Quanto tempo era che non
leggevo Hermann Hesse!
Di sicuro più di venticinque
anni. Dopo aver letto, a cavallo dei vent’anni, una buona parte dei suoi libri:
da Siddharta a Il gioco delle perle di vetro (tanto per citarne solo due, rigorosamente
in ordine cronologico ma anche di numero
di pagine), ho lasciato passare veramente tanto tempo prima di riprendere in
mano questo Viaggio in India del 1913 che
costituisce un prodromo della sua produzione più celebre.
In realtà Hesse aveva
cominciato a scrivere fin da prima
che scoccasse il 1900, ma delle opere antecedenti questo diario di viaggio è restato
famoso solo il Peter Camenzind. Un
viaggio che lo scrittore tedesco ha iniziato appena compiuti i trent’anni sulla
scia delle esperienze di genitori e nonni: ci sono uomini che, non sopportando
più l’atmosfera di una casa affollata di moglie e tre figli piccoli, cominciano
a giocare a bridge, Hesse si è preso
una pausa di riflessione trasferendosi dall’altra parte del mondo. Ma poi è
tornato a casa (a differenza di altri), e si è messo a scrivere sul serio fino
a ottenere il Nobel nel 1946.
Questo Viaggio in India è stato un po’ una sorpresa: ho scoperto un Hermann Hesse più semplice per non dire
terra terra, meno maturo di colui al quale ero abituato e più legato alle cose di
vita comune, fosse una buona cena o una sigaretta, sempre riflessivo e acuto
nelle sue considerazioni ma lontano dalle atmosfere magiche e misteriose de Il lupo della steppa o dalla
spiritualità di Narciso e Boccadoro.
Del resto, forse, il tema del contrasto tra natura e spirito si è evoluto in
Hesse anche grazie a questo viaggio in cui, come molti occidentali, ha voluto
toccare con mano le differenze tra la cultura europea e quella asiatica, e del
quale si sente poi traccia in tutte le sue opere successive.
Più volte, leggendo, per come
riporta la cronistoria dei luoghi visitati e degli incontri che lo hanno
colpito inserendovi le sue considerazioni, mi ha ricordato Tiziano Terzani, che come Hesse era rimasto affascinato dall’Oriente
e vi ha ambientato le sue peregrinazioni diverse decine di anni dopo fino a scriverci sopra
parecchi libri. Anche a distanza di tanti anni gli ambienti descritti sono analoghi,
quasi immutati gli usi e i costumi, a testimonianza di abitudini radicate da
secoli in un mondo del tutto diverso dal nostro che i due scrittori hanno
narrato in modo sorprendentemente simile.
Lo stile di Hesse è più “grezzo” rispetto a quello che ricordavo, ma l’ultimo
libro suo che avevo letto era stato proprio il “Gioco” del quale avevo ancora
in mente la prosa adamantina, e cinquant’anni di differenza tra le due stesure costituiscono
una notevole differenza. A parte il fatto che molte piccole stonature
potrebbero essere imputabili alla traduzione risalente agli anni ’70:
“La gigantesca farfalla, attratta più volte dalla luce, si era ormai
bruciata le ali. Presi a cercarla e la trovai sul pavimento priva di vita. Quando
la sollevai, il suo corpo, già in parte rosicchiato brulicava di quelle
minuscole e grige formiche nane, che qui si ritrovano nello zucchero, nelle
scarpe, nelle calze, nella scatola delle sigarette e nel letto, e sulla cui
selvaggia avidità di preda si impara presto a scrollare le spalle, come sulla
crudeltà dei cinesi, sulla falsità dei giapponesi, sulla mania di rubare dei
malesi e su altri piccoli e grandi mali dell’Oriente.”
Non che in questo brano vi siano
errori ― a parte quel “grige” che nel libro è scritto proprio con questa grafia,
senza “i” ― e avevo pensato di citarlo per rimarcare come anche ai primi del ‘900
gli stereotipi sui popoli orientali fossero simili agli attuali, ma può
costituire anche un esempio della maniera, non sbagliata, ma perlomeno discutibile
di come sono inserite le virgole in tutto il testo.
Bene, ho un’oretta da far
passare e quasi quasi, per rifarmi la bocca con uno stile più maturo, mentre
riporrò questo volumetto sullo scaffale lascerò che il Siddharta mi resti attaccato alla mano e ne rileggerò qualche
pagina a caso…
Il Lettore
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