ritengo che nel
genere femminile ci sia esattamente la stessa percentuale di imbecilli che nel
genere maschile, e di conseguenza un aumento del numero di donne tra i politici
lascerebbe del tutto invariato il livello di incompetenza.
Ma torniamo in tema.
Susan
Vreeland racconta la
storia di Artemisia Gentileschi,
donna che ha cercato di farsi valere in un mondo in cui veniva data importanza
solamente agli uomini, facendola narrare da lei stessa in prima persona in
un’autobiografia che privilegia l’aspetto romanzesco e calca la mano nel
denunciare la condizione della donna nel 1600, ma sottolinea anche la
psicologia femminile nell’interpretare le situazioni, le tecniche, e
soprattutto i sentimenti che dovevano essere rappresentati nei quadri.
Il risultato è un po’ come il
realismo caravaggesco (il Caravaggio
frequentava spesso casa Gentileschi) che Artemisia ha preso come ispirazione
per le sue tele: denso di pathos ma non scevro di una certa retorica, indotta
più che altro dalla costrizione dovuta al dover rappresentare determinati
soggetti; buon racconto ma manieristico, che mi ha dato il sapore di un romanzo
rosa (seppur ricco di tragedia) condito di molti trucchi atti a far intenerire
il lettore e soprattutto la lettrice. Ma in fondo si legge bene ed è
scorrevole, anche se per dare spazio agli aspetti romanzati la Vreeland ha leggermente modificato la realtà dei
fatti e ha condito il tutto con una spolverata della melensaggine che piace
tanto a un certo tipo di donne.
Stuprata da un amico di famiglia, tradita negli affetti dallo stesso
padre Orazio, torturata in un
processo-farsa non dissimile da quelli cui sono sottoposte ancora oggi le donne
oggetto di violenze, reiteratamente cornificata
dal marito, delusa dagli interessi frivoli
della figlia, Artemisia tenta di farsi strada nel mondo dell’arte tra forti
osteggiamenti e pregiudizi. Ma la bravura c’è, e riesce ad arrivare ad essere
ammirata da personaggi famosi come Cosimo
de Medici, dal pronipote di Michelangelo
Buonarroti (che le regala pure un pennello appartenuto al celeberrimo
prozio) e Galileo Galilei che la
prende in simpatia prima di essere travolto dalle accuse di eresia (la Bibbia
dice che il sole è puro a immagine di Dio, quindi è impossibile che ci possano essere sopra le macchie che tu dici di
vedere con le tue lenti, no? Eehh, birichino di un Galileo…).
Nel romanzo la protagonista
ha una sola figlia, mentre nella realtà ne ebbe quattro dal marito Pierantonio Stiattesi, e c’è una forte
discordanza di date nel succedersi delle sue permanenze nelle varie città
italiane e Greenwich, ma in fondo tutto ciò interessa marginalmente coloro che
si vogliono solo gustare un buon romanzo, solo che la Vreeland altera anche i
ritmi di lettura concedendo ad esempio molto spazio agli avvenimenti svoltisi a
Roma, Firenze o Genova e quasi sorvolando sulle permanenze a Venezia e Napoli.
I sentimenti e i desideri di riscatto
della condizione femminile vengono però sempre tenuti in primo piano insieme ai
combattimenti interiori tra l’orgoglio e il riuscire a perdonare coloro che ti
hanno inflitto dei torti, e il succo del romanzo sta proprio nel capitolo
finale in cui la protagonista resta indecisa fino all’ultimo sull’opportunità
di riavvicinarsi al padre morente, colui che le ha insegnato tutta la sua arte
per poi tradirla, o abbandonarlo al suo destino.
Sicuramente un libro
apprezzato molto di più dal gentil sesso che da un burbero maschiaccio come me,
ma devo dire che in fondo non l’ho trovato poi così malaccio. Sarà che alle
rappresentazioni bibliche ho sempre preferito l’impressionismo, ma se Artemisia Gentileschi fosse vissuta trecento anni più tardi, con la sua
passione per i colori accesi sarebbe riuscita a dare dei punti anche a una Georgia O’Keeffe.
Il Lettore
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